3+2, CFU (Crediti Formativi Universitari pari a 25 ore ciascuno), debiti formativi, GEV (Gruppi Esperti Valutazione), VQR (Valutazione della qualità della ricerca). Le parole sono tutto. E quelle che ho indicato sono alcune delle espressioni dominanti nel linguaggio accademico contemporaneo. Una vera e propria neolingua imposta alle università italiane ed europee da una penosa scimmiottatura delle modalità e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America. Paese, è bene ricordarlo, dove a pochi e costosissimi centri di eccellenza si contrappongono migliaia di università che valgono assai meno di un buon liceo italiano.
Un linguaggio contabile, bancario, aziendalistico che si pone l’esplicito obiettivo di formare non dei cittadini pensanti ma degli impiegati e dei funzionari del pensiero unico mercantile e capitalistico; una realtà che ha danneggiato prima di tutto gli studenti, costretti ad accumulare “crediti formativi” come fossero punti del supermercato, studenti sempre più trafelati nello studio e dunque inevitabilmente superficiali nella preparazione.
Adesso tocca ai docenti. Entro il 25 di questo mese di marzo 2012, infatti, ciascun professore e ricercatore dovrà indicare da uno a tre fra i lavori pubblicati dal 2004 al 2010, i quali saranno sottoposti ai GEV, dalla cui valutazione dipenderanno i futuri finanziamenti di ogni Ateneo. Fuori dall’Università si sa poco o nulla di tali pratiche; ecco perché ne scrivo anche qui.
Non è forse tutto questo un principio di giustizia e di riconoscimento del merito di chi ha ben studiato, scritto, fatto ricerca? Lo sarebbe, certo, se i criteri fossero trasparenti, rispettosi della specificità delle diverse aree del sapere, miranti a incoraggiare gli studi più rigorosi, innovativi, non conformisti. E invece la realtà è esattamente l’opposto. L’obiettivo è discriminare le Università in relazione all’acquiescenza dei loro membri al potere accademico, politico, editoriale.
Lo si può comprendere leggendo alcuni documenti di diversa fonte, dai quali riporto dei brani invitando a una lettura integrale tramite i link. Ripeto quanto scrissi qualche tempo fa: non è questione di studenti, professori, accademie. È questione del futuro e del presente di un pensiero libero, che non riduca il sapere e la ricerca a servi del sistema economico-politico dominante.
«Che cosa sta succedendo in questi giorni nell’Università italiana? In base alla “riforma” Gelmini (assunta in toto dal governo Monti) si è aperto, nel sacro nome del Merito, il capitolo della Valutazione, pomposamente denominato Vqr (“Valutazione sulla qualità della ricerca”). […]
Aree e linee di studio, in taluni casi intere discipline, saranno discriminate, con gravi limitazioni, di fatto, della libertà e del pluralismo. Non solo. Siccome la Valutazione si muove sulla base di sistemi a numero chiuso (per esempio, si stabilisce in partenza il rapporto percentuale tra le riviste di fascia A e quelle collocate nelle fasce inferiori), si produrrà un esito di frustrazione, non di stimolo: poiché è materialmente (e “politicamente”) impossibile che tutti pubblichino su riviste A, agli altri (spesso esclusi perché estranei al mainstream o per ragioni di non-appartenenza a forti cordate accademiche) si trasmetterà un messaggio molto chiaro: “non vale la pena che vi affatichiate, tanto…”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di puro autolesionismo, cioè di stupidità: alle università e al governo dovrebbe interessare stimolare l’attività, non già deprimerla. Ma sarebbe – temiamo – un’obiezione ingenua. Come dicevamo, la Valutazione è un’arma; il proposito è (anche) quello di neutralizzare voci scomode (o soltanto periferiche), concentrando risorse e poteri nelle mani di ristrette cerchie di “ricercatori eccellenti”. Da questo punto di vista, svalutare (e scoraggiare) è utile quanto premiare. Tanto più che l’Università pubblica è costosa e deve “dimagrire” – sappiamo a vantaggio di chi. […]
Aggiungiamo qualche osservazione in merito alle conseguenze micidiali (e di dubbia legittimità) che questo sistema genererà a danno della piccola e media editoria. Far valere (di diritto o di fatto: come dicevamo, una caratteristica di tutta questa faccenda è la scarsissima trasparenza proprio in merito ai criteri di giudizio) una graduatoria tra le case editrici significa, in sostanza, impoverire il panorama culturale dell’intero Paese e renderne agevole la colonizzazione da parte di poche imprese private (e dei potentati accademici). […]
In sostanza, alcuni rispettabili imprenditori privati potrebbero presto diventare i Signori della ricerca scientifica italiana, poiché dalle loro insindacabili decisioni dipenderà la sanzione della qualità delle pubblicazioni, con tutte le conseguenze che da ciò discendono. E se a loro la Valutazione conferirà il tocco di Creso (qualsiasi schifezza avranno deciso di pubblicare potrà miracolosamente trasformarsi in una pietra miliare del progresso scientifico), una pietra tombale verrà invece posta sugli “sfigati” editori piccoli e medi, ridotti al rango di diffusori di merce di scarto.
