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Confino

Recensione a:
Aa.Vv.
KRISIS
Corpi, Confino e Conflitto

Catartica Edizioni, 2020
pagine 120
in Studi sulla questione criminale
24 settembre 2020

Ho collaborato a questo volume e ho presentato volentieri in una rivista di studi giuridici e sociologici i contributi degli altri autori, i quali pur con tonalità e direzioni di pensiero differenti convergono nella analisi del contagio.
È questa la parola magica, la formula aurea, il passe-partout dell’obbedienza praticata su di sé e invocata sugli altri. Quando infatti vengono negati persino l’ultimo baluardo della socialità, il dolore intorno al defunto e il pianto rituale sul suo cadavere, vuol dire che mediante il terrore del contagio l’autorità è riuscita a penetrare nel luogo sacro della vita, assorbendola interamente ai propri parametri e obiettivi.
Altri ambiti fondamentali della distruzione del corpo collettivo sono il lavoro, la scuola, l’università, l’annullamento degli spazi nei quali tali attività si esercitano, il divieto della relazionalità spaziotemporale in cui consiste la vita quotidiana. La ‘quarantena’ o più esattamente il confino al quale siamo stati costretti senza aver commesso alcun reato, non è stata resa più leggera dalle tecnologie di comunicazione e lavoro a distanza ma è stata resa possibile proprio per mezzo di tali tecnologie; è evidente che la chiusura universale di centinaia di milioni di individui umani «non sarebbe potuta essere neanche lontanamente pensabile se non fossero esistiti questi tipi di comunicazione altra, o almeno non la si sarebbe fatta scorrere acriticamente, accettandola in tutto e per tutto  in ogni sua sfumatura, anche quelle più contraddittorie» (A. Kaveh, p. 15).

Questo è l’indice del libro:

A Peste, Fame et Bello
Capitalocene epidemico e confinamento dei corpi
di Afshin Kaveh

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
di Alberto Giovanni Biuso

Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano
di Xenia Chiaramonte

La rana e lo scorpione
O della pandemia della subalternità
di Cristiano Sabino

Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo: l’assoggettamento volontario
di Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil

Doveri e diritti dei docenti universitari

Insieme a Monica Centanni, e anche su sollecitazione di alcuni colleghi, abbiamo ragionato sulla nostra esperienza generale e su quella dell’ultimo semestre dello scorso anno accademico; abbiamo consultato le principali leggi di riforma dell’istruzione e dell’università che si sono susseguite negli anni; abbiamo attinto al confronto avuto in questi mesi con i nostri studenti.
Ne è scaturito un testo che abbiamo poi sottoposto al controllo di vari giuristi e che vorrebbe costituire una Guida per i docenti universitari che intendono svolgere pienamente il loro compito didattico e civile anche in tempi complessi come quelli che ci troviamo a vivere
Pubblico qui le Premesse e i dieci punti della Guida; in Corpi e politica si può leggere la versione integrale del documento, con l’Appendice giuridica e l’indicazione di alcuni testi di approfondimento da noi pubblicati negli scorsi mesi.

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Iuxta legem. Dei doveri e dei diritti dei docenti universitari, in tempo di epidemia. 
Una guida

di Alberto Giovanni Biuso e Monica Centanni

“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 33

Una guida – esito sintetico della nostra esperienza, maturata ed esercitata da noi personalmente e concretamente nel corpo vivo dei corsi che abbiamo tenuto nella primavera/estate 2020 all’Università di Catania e all’Università Iuav di Venezia. Abbiamo sintetizzato la nostra presa di posizione in questo testo su sollecitazione di molti amici e sodali, ‘compagni di scuola’ dei nostri e di altri Atenei.
La scorsa primavera, per spirito di responsabilità istituzionale e con la piena consapevolezza della difficoltà della situazione, abbiamo tenuto a spiegare e argomentare le nostre prese di posizione prima ai nostri studenti e poi agli organi di governo delle nostre Università, e in qualche caso siamo stati chiamati direttamente ‘in causa’, a renderne conto.
Specifichiamo che, avendo applicato punto per punto i principi e i comportamenti che ora abbiamo raccolto in questo Decalogo, pur essendo stati richiamati a dar ragione delle nostre scelte, non siamo stati sottoposti ad alcun provvedimento sanzionatorio da parte degli organismi di disciplina delle nostre Università. Comunque, a garanzia di tutti, prima di condividere questa nostra elaborazione, abbiamo sottoposto il Decalogo ad amici e colleghi giuristi, i quali hanno verificato la correttezza, legale oltre che di principio, delle nostre affermazioni. Ne abbiamo inoltre parlato con alcuni dei nostri studenti, i quali ci hanno dato delle indicazioni molto significative.

