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Cancellare la storia

Perché bisogna cancellare la storia
Aldous
, 12 novembre 2024
Pagine 1-2

La storia esistita finora è certamente storia di lotta tra le classi e storia della continua metamorfosi dei modi di produzione. Ma è anche storia delle lotte tra credenze simboliche, tra progetti politici, tra convinzioni religiose, tra modelli scientifici, in una parola tra concetti. È nell’ambito di tali simboli e concetti che assume tutta la sua rilevanza e il suo spazio l’azione metapolitica, vale a dire quella che non si esercita direttamente nelle istituzioni che amministrano il potere e la cosa pubblica ma quella che agisce nell’ambito delle idee, dei modelli generali di convivenza tra gli umani e degli umani con i loro ambienti, nell’ampio ambito dei segni religiosi, artistici, etici, nelle questioni che riguardano le ragioni del vivere e del morire.
Anche per questo, negare ciò che ci ha preceduto, censurare il passato – sia nel senso di condannarlo sia in quello di nasconderlo e persino di cancellarlo – è un’operazione insieme astratta, e quindi ultraculturalista, e barbarica e quindi veramente rozza. Ma è soprattutto un’azione impossibile, il cui successo coinciderebbe con la dissoluzione di una società, così come accade a un individuo affetto dal morbo di Alzheimer, che dimentica progressivamente ogni elemento della propria vita passata, sino a morire di tale oblio.

Poiesis / Techne

Hangar Bicocca– Milano

Chiara Camoni
Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e Fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentasse

A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 21 luglio 2024

Nari Ward  – Ground Break
A cura di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi
Sino al 28 luglio 2024

Chiara Camoni cerca, raccoglie, plasma, inventa, progetta e costruisce la materia vegetale e minerale. La materia bella. La materia – rami, marmo, sassi, fiori – trasformata in forme religiose, mitologiche, sacre.

Il religioso è un sentimento che si esprime anche in forme istituzionali, in dottrine più o meno rigorose e dogmatiche, in rivelazioni che il fedele può interpretare ma non respingere. Il mitologico è la potenza del racconto che spiega in forme molteplici, contraddittorie, ironiche e violente l’origine del cosmo, il derularsi della materia, l’incarnazione del divino, l’identità con esso dell’umano. Il sacro è l’enigma di un significato assoluto, perduto, sempre tenacemente ricercato e a volte trovato sia in interiore homini  sia nel cosmo, nella tonalità panteistica della sapienza.
Camoni esprime soprattutto quest’ultima dimensione attraverso il fiorire di alberi antropomorfici che diventano idoli ai quali anche accendere candele; attraverso il gioco simbolico di pavimenti a mosaico che sembrano resti di antiche basiliche dove si adora il cielo; 

attraverso marmi, argille, terrecotte che assumono forme zoomorfe come serpenti di pietra sinuosi tra le dee e i pavimenti; assumono soprattutto le forme di leonesse, di cani e di una bellissima, fiera, ieratica lupa.

Lo spazio di Chiara Camoni è tutto alla luce del giorno. Quello di Nara Ward è invece immerso in un buio dal quale emergono anche in questo caso forme e figure simboliche e apotropaiche. Sembrano quindi due mostre in apparente e in parte reale continuità. Ma rispetto alla freschezza materica di Camoni, Ward ripete di continuo il gesto di Duchamp, raccogliendo oggetti di uso quotidiano, elevandoli e trasformandoli in forme archetipiche. E quindi vediamo e osserviamo l’ennesima raccolta di rifiuti, di elettrodomestici, di sanitari. È una discarica plasmata in forme a volte anche pretenziose.
Pretesa che raggiunge il culmine della furbizia con la Home Smiles, una macchinetta per scatolette attraverso la quale – a dire del catalogo – «l’artista raccoglie e vende i sorrisi, offerti dai passanti che si specchiano all’interno di scatolette di latta che vengono poi sigillate» (pp. 23-24). Il fatto che poi questi ‘sorrisi inscatolati’ vengano venduti (a 15 € l’uno) a sostegno dell’organizzazione «Save the Children» aggiunge a questa banale imitazione della Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) un’insopportabile patina di compassionevole conformismo.
L’insieme delle due mostre in corso allo Hangar potrebbe essere sintetizzato come un itinerario dalla sacralità della Terra alla ὕβρις della tecnologia, dalla ποίησις alla τέχνη.

