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Sociologia della cultura

Che cos’è la Sociologia della cultura
di Rocco De Biasi
Carocci, 2008
Pagine 110

In sociologia per cultura si intende l’insieme delle «norme, valori, credenze, simboli che incontriamo sul nostro cammino nella vita di ogni giorno e che ci consentono di conferire un senso a quel che ci accade» (pag. 11). Si tratta dunque di ciò che Durkheim chiamava la coscienza collettiva, «l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della società» (27).
Centrale in queste definizioni è il concetto e la realtà del significato, di una semantica che avvolge e costituisce l’umano sia come individuo sia nella dimensione collettiva. Il valore fondativo della sociologia di Max Weber consiste anche e soprattutto nell’aver «conferito una centralità ai significati soggettivi attribuiti dagli individui alle loro azioni» (9), tanto che la spiegazione delle cause e degli effetti non può che essere successiva al coglimento di tali significati. Weber scrive che «“la cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» (Il metodo delle scienze storico-sociali, [1904], Einaudi 1958, p. 96). Una sociologia comprendente fa questo: coglie, analizza, spiega la ragnatela di significati che intesse e costituisce la vita degli umani, le loro azioni, intenzioni, relazioni. Significati che la realtà fisico/chimica di per sé non possiede e che invece vengono donati dall’attiva presenza degli umani nel mondo. Non si dà alcuna immacolata percezione né mentale né sociale; il mondo è una “foresta di simboli”. Lo è sempre stato e lo è ancora di più nel presente delle reti, dell’industria culturale, della globalizzazione. «Ancor oggi persiste una centralità dello studio dei processi culturali. Per concludere con le parole di Clifford Geertz, “Ritenendo con Max Weber che l’uomo è un animale imprigionato in una ragnatela di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste reti” » (104).
Reti, appunto, al plurale. Il politeismo degli universi simbolici richiede spiegazioni sempre plurali e multicausali. Weber ha colto più a fondo il legame e il conflitto sociale rispetto al monocausalismo economicistico di molte analisi marxiane. Economia, religione, credenze, attese, memorie, paure, riti, aggressività, clan, visioni del mondo, poteri palesi e nascosti, contribuiscono insieme alla stabilità e al mutamento delle strutture collettive.
Fare sociologia della cultura significa dunque sforzarsi di cogliere gli elementi comuni sia alla elaborazione delle verità scientifiche -anch’esse «prodotto di pratiche cognitive radicate all’interno di un ben preciso contesto sociale» (46)- sia alla persistenza del sacro, a «quel complesso di oggetti e di credenze che in ciascuna religione viene concepito come qualcosa di separato e di superiore rispetto alle cose e alle occupazioni quotidiane profane» (29), che emergono ancora e fortemente nel tessuto collettivo, pur se in forme per lo più secolarizzate.
L’esistenza sociale è sempre anche un teatro sociale. “La vita quotidiana come rappresentazione” -secondo la giusta intuizione di Erwin Goffman- si esprime oggi nella rappresentazione che dentro le Reti ciascuno fa di se stesso, assume dagli altri, gioca e ricompone ogni giorno. La multidirezionalità -da molti a molti- di Internet è forse il fenomeno più innovativo, ricco e ambivalente, poiché la tecnologia culturale da un lato moltiplica le possibilità di comunicazione dei singoli e delle comunità virtuali, dall’altro «rappresenta oggi il principale strumento per l’esercizio del potere culturale o simbolico e l’industria dei media è l’istituzione sociale che si pone alla sua base» (79-80).
La sociologia della cultura esercita la sua funzione critica e comprendente anche distinguendo informazione e comunicazione. La prima è una tecnica ingegneristica e matematica che è stata ben descritta da Shannon e Weaver col teorema per il quale «la quantità di informazione equivale alla quantità di incertezza rimossa»; gli esseri umani, però, «rispetto ai calcolatori digitali, non si limitano a trattare informazioni, bensì appaiono continuamente immersi in un processo comunicativo basato sull’attribuzione di un significato sociale ai messaggi veicolati» (78). Si torna così al nucleo fondante della cultura: l’umano come dispositivo semantico.