Premesse

La prima premessa è il perdurare della condizione di emergenza collegata all’epidemia Covid, la conseguente affermazione dello stato di eccezione, nazionale e internazionale, che ad essa conseguirebbe, e la mancanza di chiarezza nelle indicazioni sulla didattica universitaria.
La seconda riguarda il fatto che non tutti i docenti universitari sono disposti a subire passivamente i multiversi e contradditori diktat impartiti da una qualsiasi autorità sulle modalità di svolgimento delle lezioni universitarie.
La terza è relativa al fatto che i doveri e i diritti dei docenti universitari sono statuiti dalla Costituzione, che rappresenta il vertice nella gerarchia delle fonti del diritto e non può certo essere contraddetta – esplicitamente o implicitamente – da una disposizione normativa di rango secondario, come i regolamenti emanati dai singoli Atenei o un qualsiasi altro provvedimento amministrativo.
Tutte le leggi che la Repubblica ha emanato sull’insegnamento universitario confermano – e altro non potrebbero fare – la lettera e lo spirito dell’art. 33 della Costituzione (si veda, in Appendice, una sintesi delle leggi sul punto che ribadiscono il dettato costituzionale). Di fatto, gli obblighi dei docenti sono indicati nei regolamenti dei singoli Atenei in modo di caso in caso più o meno preciso. Tutto ciò che non viene esplicitamente regolamentato è lasciato alla coscienza civile e alla competenza didattica dei docenti stessi, nella piena osservanza anche degli articoli 2 e 34 della Costituzione che stabiliscono: il rispetto dei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; il fatto che “la scuola [sia] aperta a tutti”; il fatto che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. In questo contesto è importante ricordare che Concetto Marchesi fra i Costituenti nel presentare l’articolo 33 – in cui è detto che “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione” – sostiene che esso è “ben lontano dal proporre e dal desiderare che lo Stato intervenga come ordinatore degli indirizzi ideologici, dei metodi di insegnamento [c.vo nostro] e di tutto ciò che possa intaccare o menomare la libertà di insegnamento, la quale invece deve essere in tutti i modi rispettata e garantita”.

Una guida, in dieci punti

I. Libertà di insegnamento
Il docente ha il dovere e il diritto di svolgere la sua attività di insegnamento e di ricerca, individuando le modalità e i metodi più idonei rispetto alla materia e all’organizzazione interna del corso, all’interno dell’organizzazione dei Dipartimenti.
Il docente ha altresì il diritto di rifiutarsi di svolgere le lezioni in modalità non compatibili con le linee etiche e deontologiche che definiscono la qualità del suo insegnamento. 

II. Contatto e relazione con gli studenti
Il docente ha il dovere di avviare un contatto diretto con gli studenti iscritti al corso, stabilendo una relazione individuale o di gruppo e con i mezzi che ritiene più idonei per chiarire i contenuti del programma, fornendo ogni indicazione utile e tutti i materiali per gli approfondimenti. Il dovere della relazione diretta, personale e di gruppo, con la classe e con i singoli studenti è tanto più vitale e importante quanto più anomale sono le condizioni in cui ci si trova a insegnare. Il docente ha il dovere di condividere con gli studenti del corso le linee e la metodologia per lo studio dei testi in programma e per eventuali ricerche e approfondimenti. 

III. Diritto di obiezione di coscienza rispetto alla didattica a distanza
Il docente – che non abbia ab initio stipulato un contratto che preveda la sua accettazione di modalità di insegnamento telematico – ha il diritto di esercitare obiezione di coscienza rispetto a qualsiasi obbligo imposto che sia contrario ai suoi metodi e ai suoi principi. Rientra a pieno titolo nel principio della libertà di insegnamento del docente sostenere e argomentare in tutte le sedi, dal confronto con gli studenti alle sedi istituzionali, il fatto che la didattica a distanza, dal punto di vista concettuale, è un monstrum che impone la consegna incondizionata di corpi e di menti alla nuova modalità di insegnamento e comporta lo snaturamento del carattere della lezione, per sua natura interattivo e sinestetico. All’orizzonte dell’ideologia securitaria della immunitas si profila l’eliminazione del contatto fisico tra docente e studenti, e tra studente e studente. 