In generale, e con riferimento all’opera di Ward ma anche di moltissimi altri artisti e performer viventi, si assiste sempre più all’inevitabile manierismo del contemporaneo. Forse sarebbe da auspicare un’avanguardia che compia opera di rottura con gli epigoni del XX secolo (il plagio di Ward da Manzoni fa anche tenerezza nella sua esplicita mancanza di creatività) ed esprima in forme riconoscibili, in forme altre, in forme distanti, una bellezza pura, metafisica. Senza però indulgere in classicismi e in nostalgie. È difficile, certo, ma ormai è necessario per evitare l’eterno ritorno dell’identico in numerose mostre, in troppi artisti. Una piccola traccia di questa possibilità è un’opera dello stesso Ward che si intitola Wishing Arena (2023); opera che viene presentata in questo modo: «l’artista si misura con l’architettura del sacro» (p. 14) e che nella sua struttura circolare e armonica permette di meditare mentre la si osserva. Torniamo così all’inizio, torniamo all’essenziale.

Del sempre

Davide Susanetti
Il simbolo nell’anima
La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica
Carocci 2020
Pagine 173

Il mondo antico, le civiltà, le culture, i testi e i riti mediterranei, la sapienza dell’umano, dell’intero e del mondo, si pongono oltre ogni dualismo tra lo spirito e la materia, tra l’anima e il corpo.
Il loro apprendimento va dunque oltre il pur necessario rigore storico e filologico, per «procedere alla ricerca di un pensiero vivente, che crea e riplasma incessantemente i mondi» (p. 12); va oltre le illusioni di un bene e di un male assoluti; va oltre il presente e la sua banale potenza d’esserci, per cercare di attingere invece le radici e le forme del sempre.
Del sempre come tempo nel quale ogni comprensione è anche azione, ogni teoria è anche un fare. Del sempre come molteplicità di strade, itinerari e credenze; come ricchezza incomprimibile di principi, luoghi, simboli.
Tra questi, nel mondo antico, Delfi. Uno spazio dove agiscono forze impalpabili, sottili ma evidenti. Dove «tutto diviene suprema unità e presenza assoluta. Là cielo e terra, uomini e dei, storia e natura, passato, presente e futuro paiono coagularsi, con inatteso e sorprendente prodigio, in un unico magico punto che offre, alle anime ricettive, la percezione del principio di ogni cosa. Un punto in cui due linee invisibili s’intersecano: il tracciato orizzontale del divenire e la verticale luminosa dell’essere» (13). Essere e divenire che non sono, ancora una volta, due ma costituiscono l’unità molteplice della materia dalla quale tutto sgorga, nella quale tutto sta e tutto insieme diviene.
Un testo chiave che si immerge in tali dinamiche e di esse cerca di rendere conto è Timeo, nel quale l’essere appare come fatto di un’identità immutabile e incorruttibile e della differenza che suddivide, trasforma, moltiplica, produce, fa. In un movimento circolare che è «il moto del tutto, nella duplice intersezione del cerchio del diverso e dell’identico» (143).
I simboli nei quali e con i quali l’intera cultura greca, compreso il neoplatonismo, intese tutto questo sono i nomi di Ecate, Rea, Cibele.
Ecate è la signora della notte e della luna, è madre feconda ed è insieme vergine, è mediatrice tra i mondi superiori e inferiori. L’asiatica Cibele e l’ellenica Rea sono la stessa titana generata da Gea e Uranos, dalla Terra e dal Cielo e dunque Cibele/Rea è la Grande Madre di tutti gli dèi, ai quali Plotino, Giuliano, Sinesio, Proclo dedicarono le loro azioni, i riti, gli inni.
Uno di questi, composto da Proclo, canta la vita umana come un nulla che diventa qualcosa soltanto perché coniugato alle forze profonde del cosmo, al di là dei «tenebrosi recessi della caduta», delle «fredde onde della nascita»  (Inno 4, A tutti gli dèi, vv. 5 e 14), per diventare «una pura scintilla di luce, / una scintilla che dissolva la nebbia» (Ivi, vv. 7-8; qui a p. 152).