Pietra amara

L’ora legale
di Salvatore Ficarra e Valentino Picone
Italia, 2017
Con: Salvatore Ficarra (Salvo), Valentino Picone (Valentino), Vincenzo Amato (Pierpaolo Natoli), Tony Sperandeo (Gaetano Patanè), Leo Gullotta (Padre Raffaele)
Trailer del film

Pietrammare vive nel pieno caos dell’illegalità, dell’arbitrio, del clientelismo. Spazzatura e automobili dappertutto, sottomissione al potente sindaco Patanè, rassegnazione alla legge del più forte. Un timido professore di Liceo si candida al rinnovo del Comune e, inopinatamente, viene eletto Sindaco. Tra i suoi familiari ci sono Valentino che si è impegnato in campagna elettorale per lui e Salvo che invece ha fatto da galoppino a Patanè e però è subito pronto a cambiare schieramento appena Natoli risulta vincitore.
Il paese esulta ma per poco. Rifiuto delle raccomandazioni, riscossione delle tasse comunali uguale per tutti, divieti di sosta, piste ciclabili, raccolta differenziata dei rifiuti, sono delle novità che i cittadini di Pietrammare e gli umani di Sicilia non sembrano poter sostenere. In questa comunità un sindaco veramente onesto non è una semplice novità, è un ‘lusso’ che il paese non si può permettere. Se Natoli non sembra essere attaccabile in alcun modo, la soluzione è costruire delle false prove contro di lui, con l’aiuto di un prete candido all’inizio e poi sempre più sciasciano –vale a dire del tutto corrotto- e di gente arrivata dalla Capitale a dare sostegno ai cittadini in rivolta. Perché sarebbe davvero pericoloso se l’esempio di Pietrammare si estendesse a tutta la Penisola.
È un ritratto certamente caricaturale, macchiettistico e banale dei siciliani e delle loro amministrazioni. Ma noi che siciliani siamo, sentiamo in questo filmetto una carica di amara e preoccupante verità, un fondo antropologico e ambientale che abbiamo spesso visto con i nostri occhi. L’ora legale è essa stessa un’opera ambigua, senza intenti di riscatto e invece molto compiacente con i cialtroni che la abitano, assai più simpatici rispetto ai seriosi e noiosi onesti che vi compaiono. Al confine tra denuncia e complicità, il film propende decisamente per la seconda. Rimane ben poco da ridere.

Sant’Agata

Dal 3 al 6 febbraio scorsi Catania ha vissuto ancora una volta la sua Grande Festa. A essere celebrata, portata tra le strade, arricchita di offerte, ricolma di desiderio, amata come figlia madre sorella, è stata Agata, il cui nome greco indica valore e nobiltà. Ἀγάθη è infatti anche una manifestazione di Artemide, vergine intransigente come lei.
Hanno quindi ragione coloro che accusano questa festa di essere pagana. Il cristianesimo, in effetti, ha poco da spartire con il culto totale riservato al busto argenteo di Agata, a questo idolo che si muove per giorni e notti tra i suoi fedeli, dando loro passione, lacrime e gioia. Come accadeva per le antiche statue degli dèi, il busto di Agata non rappresenta la santa ma è la santa. La dimensione pagana di queste feste dimostra la tenacia degli antichi culti in Europa e mostra soprattutto la naturalità del paganesimo, che è fatto di materia, di corpi, di fisicità, come appare chiaro a chiunque assista alla festa agatina.
A chi, poi, deplora le inflitrazioni criminali in questa celebrazione, si risponde che hanno certo ragione, che la festa è in gran parte controllata dalla malavita, ma che è la città a essere banditesca e quindi lo è anche la sua festa più importante. Pretendere che le celebrazioni popolari siano pure e linde quando la borghesia e i ceti dirigenti di Catania sono in gran parte corrotti significa essere o in mala fede o ingenui. Significa in ogni caso non comprendere le strutture della vita collettiva. È Catania a essere mafiosa non sant’Agata.
Per un pagano disincantato è un piacere vedere la fede nell’idolo, sentire le voci gridare «Saccu o senza saccu semu tutti devoti tutti!», sapere che al rientro definitivo della statua -il 6 mattina- gli innamorati di Agata piangono, la trattengono, le chiedono di rimanere ancora un poco con loro. Gli enormi ceri portati a spalla e bruciati dappertutto rappresentano ancora una scintilla -sporca, certo, decaduta e miserabile ma sempre viva- della grande Luce ellenica e mediterranea.
Segnalo il progetto -e il video, bello e interessante- di Durga, un film francese dedicato a Catania e ai suoi miti, nel quale trova spazio e senso anche la dea Agata.

