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San Vito Rap

Pizzica di San Vito
Ensemble L’Arpeggiata diretto da Christina Pluhar
N. Rial / V. Capezzuto / G. Bridelli / J.J. Orliński
Festival Oude Muziek, Utrecht 2016

Una versione dell’antico canto colma di divertimento, ritmo, contaminazione, come la musica è sempre. La musica, questo linguaggio universale della pienezza, della gioia.

«La taranta è ancora viva» canta Eugenio Bennato anche perché il tarantismo è stato ed è un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici e pervasivi delle culture mediterranee.
Danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico.
Il nume cattolico del tarantismo è ‘Santo Paulo’ ma non è l’unico. La pizzica dedicata a San Vito conferma il politeismo del culto dei santi, la sua vicinanza alle radici pagane.

«E sì chiù bella tu, e sì chiù bella,
E sì chiù bella tu ti na cirasa,
Iata all’amori tua, iata all’amori tua,
Iata all’amori tua quannu ti vasa»

 

Medioevo androgino

Preraffaeliti. Amore e desiderio
Milano –  Palazzo Reale
A cura di Carol Jacobi
Sino al 6 ottobre 2019

Una integrale imitazione è impossibile poiché implica l’identità con l’imitato. Soltanto la differenza con l’imitato permette l’imitazione. Questa verità logico-ontologica è mostrata anche dal caso dei Preraffaeliti, i quali crearono -e altro non potevano fare– un’arte del tutto moderna perché simbolica, umanista e sentimentale, nella quale il cromatismo della forma prevale, lo voglia o meno, sui contenuti, anche su quelli storicamente medioevali. Contenuti, inoltre, che venivano letti e vissuti sul fondamento

Jesus Washing Peter’s Feet
1852-6

delle esperienze contemporanee, permeate di spirito anche socialista, come ben si vede nel Gesù lava i piedi di Pietro di Ford Madox Brown (1852-56) o in alcuni dipinti che illustrano il problema dellemigrazione dall’Inghilterra.
Opponendosi all’arte accademica, epigona all’infinito di Raffaello, questo gruppo-confraternita di artisti volle dunque tornare a un Medioevo estetico e sentimentale, del tutto inventato. E confermò in questo modo la giusta affermazione di Jacques Le Goff sul Medioevo come infanzia dell’Europa, «il vero inizio dell’Occidente attuale, qualunque sia stato l’apporto dei retaggi giudaico-cristiani, greco-romani, ‘barbarici’, trasmessi alla società medievale» (La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi 1983, pp. XIV-XV). Nelle opere dei Preraffaelliti si coniugano quindi il Roman de la Rose con Shakespeare, le case infestate dai fantasmi con le rivendicazioni di libertà della donna, le streghe e i loro riti con il culto romantico verso la natura, la fascinazione verso la morte con un erotismo algido e insieme profondo (ad esempio in Monna Pomona di Dante Gabriel Rossetti, 1863-1873).
Sensi e sensualità intridono un’arte che attraverso la pittura fa toccare il mondo, fa sentire i suoi colori, odori e suoni, immerge dentro gli elementi. Su tutto domina la bellezza androgina delle compagne, muse, modelle di questi artisti, prima tra tutte Jane Morris. Esemplare la Dama di Shalott di John William Waterhouse (1888; qui a destra), un dipinto davvero affascinante e vicino persino all’impressionismo.
La forza vitale di una pittura soltanto apparentemente diafana è mostrata da un piccolo ma

Mauvais Sujet, 1863

intenso quadro di Brown, Cattivo soggetto (1863), che ritrae una ragazzina forse non molto contenta di stare a scuola, con una penna in una mano e un frutto nell’altra. E soprattutto con uno sguardo che non ammette debolezze. Un dipinto carnale, come carnale nella sua intensa spiritualità è Sant’Agnese in prigione riceve dal cielo abiti bianchi e splendenti (Frank Cadogan Cowper, 1905; qui sotto).
Al cuore del fenomeno preraffaellita vi è in ogni caso il desiderio, l’amore libero, il rifiuto della tradizione, elementi ben poco ‘medioevali’ che la mostra a Palazzo Reale di Milano fa emergere con grande chiarezza. Essa fa vedere dei Preraffaelliti la luce. Una luce verticale, intensa, vibrante nella sua immobilità.