Mascherate

Riporto qui una recente pagina del sito corpi e politica.

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La mascherina non è necessaria. Parola del Ministero della Salute (e dell’OMS)

«La mascherina non è necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie» (Ministero della Salute)

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Questa la locandina pubblicata a fine febbraio e ancora presente nel sito del Ministero della Salute. Quanto vi si afferma è confermato dalle indicazioni dell’OMS (le ultime di fine aprile si leggono qui) in cui è detto chiaramente che non ci sono prove scientifiche sull’utilità dell’uso su larga scala delle mascherine e si precisa che, anzi, quelle fatte in casa (che non sono dispositivi medici) possono indurre un aumento di infezioni respiratorie.

Atteniamoci rigorosamente, scrupolosamente, alle indicazioni del Ministero e delle autorità competenti.

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Aggiungo solo che:

  1. o ciò che il Ministero della Salute aveva scritto ha valore, e quindi le mascherine non vanno indossate se non in casi particolari;
  2. oppure ciò che il Ministero aveva scritto non ha più valore e dunque dare ancora simili indicazioni sul suo sito ufficiale è da: sprovveduti, incapaci, confusi, dilettanti, criminali, negligenti (un aggettivo a scelta, o tutti quanti); 
  3. l’utilizzo costante e indiscriminato di tali maschere risulta pericoloso a causa dell’anidride carbonica che mantengono nei polmoni e a causa dell’umidità che favorisce l’installarsi di agenti patogeni;
  4. l’utilizzo – e ancor più l’imposizione – di tali maschere non ha dunque un obiettivo sanitario ma ha uno scopo simbolico ed è proprio contro l’irrazionalità e l’autoritarismo incarnate da questo simbolo che combattiamo.

[La pagina del Ministero della Salute è stata svuotata dei suoi contenuti in data 23.5.2020 ma essa è ancora visibile in questo archivio]

Luna

Sicilian Ghost Story
di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Italia, 2017
Con: Julia Jedlikowska (Luna), Gaetano Fernandez (Giuseppe), Sabine Timoteo (madre di Luna), Vincenzo Amato (padre di Luna), Corinne Musallari (Loredana), Filippo Luna (U’ nanu)
Trailer del film

Un film tenero e truce come l’Isola. Feroce e solare come lei. Antico e crudele come questa Terra «che una volta era piena di dèi», afferma Nino, che insieme a Loredana è l’unico ad aiutare Luna nella ricerca di Giuseppe. Sono tutti tredicenni. Il ragazzo è sparito. Figlio di un mafioso che ha iniziato a collaborare con i giudici, Giuseppe è stato rapito da altri infami che in questo modo vogliono far tacere il padre. Ma Luna è perdutamente innamorata e lo cerca, lo sogna, lo incontra, lo tocca, con lui muore e con lui risorge. La storia di mafia -quella del sequestro e dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo– è trasfigurata in una dimensione favolistica e simbolica che genera un effetto straniante e terribile.
I cani, i cavalli, le civette tornano a essere fondamentali testimoni della violenza umana, presenza tra di noi di entità numinose, implacabili e sagge. Il tempo si dilata e si contrae seguendo i ritmi delle forze invisibili che guidano gli eventi al loro destino. Lo spazio si allarga in un grandangolo che genera sospensione e attesa di quanto sta per scatenarsi sulla fragile energia della vita. Luna sogna e insieme agisce. Sognando incontra il fantasma di se stessa dentro l’acqua e quello di Giuseppe dentro i boschi. Agendo ritorna sempre allo spessore più tenace del dolore, come accade ogni giorno nella vita. La presenza maestosa e potente della terra, delle foglie, dei fiumi, del vulcano, trasforma la Sicilia in un incanto tremendo di pianto. Il finale aperto e volutamente ambiguo offre lacrime e sorrisi che non riscattano ma rendono la favola un sospiro.
Ci sono due momenti, però, nei quali il mare, lo spazio e le pietre diventano forma e promessa della luce. È quando d’improvviso appaiono le colonne di Selinunte, dei suoi templi che sfidano ogni male e ci proteggono. La vicenda d’amore e di barbarie conquista in questo modo la sua calma. E ci dice che siamo polvere sparsa nella gloria, in quest’ «aiuola che ci fa tanto feroci» (Paradiso, XXII, 151).