Questi sono, ci pare, alcuni prevedibili – e già, in parte, attuali – effetti perversi della Valutazione. Su di essi (nonché sui gravi conflitti d’interesse inerenti a giudizi formulati da soggetti inclusi nella platea valutata) varrebbe la pena di confrontarsi prima che un sistema varato con il pretesto della meritocrazia sancisca definitivamente l’emarginazione di posizioni eterodosse e lo strapotere di grandi editori e lobbies accademiche».
(Alberto Burgio – Maria Rosaria Marella, Università, la Valutazione sbagliata, il manifesto, 21.3.2012 )
«Contro l’ERIH e la “valutazione dei tecnocrati” che secondo alcuni esso incarna, si assiste in questi giorni al capitolo forse più qualificato della continua, esasperata e taciuta serie di contestazioni che serpeggia da anni in Europa nella ricerca e nella formazione superiore. Dopo l’“onda” italiana e le rivolte sociali in Grecia, di cui l’università è stata ancora una volta epicentro, ecco in Gran Bretagna l’“Independent” del 22 gennaio dedicare una pagina indignata ad accusare i meccanismi bibliometrici del RAE di favorire tra l’altro “miopia intellettuale […], guasta convenzionalità […], e disonestà generalizzata”. Negli stessi giorni l’ERIH è stato costretto a ritirare la sua classificazione delle riviste, dopo che i direttori di 61 riviste internazionali di storia della scienza e di filosofia hanno dichiarato che avrebbero aperto il prossimo numero con un editoriale contenente la richiesta di non indicizzarle: “Non vogliamo avere parte in quest’attività pericolosa e sbagliata” (in “un universo in cui tutto” è destinato a “dar luogo a […] hit-parades”, come si legge nell’editoriale dell’ultimo fascicolo della “Revue philosophique”). Ancora, è di questi giorni in Francia una rivolta profonda –di cui qui non giunge notizia– contro le nuove leggi Sarkozy sull’università, incentrate sulla valutazione. Il “Nouvel Observateur” del 14 febbraio intitola: Une période de glaciation intellectuelle commence»
(Valeria Pinto, Sulla valutazione, dagli Atti di un Convegno svoltosi a Napoli nel 2009)
«Quanto tale immagine sia “realistica” lo si può constatare osservando le liste prodotte per Filosofia teoretica (ricavabili dalle attribuzioni tra parentesi nella lista unificata), che confermano tutte le precedenti riserve espresse dalla SIFIT [Società italiana di filosofia teoretica] sulla possibilità di produrre ranking sensati nei termini imposti alle Società. Si tratta di una selezione ampiamente arbitraria, dove si segnalano presenze incongrue e nella quale, viceversa, non sono neppure presenti riviste che ospitano una ampia percentuale della produzione dei docenti del settore. Il risultato, oggettivo, è l’assenza di rispetto per le pratiche riconosciute in una comunità scientifica. […]
Di fronte a questo stato di cose, la SIFIT non riconosce validità, anche solo orientativa, a quanto indicato nel documento GEV e respinge come una grave distorsione l’uso degli strumenti proposti, del tutto inidonei a favorire una valutazione fondata».
(Comunicato della SIFIT sui “Criteri” del GEV area 11, 29.2.2012)