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Mafiosi

La mafia non è più quella di una volta
di Franco Maresco
Con: Ciccio Mira, Letizia Battaglia, Franco Maresco
Italia, 2019
Trailer del film

23 maggio 2017. Palermo ricorda e festeggia i venticinque anni dalla strage di Capaci, dalla «scomparsa» di Falcone e Borsellino. Il ricordo del massacro viene trasformato da una folla di boy scout e da altri sentimentali in una sagra di paese, palloncini colorati, cori da stadio: «Giovanni e Paolo là là là là». Una sanguigna, tenace e attardata Letizia Battaglia rimane sconvolta da questa spettacolare banalizzazione. La gente della Vucciria e dello Zen parla molto male dei due «sbirri e cornuti». L’intramontabile e straordinario impresario di spettacoli Ciccio Mira organizza la più improbabile delle feste, quella che allo Zen (quartiere palermitano edificato negli anni Sessanta) fa esibire cantanti neomelodici e artisti vari per una serata in ricordo dei due magistrati. Il rifiuto da parte di tutti costoro di gridare «No alla mafia». Il giovane, spento e stonato cantante Cristian Miscel indossa magliette con le immagini dei due magistrati ma ribadisce tenacemente che non dirà mai «No alla mafia», neppure se a chiederglielo fossero Santa Rosalia, Gesù, il Padreterno. Cantanti country; ballerine ottantenni; sosia di Raffaella Carrà; neomelodici aggressivi; lo «scanturino» (vigliacco) produttore Matteo Mannino cede alle minacce del quartiere; Mannino e Mira scrivono e riscrivono il testo di presentazione della serata, cancellando alla fine ogni riferimento alla mafia; un cartone animato racconta come tanti anni prima il padre di Ciccio Mira e Bernardo Mattarella divennero amici in occasione di un incidente stradale; Ciccio Mira ha ora un favore da chiedere al figlio di Bernardo, Sergio Mattarella; Mira rivolge una grande lode a costui, al suo silenzio sulla sentenza che ha stabilito la realtà della trattativa fra le istituzioni statali e le organizzazioni mafiose, «perché un vero palermitano non parla, come Ulisse. Chi è stato? Nessuno». Un proverbio sentenzia infatti che «cu picca parrà, ma’ si pintì» (chi ha parlato poco non ebbe mai a pentirsene).
E soprattutto la chiusa del film: parte l’Inno di Mameli, sul palco sculettano ballerine avvolte dal tricolore, un cantante esegue l’Inno in versione techno-pop, davanti al palco soltanto un ragazzino, di spalle, nel buio, nel silenzio e nella distanza del quartiere, di Palermo, della Sicilia. Emblematico ed emozionante; degna conclusione di un film lucido, coraggioso, inevitabilmente intriso di volgarità e di spettacolo, libero da formule e atteggiamenti consolatori, progressisti, etici.
Film costruito con un linguaggio cinematografico articolato e complesso, che mescola -come sempre in Maresco- documento e finzione, verità storica e verità dell’immaginazione, rendendo impossibile comprendere quando i personaggi recitano e quando invece sono. Un linguaggio cinematografico intriso del linguaggio denso, carnale, espressionista e profondamente ironico dei palermitani, del loro dialetto, della loro cadenza che viene da lontano e cammina verso il niente. Un linguaggio cinematografico e dialettale che diventa lingua politicamente scorretta, dove l’ormai impoverito e strumentale lessico dell’antimafia si mostra contiguo e funzionale al protrarsi della mafia. La cui antropologia non è più, naturalmente, quella dei mostruosi analfabeti, puttane, trans, cantanti, detenuti, spacchiosi, venditori, pensionati, che popolano questo film ma abita in dimore pulite, asettiche e internazionali.
Anche per questo la mafia non è più quella di una volta ma rimane «cette chose toujours nouvelles / Et qui n’a pas changé» (Prévert) della quale i siciliani siamo intrisi nella nostra solitudine, nel disincanto, nella libertà dalla speranza e dalla disperazione, nel diffidare della giustizia e dei tribunali, nelle soluzioni dirette e veloci (se il problema è una persona, eliminata la persona è risolto il problema), nelle «menti raffinatissime», nel grottesco, nel culto della morte, nel sorriso e nel sonno, nel tutto e nel niente che siamo.