IV. Diritto al rifiuto dell’integrazione impropria della dotazione retorica
Il docente ha il dovere di svolgere lezioni e di essere preparato a questo compito sia dal punto di vista dei contenuti sia dal punto di vista del possesso della necessaria strumentazione retorica. Viceversa, il docente non ha alcun dovere di istruirsi né di ‘aggiornarsi’ su altre tecniche di comunicazione estranee alla lezione universitaria, come gli spot video o i documentari televisivi, attività per le quali sono richieste tecniche e retoriche specifiche. Ogni genere ha la sua retorica. Se gli organi di governo dell’Ateneo adottano la decisione di attivare cicli di lezione “televisive”, arruolino figure di ‘divulgatori’ formati tecnicamente ad hoc, senza imporre al docente di affinare tecniche performative improprie. Per assurdo (ma non tanto): perché non far recitare la propria lezione a un attore professionista, con adeguata assistenza di registi e di tecnici luci e audio? E perché non far declamare le proprie lezioni in inglese – richieste in molti corsi – da un ‘alias’ madre-lingua? È comunque dovere/diritto del docente attivare e promuovere, anche fra gli studenti, la consapevolezza critica che la scelta del canale ‘televisivo’ – e del metodo e della retorica connessi a quella modalità di comunicazione – si pone come modalità alternativa rispetto alla tradizione di una paideia positivamente consolidata da secoli in Italia e in Europa e, di fatto, incentiva l’assimilazione delle nostre università con le università telematiche parificate, che in Italia già proliferano in modo abnorme, grazie a scelte legislative scellerate. 

V. Diritto al rifiuto della registrazione delle lezioni
Il fatto, positivo e auspicabile, che le lezioni possono essere trasmesse agli studenti impossibilitati a partecipare fisicamente mediante mezzi telematici via streaming, non comporta né include alcun obbligo di registrazione su piattaforme private (Teams, Zoom e analoghi software). Va ricordato che in qualsiasi situazione e circostanza, i contenuti e le modalità delle lezioni sottostanno inoltre alle norme sulla riservatezza (privacy) e in quanto tali non possono essere registrate senza il consenso del titolare della lezione stessa (neppure tramite semplici registratori audio). Più in generale, va rivendicato il principio che l’attività didattica è proprietà intellettuale del docente, che può decidere di cederne i contenuti – se lo ritiene opportuno – ma può rifiutarsi di farlo. In particolare, ogni lezione costituisce un’espressione intellettuale che deve essere garantita nella sua interezza, senza estrapolazioni, tagli, inserimenti che rischiano di stravolgerne contenuti, intenzioni, obiettivi. Nulla di tutto questo è garantito dalla registrazione delle lezioni su piattaforme private che ne diventano ipso facto le detentrici anche economiche, con tutte le conseguenze sull’utilizzo di opere dell’ingegno (spesso non pubblicate) da parte dei gestori delle piattaforme private. Alla luce di tutto questo, l’obbligo di svolgimento delle lezioni (in presenza o in streaming) non comporta alcun obbligo di registrazione delle lezioni stesse. Il docente può quindi rifiutarsi di registrare una, più o tutte le lezioni del corso che svolge.

VI. Diritto/dovere al rifiuto di controllo (burocratico) passivo
Il docente ha il diritto/dovere di sottrarsi a qualsiasi forma di controllo da parte degli uffici delle modalità e degli orari degli accessi alle piattaforme didattiche – un abuso che implica la riduzione in un ruolo umiliante per controllori e controllati. Di converso il docente ha il dovere di rispondere puntualmente alle osservazioni dei suoi studenti, del direttore e dei colleghi del corso di studio, a richieste di chiarimento e di delucidazione sui contenuti e sulle modalità del suo insegnamento.

VII. Diritto/dovere al rifiuto di controllo (poliziesco) attivo
Il docente ha il diritto/dovere di sottrarsi a qualsiasi ordine che lo porti a svolgere azioni di controllo sulle presenze, sulle attitudini, sui costumi degli studenti. In particolare, ha il diritto/dovere di sottrarsi al ruolo di controllore, reale o informatico, che è un ruolo implicitamente poliziesco, del tutto estraneo all’accordo fiduciario con gli studenti (ed estraneo anche alle sue mansioni) che, se necessario, va attribuito ad altre figure.