«Giovinezza, giovinezza…»

Luce – L’immaginario italiano
Catania – Palazzo della Cultura / Palazzo Platamone
A cura di Roland Sejko e Gabriele D’Autilia
Sino al 19 febbraio 2017

L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) venne fondata nel 1924 e subito divenne strumento d’avanguardia del fascismo e della persona di Benito Mussolini. Allo stesso modo di quanto stava accadendo in Unione Sovietica e da lì a poco avverrà in Germania, il regime italiano fu del tutto consapevole delle potenzialità che i nuovi mezzi di comunicazione di massa -stampa, radio, cinema- offrono al Potere. Informazione, educazione e propaganda furono elementi inseparabili dell’Istituto LUCE e tali sono sempre rimasti. Questa mostra documenta con fotografie, filmati, registrazioni sonore, l’azione pervasiva del LUCE nella vita quotidiana degli italiani.
I pannelli didascalici che illustrano le immagini sono troppo lunghi e stampati a caratteri piccoli, penso che pochi visitatori li leggano; sulle pareti compaiono invece a grandi lettere parole come Fascistizzazzione, Libro e moschetto, Impero, Autarchia, Vincere e vinceremo!, Il Duce ha sempre ragione, Uomo Nuovo. Vale a dire l’uomo ottimista, attivo, obbediente, contento, cieco, che il fascismo intendeva plasmare. Il controllo dell’immagine del Duce era totale. Mussolini il Pubblicitario non argomentava ma convinceva. Il corpo del Duce strabuzzava gli occhi, scandiva le parole, placava con la mano, muoveva continuamente la fungia (sicilianismo per dire che sporgeva mento e labbra). A noi, oggi, simili mossette appaiono quelle di un buffone ma allora manifestavano un dio. Perché questo era Mussolini. Ogni suo apparire costituiva un’epifania del Potere, era l’immagine della politica diventata religione.
Dove finirono dopo il 1943 le masse osannanti e devote? Sparite, naturalmente. E sostituite dagli anni che la mostra definisce di Ricostruzione, di conseguimento del Miracolo italiano. Le parole sulle pareti sono adesso Resistenza, Modernità/Arcaismo, Modi di vita, Italiani e Italiane, Migranti, Classe operaia. Una sezione è dedicata alla vita delle città italiane, a Catania in particolare con la sua Grande Festa che ogni anno -dal 3 al 5 febbraio- incorona la vergine Sant’Agata come regina del desiderio popolare.
E poi immagini consacrate al teatro, allo sport e soprattutto al cinema. È questo il luogo d’elezione dell’Istituto LUCE, quello in cui la Società dello Spettacolo attinge la sua piena legittimità, espandendosi poi in ogni altro ambito della vita collettiva. Il sostegno che l’Istituto diede al cinema italiano fu totale. Nell’ultima, grande sala di Palazzo Platamone compaiono le fotografie e i filmati di tutti -proprio tutti- i più conosciuti attori, registi, divi del cinema italiano e internazionale dal 1950 al 2000. Appaiono nello sfolgorio della loro giovinezza, la sola età legittima in quel mondo di ombre, come nel fascismo e nel Sessantotto. Sono quasi tutti morti.