Sikania

Σικανία era uno degli antichi nomi dell’Isola di luce. Il toponimo si limitò poi alla parte centro-occidentale, quella abitata da genti puniche e difesa prima contro i Greci e poi contro Roma che la conquistò, unificandola.
Avevo toccato qualche anno fa queste terre visitando Sambuca di Sicilia e ora mi sono immerso in esse a partire dal luogo visionario che Lorenzo Reina ha creato a poca distanza da Santo Stefano Quisquina, nell’agrigentino.
Il Teatro di Andromeda ha la struttura di un ovile ma dentro le sue mura e attraversando le sue porte si entra nella raffigurazione della galassia, con l’ovale della forma, il nucleo della scena, le stelle a fare da sedili per gli spettatori che guardano verso Occidente, là dove il declinare del Sole infiamma le pietre e  trova un proprio simbolo nel cerchio che sovrasta la porta a Ovest, dietro la quale si slargano i monti, i fiumi, le gole, le città e il mare lontano che ci bagna, che bagna questa terra posta al centro geometrico del Mediterraneo e dunque al centro della storia.
Un lago è infatti il nostro mare rispetto alla misura sconfinata degli oceani ma intorno a questo lago sono nati gli Egizi, i Greci, i Romani, i Siciliani, noi.
Accanto al Teatro si trovano statue, teste, simboli eclettici di diverse credenze e religioni. Vicina sta un’altra struttura di sassi disposti a ellissi con al centro una grande pietra in verticale. E poi intorno colline abitate da asini allo stato brado, dallo spazio, dal silenzio. Il Teatro di Andromeda è un luogo recente nella realizzazione ma millenario nelle radici e nel sogno, vicino a un borgo –Santo Stefano– piccolo ed elegante, con una bella e assai fruita Villa comunale dalla quale ancora lo sguardo si dipana verso l’oltre.

Le colline e i monti non lontani ospitano eremi di sante, borghi con piazze dove due chiese contrapposte si congiungono nella splendida fontana che sta loro in mezzo, formando una quinta teatrale quasi predisposta per l’epopea western e per altre forme dell’invenzione cinematografica. Questo luogo si chiama Palazzo Adriano, uno dei borghi albanesi di Sicilia, ed è stato infatti scelto da molti registi. Il paesino è posto in basso; sopra di esso sta Prizzi, una casba medioevale intessuta di chiese, edificata davanti alla Montagna dei Cavalli, che conserva nel proprio cuore l’antico abitato di Hippana, uno dei più importanti centri della Sicania, assai antico e sopravvissuto sino al 241 a.e.v., quando la conquista romana cambiò le sorti dell’Isola. Nella strada più importante del paese ha sede il Museo Archeologico ‘Hippana’, ospitale e ricco di ciò che nella Montagna dei Cavalli è stato ritrovato, trafugato e a volte restituito: lamine d’oro e d’argento, una ricca collezione di monete, statuette di vario soggetto, preziosi vasi -lekane, pissidi, alabastron– che raffigurano scene di vita quotidiana e miti dionisiaci.
In questa terra gli dèi sono ovunque e accompagnano l’andare.

Mafia

Il traditore
di Marco Bellocchio
Italia 2019
Con: Pierfrancesco Favino (Tommaso Buscetta), Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno), Fabrizio Ferracane (Pippo Calò), Maria Fernanda Cândido (Cristina, moglie di Buscetta), Fausto Russo Alesi (Giovanni Falcone), Nicola Calì (Totò Riina), Vincenzo Pirrotta (Luciano Liggio), Goffredo Maria Bruno (Tano Badalamenti), Giuseppe Di Marca (Giulio Andreotti)
Trailer del film

