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Lo scambio simbolico

Lo scambio simbolico e la morte
(L’échange symbolique et la mort, 1976)
di Jean Baudrillard
Traduzione di Girolamo Mancuso
Feltrinelli, 2007
Pagine 255

Nelle società avanzate il principio di simulazione ha sostituito il principio di realtà. Alla contraffazione della prima età moderna e alla produzione di quella industriale, segue la simulazione, intesa da Baudrillard in termini assai complessi, a partire dalla universale riproducibilità tecnologica, artificiale e mediatica di ogni ente, evento e processo: «Per le opinioni, come per i beni materiali, la produzione è morta, viva la riproduzione!» (pag. 78) e, con essa, una cultura impregnata della morte artificiale e della equivalenza generale di ogni cosa con ogni altra, fondamento dello scambio capitalistico che ha sostituito e distrutto lo scambio simbolico.
Lo scambio tra forza lavoro e salario si fonda sulla morte, «bisogna che un uomo muoia per diventare forza-lavoro. È questa morte che egli monetizza nel salario» (55). La morte diventa così l’equivalente generale della socializzazione. Nel passaggio «dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze» (188), reale diventa «ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. […] Al termine di questo processo di riproducibilità, il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale» (87).
La simulazione è anche il simulacro al quale i rapporti sociali vengono ridotti e la stessa struttura politica della democrazia. Il suffragio universale è in realtà «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza» (77), nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (79). Non solo: coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici di classe mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (35).
Le forme dell’equivalenza si possono trovare in ambiti molto diversi tra di loro, quali: la centralità nella medicina contemporanea del Körper, del corpo-cadavere, rispetto al Leib, il corpo vissuto; la natura razziale dell’Umanesimo, poiché prima di esso culture e razze «si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione» (137); la profonda corrispondenza tra monoteismo e potere politico unificato, così diverso dallo scambio molteplice dei politeismi; il sostanziale matriarcato delle società senza Padre quali sempre più vanno diventando le nostre “avanzate” strutture sociali, un matriarcato dell’equivalenza tra madri e figli che impedisce la crescita autonoma del «soggetto perverso» il cui lavoro «consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e di trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (127).
L’equivalenza tesa a cancellare ogni differenza si esprime soprattutto nell’utopia negativa e mercantile della abolizione della morte, in ciò che Norbert Elias ha definito la «solitudine del morente» e che Baudrillard descrive come «paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l’inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile» (179) poiché «tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte –è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell’accumulazione per l’economia» (162).
Contro questi deliri di equivalenza vanno difesi il senso e la realtà dello scambio simbolico che permette ai primitivi di vivere con i loro morti «sotto gli auspici del rituale e della festa» mentre «noi commerciamo con i nostri morti con la moneta della malinconia» (148).
Ecco perché, rispetto alla sterile superficialità di ogni riduzionismo economicistico, psicologistico, sociologico, Baudrillard può giustamente asserire che «la rivoluzione è simbolica, o non è affatto» (219). Lo spazio del simbolico è infatti l’ambito nel quale l’umano esplica le proprie esigenze più fonde, le speranze assolute, le forme delle culture e delle comunità, la potenza dei sentimenti, l’edificazione delle arti e delle filosofie, la sfera del senso.
L’umano è un dispositivo semantico perché non vive di solo pane e per riuscire letteralmente a muoversi, agire, prendere la costante serie di decisioni che intesse la vita, ha bisogno di trovare un significato –un qualsiasi significato- al tempo che è e che le cose da sole non hanno. L’incessante scambio simbolico in cui la vita consiste comprende in sé anche la morte, soprattutto la morte, e solo in questa com-prensione le può dare un significato né soltanto biologico né malinconicamente disperante né economicamente in perdita ma colmo della pienezza del dono che ogni presente è, anche quello della fine.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

Tempo / Conoscenza

Dürer. L’opera incisa dalla collezione di  Novara
Museo della Permanente – Milano
Sino all‘8 settembre 2013

Le incisioni di Albrecht Dürer vengono da un mondo dove la materia sembra trascendersi non per allontanarsi da sé ma per stare nella propria più piena potenza. Tutta la superficie è densa di segni e i segni rinviano -com’è nella loro natura- ad altro: apocalissi, miti, storie bibliche, tormenti, resurrezioni. Su tutto si stagliano i simboli del tempo e della conoscenza. La clessidra che la morte tiene in mano in Il cavaliere, la morte e il diavolo è ciò verso cui il cavaliere va ma non c’è affanno né disperazione né distrazione. Lo sguardo concentrato e l’andamento senza titubanze fanno di lui la pienezza dell’istante che nella sua forza ha già sconfitto ogni grottesca pretesa di negare il divenire.
I libri e la luce che riempiono San Girolamo nella cella costituiscono una plastica rappresentazione di come la conoscenza possa riempire la vita.
Tempo e conoscenza convergono in Melancholia I. Quella figura, circondata dagli strumenti e dai segni del sapere e tuttavia così intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero, è l’espressione più efficace del limite nel quale il pensatore si sente avvolto, della sua consapevolezza del confine oltre il quale non è possibile spingersi. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce»1 , così scrisse Dürer nella lucida e disincantata coscienza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ma è tale consapevolezza il carattere più proprio della filosofia, la fonte della razionalità e della ricerca.

Nota

1. In R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341

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