Il settimo sigillo

Il settimo sigillo
(Det sjunde inseglet)
di Ingmar Bergman
Svezia, 1957
Con Max von Sydow (Antonius Block, il cavaliere), Gunnar Björnstrand (Jöns, lo scudiero), Bengt Ekerot (la Morte), Bibi Andersson (Mia), Nils Poppe (Jof), Maud Hansson (la strega)
Trailer del film

Il cavaliere Antonius di ritorno dalle crociate incontra la morte, le chiede ancora un po’ di tempo, la sfida a scacchi, perde la partita ma nel frattempo ha salvato una famiglia di attori. Sullo sfondo la peste, la superstizione, i roghi di ragazze torturate e chiamate streghe, la violenza dei flagellanti, la rassegnata allegria dei saltimbanchi, l’attrazione e insieme il terrore che i cristiani nutrono verso la morte, la violenza dei predicatori, la danza macabra, la ferocia collettiva, la tensione della mente verso una spiegazione definitiva ma che proprio per questo non potrà giungere. Perché siamo entità asintotiche, spinte sempre sui confini del tutto e sull’orlo del nulla.
Magnifica incarnazione del simbolismo medioevale, Il settimo sigillo è pervaso da una grande e sobria sapienza figurativa, in un bianco e nero risplendente. Il motivo che tutto lo pervade è la ricerca del senso di fronte al niente che incombe, di fronte all’inevitabile silenzio della figura monocratica e assoluta che alcune religioni si sono inventate per sopportare la vita. «Il cavaliere: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli. La morte: Il suo silenzio non ti parla?». È infatti lo stesso silenzio «assai eloquente» della persona alla quale lo scudiero Jöns chiede inavvertitamente la strada verso Helsingør, prima di accorgersi che sta parlando a un cadavere
L’edizione restaurata e in lingua originale di questo capolavoro si può ammirare al cinema Palestrina di Milano.

«Forêts de symboles»

Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016

VonKeller_AuCrépuscoleNei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Malczewski-Thanatos-IThanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.

Todo Nihil

Le confessioni
di Roberto Andò
Italia-Francia, 2016
Con: Toni Servillo (Roberto Salus), Daniel Auteuil (Daniel Roché), Connie Nielsen (Claire Seth), Pierfrancesco Favino (il Ministro Italiano), Marie-Josée Croze (il Ministro Canadese), Richard Sammel (il Ministro Tedesco), Moritz Bleibtreu (Mark Klein)
Trailer del film

le_confessioniIn un maestoso hotel sul mare si incontrano gli otto ministri dell’economia più potenti del mondo. Daniel Roché, il banchiere che guida il Fondo Monetario Internazionale, invita al summit anche una scrittrice impegnata nella difesa dell’ambiente, un cantante rock e un monaco italiano. A quest’ultimo chiede di confessarsi. Il giorno dopo Roché viene trovato morto. Un evento che mette in discussione la manovra economica il cui varo avrebbe dovuto costituire il risultato più importante dell’incontro.
Quasi un Todo modo ambientato nel presente del dominio assoluto del dollaro e della finanza. Meno lugubre del film di Petri, più poetico, più metaforico, meno disperato. Ma assai chiaro nel mostrare come «la democrazia sia una finzione e il segreto sia indispensabile per guidare il mondo. I capi di governo sono delle anime morte al servizio delle banche. Il sistema è forse ormai fuori controllo».
Un soggetto molto interessante e tragico, che però è forse intessuto di un eccesso di simbolismo -enigmatica e centrale la scena del cane che minaccia i potenti della Terra e viene ammansito dal monaco-, di ambizione e di silenzi. Il silenzio è uno dei voti del monaco ma a volte si ha l’impressione che copra il fatto che non ci sia nulla da dire.
Bravissimi, more solito, Daniel Auteuil nel dare corpo a un banchiere tanto cinico quanto tormentato e Toni Servillo nel recitare con gli occhi, lo sguardo, le movenze misurate e insieme decise. Che il cinema cominci a raccontare la reale natura del potere contemporaneo -una natura assolutamente criminale- è buona cosa, in qualunque modo lo si faccia. Il film si scioglie su una formula matematica, su un algoritmo che non significa nulla. Lo stesso niente che intride la finanza.