VIII. Difesa della libertà di accesso allo spazio universitario e permeabilità degli spazi a tutti i cittadini
È dovere del docente difendere la libertà di accesso agli spazi universitari: l’emergenza non può diventare una prova generale di sequestro e impermeabilizzazione degli spazi – aule, biblioteche, spazi comuni – alla libera circolazione di tutti cittadini. La limitazione della possibilità di accesso a tali luoghi di cultura equivale, infatti, a uno snaturamento degli stessi, istituzionalmente destinati all’uso pubblico, e a un conseguente depauperamento della cittadinanza, titolare ultima, nel suo insieme, del diritto di disposizione di quegli spazi.

IX. Rifiuto di collaborare all’aumento delle diseguaglianze, significato e funzione sociale e politica della didattica
Il docente ha il diritto/dovere di opporsi con tutti i mezzi a sua disposizione alla possibilità che il suo insegnamento accresca il divario di classe, economico e sociale, tra i suoi studenti. In questo senso ha il dovere di allenare il senso critico suo, degli studenti e dei coordinatori della didattica dei suoi corsi in merito all’aggravamento del divario che la didattica a distanza, di fatto, provoca. La pratica didattica – la didattica reale, la didattica in presenza – è una delle espressioni più chiare e feconde del principio politico-educativo che Hannah Arendt ha sintetizzato nell’atto di “uscire di casa” – prima condizione del passaggio dell’individuo da idiotes – persona che gestisce i suoi interessi privati all’interno dell’ambiente domestico o della comunità protetta – a polites ‘cittadino’, ovvero essere umano a pieno titolo che agisce nello spazio pubblico. Le istituzioni sono chiamate a educare politicamente i cittadini e non a favorire la tendenza all’infantilizzazione del corpo sociale: la didattica a distanza incentiva il ritorno al nido domestico degli studenti, la ritrazione in una dimensione che favorisce la permanenza all’interno del clan, anziché affrancare lo studente dai costumi familiari e locali. Le città italiane sono per storia e per vocazione storica “cittadelle del sapere” e in questo senso va incoraggiato, anche con sostegni economici consistenti e mirati, lo sviluppo della residenzialità di docenti e studenti nelle città universitarie.

X. Diritto/dovere alla parrhesia e denuncia della microfisica del potere
Proprio del docente è il diritto/dovere di esprimere con l’efficacia di cui è capace il suo pensiero critico rispetto alle regole vigenti: si tratta di un diritto/dovere proprio del cittadino, che il docente universitario deve sapere esercitare a un grado superlativo. Ciò vale anche sotto il profilo pedagogico, perché primo impegno del docente universitario è l’educazione alla critica e alla parrhesia e il dovere di tenere alta la propria intelligenza critica e allenare lo spirito critico degli studenti. Nella consapevolezza che le più insidiose forme di imposizione passano per via amministrativa e che la “microfisica del potere” si disloca nella parcellizzazione di regolamenti e circolari, il docente ha il diritto/dovere di argomentare nei confronti degli organi di governo dell’ateneo e, soprattutto, con gli studenti la resistenza a qualsiasi forma di controllo e la possibilità di rigetto delle modalità imposte.

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Il documento continua con i riferimenti giuridici e i suggerimenti di lettura. La versione integrale si trova qui:  Pdf del documento

Vita e salute

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
in Krisis. Corpi, Confino e Conflitto
Catartica Edizioni, 2020, pp. 120
Pagine 27-54

Questo volume, a cura di Afshin Kaveh, raccoglie cinque saggi che costituiscono una prima analisi critica di quanto è avvenuto e ancora accade in relazione al Covid19. Da prospettive diverse e interagenti abbiamo cercato di individuare le scaturigini dell’epidemia, il manifestarsi in essa di qualcosa che maturava da molto tempo, la miseria della sua gestione da parte delle autorità e dell’informazione, il nesso tra natura, politica, malattia, i possibili sviluppi, la crisi che il morbo ha generato in ogni anfratto del corpo collettivo.
È il testo nel quale ho cercato di esprimere con la maggiore chiarezza e completezza possibili ciò che penso dell’attuale momento storico. Anche se indirettamente, ho cercato di far emergere la forza psicosociale del virus come manifestazione di una potenza ancestrale, del bisogno di dogmi in una società del disincanto, dell’intimidazione moralistica come rito collettivo che dà forza a chi lo pratica in contrapposizione agli “egoisti, malvagi e indifferenti”. Il Covid19 come religione, insomma.

