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Videocrazia


La società videocratica
in L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario
«Libertaria 2014»
a cura di Luciano Lanza
(Mimesis Editore 2013, pp. 230)
Pagine 67-71

La nuova serie di Libertaria, diventata un annuario, si apre con una riflessione a più voci e a diverse voci sulla fecondità e attualità dell’anarchismo.

«Oggi il pensiero anarchico si presenta come uno dei più originali e convincenti in un contesto caratterizzato dalla “crisi delle ideologie”. E non è un caso che l’anarchismo si sottragga a questa crisi generalizzata: non è mai stato un’ideologia nel senso pieno del termine, ma una teoria e una pratica della libertà, dell’eguaglianza e della diversità. Ed è anche per questo suo aspetto poliedrico e al contempo omogeneo (contraddizione solo apparente) che è riuscito a influenzare quasi tutti i campi del sapere e dell’arte contemporanei. Incredibile a prima vista, ma vero»
(Dalla quarta di copertina)

Realtà / Simulacro

Quanti pensano che si dia una realtà del tutto autonoma dalla semantica e dalla comunicazione non comprendono che il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono  «il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine» (Guy Debord, La société du spectacle, Gallimard, 1992 [1967], § 34). Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale» (Ivi, §§ 4 e 6). La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.

È rimuovendo la realtà/simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in un parola, non rassegnarsi. In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» (Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina Editore 1996 [1995], pp. 143 e 137). È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.

Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (La société du spectacle, § 66), una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare. Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» (Opere cinematografiche, Bompiani, 2004, p. 135), una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (La société du spectacle, § 2). In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007 [1976], pp. 77 e 81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (Ivi, p. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (Ivi, p. 35). È esattamente quanto sta accadendo -anche con l’euro- negli anni Dieci del XXI secolo.

Einblicke

di Arnold Gehlen
(Gesamtausgabe, Band 7)
Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978
Pagine 589

Einblicke, impressioni e sguardi sul presente, elaborati da Gehlen in venticinque anni (dal 1950 al 1976) di interventi, conferenze, articoli, analisi, tutte caratterizzate da una estrema lucidità nella comprensione delle radici e delle conseguenze dei fatti sociali e culturali.

Il fenomeno che salta subito agli occhi è naturalmente la massificazione inarrestabile della vita interiore e delle strutture collettive. Le società appaiono a Gehlen sempre più divise fra una minoranza di persone colte e avvertite e una maggioranza dedita solo al lavoro e allo svago mediatico, in particolare televisivo. La cultura di massa sarebbe caratterizzata soprattutto da tre elementi: la carenza di creatività e di fantasia; l’assenza della dimensione tragica; il rifiuto di qualunque complessità poiché «die Massenkultur darf nicht austrengen. Sie darf keine Denkprobleme aufwerfen [la cultura di massa non deve costare fatica. Essa non deve sollevare alcuna riflessione problematica]» (p. 41).

Lo svago diventa uno degli strumenti di dominio sulle masse. Le quali però, lungi dall’essere soltanto le vittime di tali tendenze, diventano le protagoniste della più formidabile coercizione sociale mai verificatasi. Su ciò Gehlen si distacca nettamente dalle analisi dei Francofortesi. Egli sottopone infatti a critica due delle idee dominanti nella contemporaneità: la legge della maggioranza e l’eguaglianza naturale degli uomini. I pericolosi effetti della prima si osservano quando il principio di maggioranza viene indebitamente esteso dall’ambito suo proprio, che è quello politico, a settori come l’arte, la scienza, l’educazione. In questo caso avviene qualcosa di singolare: il ritorno alla pura forza, alla «Hegemonie des Kopfzahlstärksten [egemonia dei numericamente più forti]» (383). Al pericolo totalitario insito in tale primato naturale bisogna opporsi apertamente, ribadendo il principio culturale secondo cui «die quantitative Minorität wird zur qualitativen Majorität [la minoranza quantitativa diviene maggioranza qualitativa]» (107).

Anche il principio di eguaglianza sociale rivela sempre più il suo lato d’ombra, quando lo si fa valere in settori come quello etico, culturale, pedagogico. Che tutti siano capaci di tutto, che il sapere non comporti fatica, che l’aggressività sia soltanto un effetto sociale e non anche un necessario corredo biologico, sono solo alcune delle ingenuità antropologiche che dominano il Moderno sulla scorta degli equivoci di Rousseau. Dall’affermazione che «alle Menschen gleich sind [tutti gli uomini sono uguali]» è stato dedotto che essi «auch alle gut sind [siano anche tutti buoni]» e quindi «konnte man die gesellschaftlichen Ungleichheiten zugleich als widernatürlich wie als moralisch verdorben hinstellen [si poté far passare la diseguaglianza sociale per qualcosa di contronatura e moralmente vizioso]» (380).
L’idea di eguaglianza così intesa mostra tutta la forza di una vera e propria fede, tanto che risulta «unmöglich, sich als Atheist der egalitären sozialreligion zu bekennen [impossibile professarsi atei della religione sociale egualitaria]» (384). Qualunque accenno critico viene subito giudicato come una pericolosissima eresia sociale, come un sentimento disumano o come una bieca difesa di antichi privilegi. La religione egualitaria produce i tipici riti umanitaristici i quali, lungi dall’aver prodotto una convivenza più pacifica, hanno scatenato la violenza sociale in tutte le sue forme: privata, criminale, politica. Dalla Rivoluzione francese e dal Romanticismo in avanti sentimentalismo e ferocia hanno proceduto insieme a privare gli individui e i gruppi di qualunque misura etica e tolleranza pragmatica. Allorché un’idea così astratta come l’eguaglianza naturale degli uomini assume il potere nella storia, subito si apre un nodo insolubile di problemi poiché il livellamento e l’accordo -fra gruppi etnici, economici, religiosi- rimane su un livello quasi esclusivamente ideologico, con la tragica conseguenza di riattivare ogni volta i conflitti rimossi e repressi ma non risolti. Tornano quindi oggi più di prima le guerre religiose e tribali, dall’Africa all’Europa, col ritornante razzismo nei confronti delle culture non cristiane.

Ai frutti avvelenati e amari dell’utopia che sempre inevitabilmente ricade nel più antico degli atti umani, il dare la morte; al delirio di onnipotenza delle pedagogie comportamentistiche che nel trattare i discenti come macchine li rendono socialmente irresponsabili e pronti al dominio del principio gregario (un esempio clamoroso è il Sessantotto, i cui protagonisti furono vittima di una «geistige Abhänngigkeit von den Massenmedien [dipendenza mentale dai massmedia]», che produsse «einem wichtigtuerischen, geschraubten Jargon [un gergo esibizionistico e affettato]» (316), a tutto questo Gehlen oppone la forza e la coerenza di un’antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura il proprium dell’animale uomo. Un’antropologia che quindi non si illude di distruggere il giogo delle circostanze e non inganna nessuno sul comune destino di fatica e di morte dell’uomo. Essa coglie la complessità del fenomeno umano, privandosi delle comode scorciatoie dell’ideologia, del riduzionismo e delle fedi ma proprio per questo è in grado di fornire soluzioni e punti di vista – Einblicke– ancora attuali.

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