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La cultura del piagnisteo

di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto

(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242

Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).

Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.

Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).

Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.

Einblicke

di Arnold Gehlen
(Gesamtausgabe, Band 7)
Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978
Pagine 589

Einblicke, impressioni e sguardi sul presente, elaborati da Gehlen in venticinque anni (dal 1950 al 1976) di interventi, conferenze, articoli, analisi, tutte caratterizzate da una estrema lucidità nella comprensione delle radici e delle conseguenze dei fatti sociali e culturali.

Il fenomeno che salta subito agli occhi è naturalmente la massificazione inarrestabile della vita interiore e delle strutture collettive. Le società appaiono a Gehlen sempre più divise fra una minoranza di persone colte e avvertite e una maggioranza dedita solo al lavoro e allo svago mediatico, in particolare televisivo. La cultura di massa sarebbe caratterizzata soprattutto da tre elementi: la carenza di creatività e di fantasia; l’assenza della dimensione tragica; il rifiuto di qualunque complessità poiché «die Massenkultur darf nicht austrengen. Sie darf keine Denkprobleme aufwerfen [la cultura di massa non deve costare fatica. Essa non deve sollevare alcuna riflessione problematica]» (p. 41).

Lo svago diventa uno degli strumenti di dominio sulle masse. Le quali però, lungi dall’essere soltanto le vittime di tali tendenze, diventano le protagoniste della più formidabile coercizione sociale mai verificatasi. Su ciò Gehlen si distacca nettamente dalle analisi dei Francofortesi. Egli sottopone infatti a critica due delle idee dominanti nella contemporaneità: la legge della maggioranza e l’eguaglianza naturale degli uomini. I pericolosi effetti della prima si osservano quando il principio di maggioranza viene indebitamente esteso dall’ambito suo proprio, che è quello politico, a settori come l’arte, la scienza, l’educazione. In questo caso avviene qualcosa di singolare: il ritorno alla pura forza, alla «Hegemonie des Kopfzahlstärksten [egemonia dei numericamente più forti]» (383). Al pericolo totalitario insito in tale primato naturale bisogna opporsi apertamente, ribadendo il principio culturale secondo cui «die quantitative Minorität wird zur qualitativen Majorität [la minoranza quantitativa diviene maggioranza qualitativa]» (107).

Anche il principio di eguaglianza sociale rivela sempre più il suo lato d’ombra, quando lo si fa valere in settori come quello etico, culturale, pedagogico. Che tutti siano capaci di tutto, che il sapere non comporti fatica, che l’aggressività sia soltanto un effetto sociale e non anche un necessario corredo biologico, sono solo alcune delle ingenuità antropologiche che dominano il Moderno sulla scorta degli equivoci di Rousseau. Dall’affermazione che «alle Menschen gleich sind [tutti gli uomini sono uguali]» è stato dedotto che essi «auch alle gut sind [siano anche tutti buoni]» e quindi «konnte man die gesellschaftlichen Ungleichheiten zugleich als widernatürlich wie als moralisch verdorben hinstellen [si poté far passare la diseguaglianza sociale per qualcosa di contronatura e moralmente vizioso]» (380).
L’idea di eguaglianza così intesa mostra tutta la forza di una vera e propria fede, tanto che risulta «unmöglich, sich als Atheist der egalitären sozialreligion zu bekennen [impossibile professarsi atei della religione sociale egualitaria]» (384). Qualunque accenno critico viene subito giudicato come una pericolosissima eresia sociale, come un sentimento disumano o come una bieca difesa di antichi privilegi. La religione egualitaria produce i tipici riti umanitaristici i quali, lungi dall’aver prodotto una convivenza più pacifica, hanno scatenato la violenza sociale in tutte le sue forme: privata, criminale, politica. Dalla Rivoluzione francese e dal Romanticismo in avanti sentimentalismo e ferocia hanno proceduto insieme a privare gli individui e i gruppi di qualunque misura etica e tolleranza pragmatica. Allorché un’idea così astratta come l’eguaglianza naturale degli uomini assume il potere nella storia, subito si apre un nodo insolubile di problemi poiché il livellamento e l’accordo -fra gruppi etnici, economici, religiosi- rimane su un livello quasi esclusivamente ideologico, con la tragica conseguenza di riattivare ogni volta i conflitti rimossi e repressi ma non risolti. Tornano quindi oggi più di prima le guerre religiose e tribali, dall’Africa all’Europa, col ritornante razzismo nei confronti delle culture non cristiane.