Il saggio è articolato in sette paragrafi:
-La vita di Don Abbondio
-La vita
-Il potere
-Panico televisivo
-Il corpo cancellato di Socrate
-I luoghi
-Infine, l’Intero, la Φύσις

[Una versione più sintetica e liberamente leggibile di questo saggio si trova qui: Epidemie]

 

Psicopatologie razziali

Il numero 355 (maggio/giugno 2020) della rivista Diorama Letterario ospita un articolo di Alain de Benoist dal titolo Il nuovo regime dell’apartheid.
È un’analisi acuta e critica, che mostra con chiarezza il vero e proprio coacervo di contraddizioni che la questione del genere e della razza suscita, sino a esiti francamente psicopatologici.
Quella descritta in queste pagine sembra infatti una commedia dell’assurdo e invece è ben vera e ben dentro la cultura contemporanea. Ed è anche una straordinaria eterogenesi dei fini, che tramite il politicamente corretto sta restituendo piena legittimità al concetto di razza proprio per opera di chi crede di combattere contro il razzismo.

Un brano:
«Lʼetnicizzazione dei rapporti sociali costituisce uno dei sintomi maggiori di una società in via di atomizzazione e di dissoluzione generalizzata, in cui gli uni e gli altri tentano di ricollegarsi ad identificazioni culturali che sono a loro volta in via di esaurimento.
Per una volta ben ispirato, il saggista Jean-Loup Amselle scrive: “Esistono al contempo una razzializzazione, intrapresa dai discriminanti, di coloro che discriminano, e una razzializzazione reciproca, speculare, che è essa stessa opera dei discriminati o di coloro che parlano a loro nome. La Francia sembra ormai entrata in un processo di separazione etnica e razziale che serve da sostituto della coscienza di classe di un tempo”.
In questo mondo in cui sia lʼassimilazione che la laicità sono già morte de facto, lʼautosegregazione geografica, e quindi la suddivisione etnica, è in realtà già allʼopera.
Nelle sue Note sulla questione degli immigrati, del 1985, Guy Debord scriveva: “Gli immigrati hanno il più bel diritto per vivere in Francia. Sono i rappresentanti dellʼespropriazione; e lʼespropriazione è a casa sua in Francia, a tal punto vi è maggioritaria e quasi universale. Gli immigrati hanno perso la loro cultura e il loro paese, molto notoriamente, senza poter trovarne altri. E i francesi sono nello stesso caso, soltanto un poʼ più segretamente. […] In questo orribile nuovo mondo dellʼalienazione, non c’è più nessun altro se non immigrati”».

 

Passacaglia

Favolacce
di Fabio e Damiano D’Innocenzo
Italia, 2020
Con: Elio Germano, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggani, Gabriel Montesi, Barbara Chichiarelli, Barbara Ronchi, Lino Mussola
Trailer del film

Famiglie, scuole, villette di Spinaceto, alla periferia di Roma. Ma potrebbero essere ovunque. Ovunque è infatti l’infantilismo dei cosiddetti adulti, l’inquietudine dei cosiddetti ragazzini, la rinuncia all’educazione, sostituita dall’amicizia tra genitori e figli o dalla violenza tra genitori e figli. Ovunque l’esibizione di patetici status symbol. Ovunque la ristrettezza e la volgarità. Un parlare biascicato o urlato emerge infatti da inquadrature parziali, da primissimi piani, da riprese dall’alto, da scorci angolari, da salti e ritmi temporali arbitrari. A suggerire che non di realtà si tratta ma di fantasie, incubi, sogni e favolacce.
Le stesse favole una volta raccontate da Pasolini, i cui personaggi sono diventati i genitori di questo film, pezzenti nell’anima.  Le stesse favole raccontate da Emma Dante, con le sue famiglie folli e spaurite. Favole narrate con la cucitura del cibo e della lettura. Il cibo continuamente consumato e i cui effetti sembrano quelli di un veleno. La lettura  di un diario ritrovato e interrotto, che narra le domande, lo stupore, l’incertezza, la limpidezza e la paura di una ragazzina. E che alla fine chiede scusa per la storia che è stata raccontata.
«Il film è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata». La confusione è grande, la necessità pure. Gli sguardi, i gesti, i silenzi, le cadenze, gli occhi di bambini che stanno diventando adolescenti sono la vita stessa che osservandosi giustamente si nega. E si chiude sulla Passacaglia della Vita.