Unict, il pane

Pubblico un documento del CUDA che condivido per intero. Il mio auspicio di docente dell’Ateneo e di cittadino di Catania è che la sconfitta delle forze e degli interessi più oscuri che hanno agito contro l’Università costituisca una ragione in più per operare, con rinnovata energia, a favore del sapere e dei nostri studenti.

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Non siamo tornati indietro. Ora bisogna andare avanti…

L’elezione del professore Francesco Basile a Rettore di Unict rappresenta un momento di continuità e insieme di rottura nella vicenda dell’Ateneo e della città.

Si è affermata infatti la continuità con l’azione di Giacomo Pignataro, come è stato evidente sin dal programma e dalle intenzioni espresse in favore di legalità, trasparenza e autonomia dell’Ateneo da influenze indebite e malaffare (non sfugge a nessuno infatti che la serenità del presente si misura anche dalla chiarezza sul passato); una continuità che ieri sera è stata segnata dal lungo, sincero e caldo applauso che ha accolto Pignataro nell’Aula Magna del Rettorato, a dimostrazione che la sua azione a favore di una gestione trasparente e lineare del nostro Ateneo è stata compresa e apprezzata, e che non sarà certo dimenticata ma piuttosto valorizzata. Pare significativo inoltre che tale applauso si sia ripetuto al saluto e al ringraziamento che il nuovo Rettore ha voluto rivolgere al suo predecessore; e in questo quadro non si può che apprezzare la cortesia istituzionale e lo stile (mancati purtroppo nella precedente elezione) per i quali il Rettore uscente dà il suo benvenuto al collega che gli subentra…

L’elezione di Basile è invece un deciso momento di rottura rispetto al tentativo di restaurazione delle modalità e dello stile che hanno caratterizzato l’amministrazione di Antonino Recca. 1022 voti a favore di Basile e 374 a favore di Enrico Foti (che non ha davvero raccolto, spiace dirlo, né il voto di opinione né molto voto di protesta) rappresentano con la forza dei numeri un chiaro segnale di rifiuto di ogni tentativo di far tornare indietro l’Ateneo rispetto ai risultati conseguiti negli ultimi quattro anni, pur in presenza di una situazione ambientale non certo favorevole e di attacchi debiti e indebiti. Un voto chiaro che respinge tra l’altro, in modo che speriamo definitivo, i soliti claudicanti (e ormai scontati) giochetti di endorsement e disendorsement, e il consueto balletto di segnali obliqui e inquinamenti del clima di vita e lavoro dell’Ateneo.

Quanto accaduto ieri è quindi un punto di arrivo ma soprattutto un punto di partenza, come Pignataro e Basile hanno subito affermato. I docenti, il personale tecnico-amministrativo, gli studenti che si sono espressi con tale chiarezza non hanno però rilasciato deleghe in bianco a nessuno. Sia le grandi scelte che attendono l’Ateneo sia l’azione quotidiana di governo dovranno essere fattivamente improntate:
– al rispetto per le persone, condizione prima e diremmo naturale di ogni comunità scientifica rivolta all’insegnamento;
– alla scelta dei collaboratori e delle cariche in base a delle qualità non generiche ma specifiche rispetto agli scopi e soprattutto alla volontà dei soggetti incaricati di lavorare duramente e quotidianamente al raggiungimento degli obiettivi;
– alla consapevolezza che un Ateneo come quello di Catania è una struttura stratificata e complessa che può essere gestita positivamente soltanto anteponendo gli interessi collettivi a quelli individuali;
– al ribadire che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», anche rispetto a ogni tentativo burocratico di svuotare questo principio costituzionale;
– al coinvolgimento dell’intera comunità accademica, che coinvolta vuole essere, come è risultato chiaro anche dalla partecipazione massiccia, democratica e consapevole che ha caratterizzato l’elezione del nuovo Rettore.