Mimesis

Segantini
Palazzo Reale – Milano
Sino al 18 gennaio 2015

Segantini-Il-Naviglio-a-Ponte-San-MarcoMimesis. Il realismo nella letteratura occidentale è il titolo del grande libro che Erich Auerbach dedicò a questo tema. E tuttavia il sottotitolo della prima edizione era Eine Geschichte des abendländischen Realismus, als Ausdruck der Wandlungen der Selbstanschauung der Menschen, vale a dire una storia del realismo occidentale come espressione delle trasformazioni dell’autorappresentazione umana. Neppure per Auerbach, insomma, il realismo è separabile dal modo in cui la mente individuale e collettiva percepisce di volta in volta il mondo.
Su questo punto non possiamo più permetterci di essere ingenui. La realtà assoluta non esiste, semplicemente. È probabilmente anche a causa di questa consapevolezza che il mio sguardo è sempre critico nei confronti di tutto ciò che intende rappresentare la ‘realtà’. Nella sua opera Giovanni Segantini sembra stare stretto dentro il reale, sembra ogni volta voler uscire da un figurativismo che tuttavia lo attraversa e rinchiude dall’inizio alla fine. I suoi quadri, per quanto un po’ uniformi nei temi e nell’ambiente, rappresentano anche una sorta di riepilogo dell’arte europea dal Rinascimento (Mantegna) al Divisionismo, passando per il Naturalismo. Nelle nature morte, nei crepuscoli, nelle madri, nelle mandrie, nelle montagne dell’Engadina, diagonali di luce separano la tela in una molteplicità di spazi o sembrano vibrare dai corpi animali e umani.
L’ispirazione è panica, sacra, panteistica. «Ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo», scrisse. E aggiunse che «tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di Vita vera vita palpitante». Intenzioni del tutto condivisibili ma che già alla fine dell’Ottocento non potevano più essere realizzate rimanendo ancorati alla figura. Il simbolismo di Segantini è -insieme a quello di altri artisti a lui contemporanei, compreso lo stesso Klimt– forse l’ultima possibile espressione di una imitazione del reale che aveva ormai perduto ogni referente. Da questo tramonto sarebbe nata la grande arte del Novecento, quella che ormai non vuole descrivere un modello che non esiste ma fa della forma stessa il proprio oggetto.
La mostra di Palazzo Reale permette di attraversare per intero questo itinerario dentro l’impossibilità della mimesis. Tra le tante opere esposte, mi ha particolarmente attratto un dipinto di Segantini poco più che ventenne –Il naviglio a ponte San Marco (1880)- e non soltanto perché descrive un luogo milanese. Soprattutto perché qui l’imitazione va dissolvendosi: umani, palloncini, architetture, acque sono la pura luce del corpomente, il suo desiderio di una gioia che nessuna realtà può dare.

Klimt

Klimt. Alle origini di un mito
Palazzo Reale – Milano
Sino al 13 luglio 2014

Anche Klimt in questa mostra. Ma soprattutto l’ambiente affettivo, storico, culturale nel quale prese vita una pittura che sta al confine tra il figurativismo ormai al tramonto e la ricerca di forme diverse -più ricche del banale aspetto delle cose come appare d’acchito ai nostri occhi- con le quali plasmare l’ordine del mondo nella mente. Le prime opere sono infatti soltanto l’estenuarsi decadente di ciò che una volta, sostanzialmente sino al Settecento, era stata la potenza della realtà attraversata dallo sguardo. Tra l’imitazione del passato e un profluvio simbolico che voleva esser nuovo -ma era soltanto stanco- si consuma il debito verso Wagner e il suo progetto emulativo della Gesamtkunstwerk, che non poteva rinascere al modo pedissequo nel quale il musicista lo intendeva.
Il confine tra un simbolismo malinconico e la forza di forme nuove alla pittura è probabilmente il grande Fregio dedicato nel 1902 a Beethoven e che la mostra riproduce per intero. Poi Klimt cerca davvero strade altre. E le trova trasformando la donna in potenza della mente e i paesaggi in vibrazione, nel colore che attraversa l’estensione e la sostanzia. Il Bosco di faggi sembra infatti fremere nello spazio, la Madre con due bambini ha la forza espressionista che era già di Schiele, l’Adamo ed Eva conclusivo e incompiuto segna il riconoscimento della potenza materica della donna -il suo sorriso, infine- e dell’uomo quasi inesistente alle sue spalle. Finalmente Eva/Cortigiana/Salomè è diventata la Sophia da sempre ricercata, unione dei mortali con la luce.

 

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