Milizia Volontaria per la Salute Nazionale (MVSN)

La pallina sul piano inclinato continua a scendere e, inevitabilmente, ad acquistare velocità.
60.000 delatori in divisa, assunti nei modi più oscuri e incaricati di vessare i cittadini: «Aiutare nell’organizzazione del distanziamento sociale. […] In caso di assembramenti non potranno chiedere i documenti ma solo segnalare a vigili e forze dell’ordine».
Una simile operazione significa, tra l’altro, che il Governo italiano ha in mente una Fase2 a tempo indeterminato. Immaginiamo che i sostenitori dell’esecutivo, compresi gli estensori di appelli pro-Conte, vedano in tutto questo una garanzia democratica.
A molti di noi sembra invece una vera e propria MVSN, Milizia Volontaria per la Salute Nazionale.
L’avvocato milanese Peppe Nanni, della redazione di corpi e politica, ha analizzato questa ennesima decisione politico-simbolica in un articolo che sottoscrivo per intero.
Invito anche a leggere un documento del Comitato Rodotà, un testo assai chiaro stilato da prestigiosi giuristi e costituzionalisti, un esempio di scienza giuridica al servizio della salute fisica e politica dei cittadini.
Qui una sua presentazione in corpi e politica: Si scrive salute. Si legge democrazia e qui il pdf.
Qui sotto l’intervento di Nanni:

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Le spie dell’anima e la guardia della libertà
con una dichiarazione dello staff di poliziotti.it “congiunti di uno stato etico? No grazie!” #IoNonSanziono
[corpi e politica, 26.5.2020]

L’iniziativa di Boccia & De Caro, arruolare 60.000 disoccupati per creare una milizia di controllo sullo stile di vita degli italiani, sta incontrando in queste ore un coro tanto corposo di proteste che probabilmente dovrà essere ritirata. Intanto i due geniali promotori si diffondono in spiegazioni che suonano a conferma sia del loro egotismo liberticida (“le nostre Ordinanze devono essere fatte rispettare”), sia della matrice moralista e robottizzante (“si tratta soltanto di distributori di buona educazione”).

Il vero scandalo consiste nel fatto che queste proposte sono state ideate e spudoratamente comunicate, quando invece dovrebbero essere radicalmente impensabili. Sono la spia di cosa si intende per normalità, cioè il regime di banalità del male, dove la delazione è un valore riconosciuto al servizio della tristezza sociale sancita per regolamento.

Nessun controllo sulle grandi unità produttive, dove fatalmente si innesca buona parte dei contagi, nessun inviato di stampa e tv a verificare le condizioni di lavoro delle aziende agroalimentari: il patema della classe piùomenodirigente è suscitato dalla constatazione che qualche incosciente se ne approfitta e frequenta i tavoli esterni dei bar solo perché loro gli hanno concesso munificamente di riaprire. Un abuso della fiducia paternamente elargita, l’avessero mai immaginato, quelle sentine del vizio sarebbero rimaste sprangate per generazioni o provvidenzialmente già fallite.

Come dice il sindaco di Milano, esercitandosi in pedagogia scandita, si deve uscire per “la-vo-ra-re”, in modalità rigida di penitenza, mai dimenticare che il virus è una punizione divina, un flagello che ci ha colpito perché la gente non sa stare al proprio posto nella nuova catena realvirtuale di montaggio: solo il sacrificio di chi si ammala immolandosi sul posto di lavoro è gradito agli dei, o almeno ai loro rappresentanti in Terra, ma divertirsi o addirittura assembrarsi sono attività pericolose, focolai che possono degenerare facilmente in attività politica o nella blasfema gioia di vivere, che sono poi la stessa cosa, come insinuava quel pervertito untore di Baruch Spinoza.

Quindi quale miglior rimedio che arruolare la parte più disperata del gregge indisciplinato e metterla a fare il guardiano delle Tavole della Legge, versione simil iraniana della Polizia Religiosa a caccia di (s)mascherine? La servitù volontaria, “asservire gli uni per mezzo degli altri”. Basta investirli con un titolo appropriato nella neolingua, dopo i desueti “Ausiliari della sosta”, adesso è il turno degli “Assistenti del distanziamento”, dotati di righello d’ordinanza.