Sociologia della cultura

Che cos’è la Sociologia della cultura
di Rocco De Biasi
Carocci, 2008
Pagine 110

In sociologia per cultura si intende l’insieme delle «norme, valori, credenze, simboli che incontriamo sul nostro cammino nella vita di ogni giorno e che ci consentono di conferire un senso a quel che ci accade» (pag. 11). Si tratta dunque di ciò che Durkheim chiamava la coscienza collettiva, «l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della società» (27).
Centrale in queste definizioni è il concetto e la realtà del significato, di una semantica che avvolge e costituisce l’umano sia come individuo sia nella dimensione collettiva. Il valore fondativo della sociologia di Max Weber consiste anche e soprattutto nell’aver «conferito una centralità ai significati soggettivi attribuiti dagli individui alle loro azioni» (9), tanto che la spiegazione delle cause e degli effetti non può che essere successiva al coglimento di tali significati. Weber scrive che «“la cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» (Il metodo delle scienze storico-sociali, [1904], Einaudi 1958, p. 96). Una sociologia comprendente fa questo: coglie, analizza, spiega la ragnatela di significati che intesse e costituisce la vita degli umani, le loro azioni, intenzioni, relazioni. Significati che la realtà fisico/chimica di per sé non possiede e che invece vengono donati dall’attiva presenza degli umani nel mondo. Non si dà alcuna immacolata percezione né mentale né sociale; il mondo è una “foresta di simboli”. Lo è sempre stato e lo è ancora di più nel presente delle reti, dell’industria culturale, della globalizzazione. «Ancor oggi persiste una centralità dello studio dei processi culturali. Per concludere con le parole di Clifford Geertz, “Ritenendo con Max Weber che l’uomo è un animale imprigionato in una ragnatela di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste reti” » (104).
Reti, appunto, al plurale. Il politeismo degli universi simbolici richiede spiegazioni sempre plurali e multicausali. Weber ha colto più a fondo il legame e il conflitto sociale rispetto al monocausalismo economicistico di molte analisi marxiane. Economia, religione, credenze, attese, memorie, paure, riti, aggressività, clan, visioni del mondo, poteri palesi e nascosti, contribuiscono insieme alla stabilità e al mutamento delle strutture collettive.
Fare sociologia della cultura significa dunque sforzarsi di cogliere gli elementi comuni sia alla elaborazione delle verità scientifiche -anch’esse «prodotto di pratiche cognitive radicate all’interno di un ben preciso contesto sociale» (46)- sia alla persistenza del sacro, a «quel complesso di oggetti e di credenze che in ciascuna religione viene concepito come qualcosa di separato e di superiore rispetto alle cose e alle occupazioni quotidiane profane» (29), che emergono ancora e fortemente nel tessuto collettivo, pur se in forme per lo più secolarizzate.
L’esistenza sociale è sempre anche un teatro sociale. “La vita quotidiana come rappresentazione” -secondo la giusta intuizione di Erwin Goffman- si esprime oggi nella rappresentazione che dentro le Reti ciascuno fa di se stesso, assume dagli altri, gioca e ricompone ogni giorno. La multidirezionalità -da molti a molti- di Internet è forse il fenomeno più innovativo, ricco e ambivalente, poiché la tecnologia culturale da un lato moltiplica le possibilità di comunicazione dei singoli e delle comunità virtuali, dall’altro «rappresenta oggi il principale strumento per l’esercizio del potere culturale o simbolico e l’industria dei media è l’istituzione sociale che si pone alla sua base» (79-80).
La sociologia della cultura esercita la sua funzione critica e comprendente anche distinguendo informazione e comunicazione. La prima è una tecnica ingegneristica e matematica che è stata ben descritta da Shannon e Weaver col teorema per il quale «la quantità di informazione equivale alla quantità di incertezza rimossa»; gli esseri umani, però, «rispetto ai calcolatori digitali, non si limitano a trattare informazioni, bensì appaiono continuamente immersi in un processo comunicativo basato sull’attribuzione di un significato sociale ai messaggi veicolati» (78). Si torna così al nucleo fondante della cultura: l’umano come dispositivo semantico.

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