Come docenti e membri di questo Ateneo, augurando buon lavoro al nuovo Rettore, vigileremo propositivamente e daremo il nostro contributo dialettico al raggiungimento di tali scopi, affinché le parole si trasformino in atti e le intenzioni espresse in queste settimane diventino il tessuto quotidiano della nostra comunità. Lo dobbiamo a noi stessi, ai nostri studenti, a una città che di ricerca e di pensiero ha bisogno come il pane.

2 febbraio 2017

Il CUDA (Coordinamento Unico di ricercatori, docenti, Pta e studenti di UNICT)

Friburgo, la guerra

Una mia amica, che da tempo vive a Freiburg, descrive con drammatica efficacia la mutazione antropologica, il controllo mediatico, la violenza quotidiana che stanno trasformando molte città tedesche. Ringrazio Giulia per avermi autorizzato a pubblicare una delle sue lettere (inviata il 16.1.2017). La frase conclusiva è una citazione dalla traduzione tedesca della prima serie di Game of Thrones e significa: «Ci sarà guerra: non so quando, non so contro chi, ma sta arrivando».

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Caro Alberto, 

ti mando un breve aggiornamento sullo stato di assedio friburghese.
Qualche mese fa, verso sera, un uomo sulla trentina nel tram ha cercato di mettermi una mano in mezzo alle cosce; prima che la appoggiasse gli ho spiegato molto chiaramente che se l’avesse fatto gliela avrei rotta; ha ritirato la mano. Dopo essermi assicurata che le telecamere di sorveglianza ci avessero inquadrato, sono scesa dal tram facendo attenzione che non mi seguisse (o forse sperandoci, un pochino…). Il giorno dopo sono andata a denunciarlo. La polizia ha recuperato i video di sorveglianza, ma purtroppo la definizione non era sufficiente ad un riconoscimento. Allora mi hanno mostrato una trentina di fotografie di uomini dai tratti simili che vivono vicino alla fermata dove lui era sceso, tutti entrati in Germania negli ultimi due anni e già noti per reati di violenza sessuale. Negli ultimi due anni???? Trenta uomini??? Tutti in quel paesino del cazzo??? Ma io sui giornali non ho letto nulla, tranne i casi di violenza che sono finiti con la morte della vittima… strano, no?
Oggi mentre ero in ufficio mi è arrivata un’email della moglie del mio capo: mi raccontava che una sua carissima amica è in ospedale, dopo essere stata stuprata e pestata da tre uomini, proprio vicino a dove lavoro, nel quartiere bene di Freiburg. La polizia ha proibito a questa donna di raccontare l’accaduto e soprattutto di parlare con la stampa. La prima notizia sulla Badische Zeitung di oggi è: grazie alle politiche verdi del comune le polveri sottili non sono più un problema.
Che cazzo sta succedendo in questa città?
1) Perché gente che ha già commesso reati contro le donne si trova ancora qui? Quando la facciamo una legge sull’espulsione?
2) Perché la politica mette la museruola alla stampa su questo tipo di reati? Forse per non farci incazzare? Ma noi siamo già incazzate…
3) Nemmeno con un presidente donna si riesce ad ottenere una società dove le donne possono vivere in pace. Questo tipo di società, semplicemente, non esiste.
4) Es wird Krieg sein, Alberto: ich weiss nicht wann, ich weiss nicht gegen wen, aber er kommt. 

Un abbraccio
Giulia

Zombi

 

manifesto_23-12-2016

Quella umanità condannata a una perenne non vita virtuale
il manifesto
23 dicembre 2016
pag. 11
Pdf dell’articolo

Gli zombi sono il modello al quale il Capitale vorrebbe ridurre ogni proletario e -alla fine- l’intera umanità; gli zombi sono i sempre connessi a facebook, i teledipendenti, tutti i soggetti che si muovono verso la non vita virtuale; gli zombi sono tristi metafore dell’omologazione e del conformismo.

 

 

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