Solo averlo pensato è un crimine contro l’intelligenza, ben più che contro l’umanità. Che rende per contrasto più appariscente un fenomeno tutt’altro che scontato, la presa di posizione assunta da alcuni membri di quei corpi armati al riparo del quale gli oligarchi confidano di vivere al sicuro e che invece danno segni di non aver dimenticato di essere, prima di tutto, cittadini tra i cittadini:

“Se quando abbiamo scelto di arruolarci nella Polizia ci avessero detto che un giorno ci sarebbe toccato agire come cani da pastore o, peggio, da guardia di una sorta di muro di Berlino, ci saremmo fatti grasse risate […] Invece, a distanza di oltre trent’anni (già, chi scrive non è una #GiaccaBlu di primo pelo, siamo abbastanza adulti e con una certa esperienza) è proprio quello che sta accadendo e siamo increduli, attoniti […] Siamo consapevoli della situazione emergenziale a causa del #Covid19, ma ancor più lo siamo dell’assurdità di certi provvedimenti amministrativi e di certe (deliranti) ordinanze emesse dalle autorità locali. Ci siamo espressi contro l’utilizzo dei droni (una follia) per la caccia all’uomo, utili e strumentali solo ed esclusivamente alle manie di protagonismo di alcuni Sindaci scatenati in una gara a chi è più realista del Re (altro prodotto di una politica stupida e insensata sulla gestione della sicurezza pubblica) […] Non vogliamo essere #Congiunti di uno Stato Etico in stile DDR, non vogliamo essere complici di questo sfascio sociale”.
Lo Staff di Poliziotti.it Congiunti di uno Stato etico? No, grazie! #IoNonSanziono

Ecco, proprio mentre inquietanti segnali rendono minaccioso l’orizzonte – mentre intellettuali inaciditi buttano a mare il loro trascorso amore per la libertà in cambio di uno scampolo di incerta sicurezza – una parte delle guardie di sicurezza avverte che senza libertà non c’è niente da salvaguardare.

Forse si stanno ridisegnando nuovi confini e la linea di frattura passa attraverso ciascuno di noi, tra vecchie abitudini e desideri rinnovati, tra contiguità logorate e alleanze in statu nascendi? Forse sono miraggi, certo passaggi che portano fuori dalla quarantena mentale, dal confinamento categoriale, dal distanziamento disciplinare dell’immaginazione collettiva.

Servi

Étienne de La Boétie
Discorso sulla servitù volontaria
(Discours de la servitude volontaire o Contr’un)
Trad. di Fabio Ciaramelli
Chiarelettere,  2011
Pagine XXIII – 71

Ai pochi che amano davvero la libertà

La questione fu posta con chiarezza e ironia da d’Holbach: se «quella di strisciare è la più difficile delle arti» (Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani, qui in Appendice, p. 65) perché un numero sterminato di esseri umani vi si sottomette? La risposta di questo classico libriccino di Étienne de La Boétie è molto chiara sin dal titolo: si tratta di volontà. Sta qui, in questa struttura psicosociale, la forza e la debolezza della riflessione di La Boétie (1530-1563), il quale è convinto che «per avere la libertà occorre solo desiderarla, è necessario un semplice atto di volontà» e che dunque sono «gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (10). La posizione è talmente radicale da indurre l’autore alla seguente limpida formula: «Potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo. Siate risoluti a non servire più ed eccovi liberi» (14).
Bisogna tuttavia chiedersi perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi. Il valore del testo consiste nel cercare di articolare alcune risposte a questa domanda.
Innanzitutto l’abitudine, la quale se «in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così grande come nell’insegnarci la servitù» (22). L’abitudine è a sua volta in gran parte fondata sull’educazione, che per La Boétie è in realtà «la prima ragione per cui gli uomini servono volontariamente» (32), educazione alla sudditanza che viene praticata sin dalla nascita. A tali elementi psicologici, familiari e ambientali si aggiungono quelli sociali, che consistono nelle strategie stesse del potere, prima delle quali è la distrazione, i ludi, i circenses, l’«aprire bordelli, taverne e sale da gioco» (35), oggi diremmo lo Spettacolo.
La Boétie accenna anche alla promessa e alla minaccia di paradisi e inferni nell’al di là e ai vantaggi, ai favori, al carrierismo e alle ricchezze che il servire comunque garantisce a chi ubbidisce con slancio e radicale sottomissione.

