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Catania, finalmente legale

Catania, la città dove lavoro, è uno dei luoghi più illegali d’Europa. Con le recenti amministrazioni guidate (si fa per dire) dal medico e farmacista personale di s.b. è ulteriormente precipitata nel caos, nella bruttura, nell’insicurezza, nel controllo mafioso. Ma questo solo sino al 30 ottobre 2009, quando all’alba le forze di polizia hanno restituito Catania alla legalità sgomberando con la violenza dei manganelli il centro sociale Experia, uno spazio occupato di via Plebiscito dedicato da anni al tentativo di riqualificazione sociale di uno dei quartieri più malavitosi della città.
Invito a vedere il filmato qui sotto e a leggere il testo scritto dalla Redazione di girodivite.it: Lo sgombero dell’Experia

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=PDxY-SGJ99w[/youtube]

Fortapàsc

di Marco Risi
Italia, 2008
Con: Libero de Rienzo (Giancarlo Siani), Valentina Lodovini (Daniela), Michele Riondino (Rico), Massimiliano Gallo (Valentino Gionta), Ernesto Mahieux (Sasà), Salvatore Cantalupo (Ferrara), Gigio Morra (Carmine Alfieri), Daniele Pecci (Il capitano Sensales), Ennio Fantastichini (Il sindaco Cassano), Renato Carpentieri (Il Prof. Amato Lamberti), Gianfelice Imparato (Il pretore Rosone)

Trailer del film

fortapasc

Non se ne può più di film che insultano la nostra gente meridionale -campana, calabrese, siciliana- ponendosi sempre dalla parte di singoli personaggi, in questo caso il giornalista “abusivo” (per sua stessa ammissione) Giancarlo Siani, di Torre Annunziata. I registi, gli scrittori, i filosofi, gli artisti -gli “intellettuali” insomma- non comprendono come la vendetta, una giustizia immediata e superiore alle lungaggini, ai cavilli, alla manipolazione propria dei tribunali, sia una giustizia migliore, più equa e soprattutto risolutiva dei conflitti. Conflitti che, peraltro, non possono essere eliminati e che costituiscono il sale e il sapore della nostra tenace vita mediterranea. O vogliamo ridurci alla noia paludata e triste dei Paesi scandinavi?

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Il pacco capitalistico

Oh bella, anche Ezio Mauro ammette che Grillo ha ragione. Non lo nomina, naturalmente, e le sue analisi utilizzano un linguaggio raffinatissimo, tecnico, alto. Quello di Grillo è plebeo, diretto e volgare la sua parte ma la sostanza è la stessa, benché -ovviamente- più radicale.
La verità è che il capitalismo sta facendo il suo mestiere, come sempre. In questo Marx non sbagliava. Il mestiere di creare enormi ricchezze per pochi e crisi cicliche -più o meno gravi- per tutti gli altri. Di Ezio Mauro non condivido l’ottimismo sull’Italia. Egli scrive infatti: «Ci siamo. I nodi che vengono al pettine, l’altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo, l’altro giorno in Francia, domani in Italia». No, no. L’Italia è un miserabile Paese di pecore ormai narcotizzate da calcio e televisione. Da noi non succederà niente. Al massimo, le casalinghe assaliranno la sede dove si svolge ogni sera il Pacco di Rai 1…

MILANO SGUARDI DI QUARTIERE. Identità e rigenerazione

Urban Center Milano
Sino all’11 marzo 2009

milano_sguardi_di_quartiere

«L’essenza del costruire è il “far abitare”. Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire». Il corsivo è di Heidegger e il brano si trova a pag. 107 di “Costruire abitare pensare”, uno dei testi raccolti in Saggi e discorsi (a cura di G.Vattimo, Mursia 1976). Il costruire non è dunque in primo luogo una tecnologia ma un essere. Di fronte al grande afflusso di nuovi abitanti provenienti dal Sud dell’Italia, la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta affidò se stessa a ingegneri e urbanisti privi della cultura dell’abitare e dediti soltanto al costruire. Il risultato fu la distruzione di luoghi che da secoli circondavano la città di acque, di coltivazioni e di comunità ben armonizzate con l’ambiente. Al loro posto sorsero i quartieri Molise-Calvairate a est e San Siro a ovest, dove fu ed è ancora possibile un abitare che si integra a fondo col tessuto urbano. Invece quartieri come Gratosoglio a sud e Ponte Lambro a est vennero fisicamente tagliati fuori dalla città diventando -come scrive Bianca Bottero- «luoghi “intimamente predisposti” alla criminalità».

Degradati anche nelle strutture -oltre che nelle persone- in questi quartieri è ora in corso un’opera di riqualificazione urbanistica e sociale della quale la mostra testimonia con documenti e fotografie le modalità e le intenzioni. Quarant’anni fa un gruppo di abitanti di Gratosoglio pose una lapide «alla fermata del tram che non arrivava mai». Sarà dura che questo tram arrivi ora, in un momento di rimescolamento sociale tra vecchi residenti e nuovi immigrati, di crisi economica e antropologica, ma fare di tutto perché la città sia luogo di vita in ogni sua parte è un dovere assoluto di chi la amministra e di chi la abita.

Milk

di Gus Van Sant
USA, 2008
Con: Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve Jones), Josh Brolin (Dan White) , Diego Luna (Jack Lira), James Franco (Scott Smith)

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San Francisco, anni Settanta del Novecento. Harvey Milk tenta più volte di diventare consigliere comunale (“Supervisor”, una funzione che negli USA conta assai più che in Italia) e alla fine ci riesce. È il primo omosessuale dichiarato ad assumere in quel Paese una carica pubblica. È aiutato e sostenuto dalla comunità gay, dalle altre minoranze e dal sindaco Moscone, un liberal che insieme a lui pagherà con la vita il proprio impegno. Prima, però, riescono a far respingere dall’elettorato la proposta di un senatore repubblicano e di una imbonitrice evangelica che vorrebbero escludere gli omosessuali dall’insegnamento e da altre professioni.

Il film vuole ricostruire la San Francisco e la California di quegli anni. Alcuni inserti d’epoca e una grande attenzione agli ambienti e ai costumi (di Danny Glicker) aiutano a cogliere quella tonalità di vita. Ma il risultato complessivo è piatto, la sceneggiatura è del tutto scontata e l’opera risulta una banale miscela tra documentario e fiction. Anche la narrazione della vita privata di Milk, dei suoi dolorosi amori, ha qualcosa di patetico. Magnifico, ancora una volta, Sean Penn, che regge su di sé tutto il film e riesce a rendere autentica l’omosessualità del suo personaggio, con uno sguardo e dei gesti sempre plausibili. Il confronto con gli altri interpreti -che proprio recitano il ruolo di “froci”- conferma che Penn è uno dei più grandi attori viventi. Per il resto, retorica a piene mani.

Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

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Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

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