Ai frutti avvelenati e amari dell’utopia che sempre inevitabilmente ricade nel più antico degli atti umani, il dare la morte; al delirio di onnipotenza delle pedagogie comportamentistiche che nel trattare i discenti come macchine li rendono socialmente irresponsabili e pronti al dominio del principio gregario (un esempio clamoroso è il Sessantotto, i cui protagonisti furono vittima di una «geistige Abhänngigkeit von den Massenmedien [dipendenza mentale dai massmedia]», che produsse «einem wichtigtuerischen, geschraubten Jargon [un gergo esibizionistico e affettato]» (316), a tutto questo Gehlen oppone la forza e la coerenza di un’antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura il proprium dell’animale uomo. Un’antropologia che quindi non si illude di distruggere il giogo delle circostanze e non inganna nessuno sul comune destino di fatica e di morte dell’uomo. Essa coglie la complessità del fenomeno umano, privandosi delle comode scorciatoie dell’ideologia, del riduzionismo e delle fedi ma proprio per questo è in grado di fornire soluzioni e punti di vista – Einblicke– ancora attuali.

Ragazze – La vita trema

di Paola Sangiovanni
Italia, 2009
Trailer del film

ragazze la vita trema

Quattro donne, che negli anni Sessanta erano adolescenti e ragazze, raccontano le loro famiglie, l’educazione, l’affrancamento, la scelta femminista, la politica, le grandi manifestazioni, la svolta autoritaria e la fine. Il film alterna le interviste contemporanee alle immagini di repertorio pubbliche e private. Nonostante l’iperfemminismo e una tonalità a volte -e forse inevitabilmente- da amarcord, ne scaturisce un documento pieno di tenerezza, molto interessante per comprendere le ragioni e soprattutto la Stimmung dell’epoca.

È tutto.

«L’Italia è sempre più corrotta. O almeno è percepita come tale. Il nuovo rapporto di Transparency ha fatto precipitare il Belpaese dalla 55ma posizione dell’anno scorso alla 63ma di quest’anno, con un punteggio di 4,3 contro il 4,8 del 2008. Meglio dell’Italia si piazzano la Turchia e la Slovacchia. I Paesi meno corrotti sono la Nuova Zelanda e la Danimarca, quelli che fanno peggio sono la Somalia e l’Afghanistan»
( Fonte: la Repubblica, 17 novembre 2009 )

Tra i tanti casi, situazioni, complicità, immense facce toste che lo confermano, uno dei più chiari -ma meno discussi, anche dalla cosiddetta “opposizione”- è quello di Nicola Cosentino, viceministro dell’economia, con una richiesta di arresto da parte della magistratura per «concorso esterno in associazione camorristica». E che rimane dentro il governo italiano, come se fosse cosa normale. Normale infatti è, per uno degli stati e dei popoli più corrotti al mondo.

Chi distrugge la scuola?

Alla Ministra e ai suoi funzionari che rimbrottano i presidi perché si lamentano dei tagli sempre più gravi ai fondi delle scuole (come a quelli dell’Università e della ricerca in genere…), i sindacati rispondono che «i capi di istituto sono abituati a rimboccarsi le maniche ogni giorno per risolvere situazioni e problemi continui rispondendo di ciò che fanno alle famiglie degli alunni e all’Amministrazione e assumendosi i rischi in prima persona pur di far funzionare al meglio le scuole» (R.P., Tecnica della scuola, 14-11-2009).

E questo è l’errore. Dei presidi e soprattutto degli insegnanti:  colmare col volontariato il baratro finanziario voluto dai precedenti esecutivi ma soprattutto dall’attuale (mal)governo; salvare l’istituzione dalla paralisi economica; nascondere alle famiglie e ai ragazzi i veri obiettivi della destra televisiva e cialtrona. Bisogna rispettare sino in fondo la normativa e fare al meglio delle proprie possibilità tutto ciò che la legge impone alla professione docente. Ma nulla, assolutamente nulla, di più. A cominciare dalle uscite scolastiche, dalle gite lunghe e brevi, dalla partecipazione alle commissioni interne, da tutta la pletora di attività che non siano d’ufficio. Basterebbe questo, solo questo – altro che “blocchi a oltranza degli scrutini”!- per paralizzare la scuola e far cadere la maschera di chi la vuole distruggere.
Ma negli insegnanti italiani vive un singolare amalgama di senso di colpa (per che cosa?), forza di inerzia e volontà missionaria che contribuisce -quasi alla pari dell’ignoranza del Sommo Bottegaio e dei suoi servi- alla riduzione della scuola al miserabile luna park che è diventato.

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