Il quadro fornito dal Discours è molto efficace nel disegnare i pericoli, gli svantaggi, l’incertezza e la sciagura del servire i potenti, la cui azione è sempre caratterizzata da imprevedibilità e arbitrio, proprio perché al potere è essenziale far vivere nell’insicurezza i sottomessi: «È un’estrema disgrazia esser soggetti a un padrone della cui bontà non si può mai esser sicuri poiché ha sempre il potere d’incattivirsi a proprio piacimento» (4). Se nonostante questo i singoli e le collettività si pongono al servizio di persone quasi sempre tanto rozze quanto feroci, sino a rinunciare più o meno integralmente alla libertà, che è un bene «così grande e piacevole, tanto che quando viene perduta si produce ogni male, e gli stessi beni che dopo la sua scomparsa permangono perdono interamente il loro gusto e sapore, corrotti come sono dalla servitù» (12), le ragioni debbono essere altrettanto radicali e non limitarsi al piano superficiale della volontà. Una tra le cause più importanti è la catena del comando, che così viene efficacemente descritta dall’autore:

Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno […] come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. […] Quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila, cui fanno fare carriera. […] Dopo costoro, ne viene una lunga schiera, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono a essa. […] Insomma, grazie a favori o vantaggi, a guadagni o imbrogli che si realizzano con i tiranni, alla fin fine quelli cui la tirannide sembra vantaggiosa quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà (44-46).

Il riferimento storico costante di La Boétie è naturalmente la monarchia, il potere monocratico la cui volontà è legge, lo Stato in cui non si dà divisione e bilanciamento dei poteri, dove i corpi sociali non godono di autonomia, almeno formalmente. Non a caso vi si parla sempre del tiranno. Questo non vuol dire che il discorso non sia e non rimanga di costante attualità anche per le democrazie contemporanee, la cui fragilità si mostra evidente nell’attuale frangente di sospensione dei diritti elementari, come quello di muoversi nello spazio urbano, di incontrare i propri affetti, di piangere i morti. Neppure i regimi totalitari del Novecento si erano spinti a tanto.
Il modello di La Boétie è invece la storia greca, con la sua passione per la libertà durata secoli: «In quei giorni gloriosi non ebbe luogo la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto piuttosto la vittoria della libertà sul dominio, dell’indipendenza sulla cupidigia» (9).
Il dramma del potere, la sua forza, sta anche nella complessità della natura umana e delle relazioni che individui e società intessono tra di loro. Per abbattere “il Tiranno”, i cui esemplari la storia umana sforna di continuo, bisogna prima di tutto comprendere il labirinto dell’autorità, senza illudersi di percorrere  scorciatoie psicologiche come quelle fondate sul primato cristiano della volontà, alla quale La Boétie concede troppo spazio.

Se la servitù appare così spesso “volontaria” è anche perché essa si radica nella necessità della salvaguardia dei corpi individuali e collettivi. Salvaguardia certo apparente, visto che il potere è per sua natura una macchina stritolatrice, il cui obiettivo non è la salute del corpo sociale ma la perpetuazione degli organi di dominio.
Gli umani sono dunque pronti alla «servitù volontaria», anche quando possiedono consapevolezze e competenze culturali. A che cosa è valso indagare e mostrare significato e necessità dei riti funerari in antiche culture se poi si accetta la negazione di tale significato e di tale necessità nel presente? A che cosa è valso conoscere la relatività dei paradigmi scientifici se poi si obbedisce all’ipse dixit di ‘esperti’ tra di loro in perenne e totale conflitto? A che cosa è valso dedicarsi agli studi su Marx, Nietzsche, Foucault, Canetti, Deleuze se poi si obbedisce in modo convinto e completo alle ingiunzioni di un’autorità confusa e contraddittoria, che nasconde i nomi dei propri ‘consulenti’ e manipola numeri, scenari, terrori? Tanto valeva leggere Sorrisi e Canzoni TV.
È la paura del morire che sta a fondamento della pervasività del potere. Quando l’autorità prospetta il rischio della morte se si disattendono i suoi comandi, la probabilità di essere obbediti cresce esponenzialmente. È per questo che ogni epidemia diventa un dono per chi comanda, una vera e propria manna, che sia discesa dal cielo, fuggita da laboratori, germinata dalla terra e dalla sua potenza. Un’epidemia infatti dissolve con il suo stesso nome i corpi collettivi nei quali la socialità si organizza, cancellando la serie di elementi ricchi, complessi, plurali nei quali il vivere consiste. 

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