Nelle gabbie della loro nientità. Nuddu ammiscatu cu nenti sono infatti e appaiono gli umani dentro Cosa Nostra. Sia quando strangolano ragazzi che hanno visto nascere, che hanno accompagnato alla prima comunione, con i quali hanno condiviso  gli spazi e il tempo delle feste, sia quando dietro le sbarre di un’aula bunker ululano, fingono crisi epilettiche, si spogliano per mostrare a minchia, parlano vastasu o cercano pateticamente di parlar forbito.
La mafia nella sua componente militare è questa umanità miserabile, ossessionata e turpe. Gorgogliata da miserie antiche – Buscetta era il decimo di 17 figli e ne generò otto–; vivente nella più grave ristrettezza intellettuale -Riina era praticamente analfabeta e Contorno parla soltanto in siciliano– ; stolta nel confondere il danaro con la gloria –Pippo Calò si abbassa a qualunque tradimento pur di mantenere patrimoni.
La mafia nella sua componente più profonda, quella delle istituzioni politiche e finanziarie, ha una pluralità di espressioni che qui si condensano nella figura di un Giulio Andreotti prima intravisto in una sartoria di Roma e poi intento a prendere  appunti durante la deposizione di Buscetta a suo carico. Il politico democristiano vi appare come figura insignificante e scialba, sin dall’aspetto dell’attore che lo interpreta. Una scelta intelligente, volta a demitizzare un soggetto che la storia è destinata a dimenticare, un mafioso con qualche lettura in più rispetto ai suoi amici palermitani. Tra questi il più determinato, Riina, si muove come un minerale nella ossessione del silenzio. Si rivolge infatti a Buscetta soltanto per dirgli che lui ha una moralità che non gli permette di parlare con un adultero. Buscetta –al quale il moralista Riina ha sterminato la famiglia– indica invece nel suo nemico il vero «distruttore di Cosa Nostra», il traditore dei suoi valori, colui che ha scannato donne e bambini e ha esteso il traffico di droga sino a far morire di eroina molti degli stessi figli dei mafiosi.
Immersi e viventi nell’esercizio della violenza militare, dell’astuzia politica, dell’avidità economica, i mafiosi rappresentano un distillato dell’umanità perduta. È a quest’essenza che il film di Bellocchio mira, è quest’essenza che coglie come credo nessun altro film ‘di mafia’ abbia saputo fare poiché non è un film di mafia ma è opera antropologica, che sa coniugare in modo equilibrato da un lato la vicenda politica che si coagula intorno a Cosa Nostra e dall’altro i caratteri personali dei suoi maggiori esponenti. Tra questi caratteri emergono con particolare forza la malinconia di Favino e la vitalità di Lo Cascio, davvero straordinario nel suo siciliano espressionista, infantile, ironico.
La cinematografia di Marco Bellocchio ha al centro il revenant, i morti che appaiono ai vivi, che ritornano nei loro incubi, che formano i loro assilli, che li afferrano nella loro fine. Tale carattere trionfa  in questo film poiché la mafia è un memento mori che mai si ferma e mai si stanca. La morte sta infatti al centro dei dialoghi tra Buscetta e Falcone e compare nel primo finale, quando un Buscetta ormai anziano sogna finalmente di compiere quell’omicidio che gli era stato ordinato da giovane e che ancora non aveva portato a termine. Il secondo finale è costituito da alcuni secondi di un video nel quale il vero Buscetta canta una canzone brasiliana colma di saudade, con la voce e lo sguardo di chi sente –anche se non possiede gli strumenti culturali per pensarlo che non valiamo niente, «δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε / ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες, / ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι», ‘miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, / altra volta cadono privi di vita’ (Iliade, XXI, 464-466; trad. di G. Cerri).

La festa, il dolore

Venerdì 9 novembre 2018 alle 17,30 nel Coro di Notte del mio Dipartimento parlerò del magnifico libro di Franco Carlisi  Il valzer di un giorno (Seconda edizione rinnovata nei testi e nelle immagini, Gente di Fotografia Edizioni 2018).
Qualche mese fa avevo già scritto che questo libro raffigura i corpi, la festa, la tensione, il sorriso, la carne, le luci, le chiese e le strade, i curiosi e le madri, i suoni e i silenzi, il battito pronto a dire di sì, il distacco da ciò che fu, l’attesa dell’avvenire, gli abbracci per sempre e la potenza dell’adesso, il καιρός. E tutto questo nell’istante di uno scatto, in una foto.
Insieme a me e all’autore interverrà Maria Rizzarelli, con la sua consueta capacità di decifrare le immagini e restituirle in parole.

 
 

Aere perennius

L’eco del classico
La Valle dei Templi di Agrigento allo Studio Museo Francesco Messina
Milano – Studio Museo Francesco Messina
A cura di  Maria Fratelli, Giuseppe Parello, Maria Serena Rizzo
Sino al 21 ottobre 2018

Una continuità nella differenza segna, coniuga e distingue la relazione tra le sculture di Francesco Messina (1900-1995) e le opere che emergono e stanno nel Parco Archeologico della Valle dei Templi. Tori, cavalli, busti, nudi femminili cospargono l’ex Chiesa di San Sisto, sede dello Studio Museo Francesco Messina. Nella navata si mescolano oggetti e sguardi di millenni lontani. Opere che vanno dal VI secolo aev al XIV ev: statue di varie dimensioni; busti fittili; teste in porfido, marmo, creta; vasi a figure sia nere sia rosse; frammenti, monete, sigilli.
La cripta ospita la ricostruzione di uno scavo archeologico e un flusso di immagini di Akragas/Agrigento. Nelle stanze da lavoro dello scultore sono esposte antiche fotografie della Valle dei Templi e alcuni acquarelli di Pavlos Habidis (qui sotto il Tempio di Giunone), che a loro volta sembrano coniugare i dipinti del Grand Tour con il cielo e gli ambienti contemporanei.

Una delle più potenti e magnifiche città della Μεγάλη Ἑλλάς non poteva non avere un grande teatro. Perduto per millenni, questo teatro sta ora riemergendo dalla polvere, dagli usi inadeguati, dall’umiliazione. Dedicargli una mostra dentro una ex chiesa cattolica costituisce per i Greci una rivincita, un riscatto della luce, poiché, come afferma Pindaro, «unica è la stirpe degli uomini e degli dèi e da un’unica madre entrambi hanno respiro» (Nemea, 6, 1-39).
Anche se dimenticata, disprezzata o sepolta, tale luce continua a illuminare l’Europa in questo indaffarato angolo di Milano. Nelle opere qui esposte, nei manufatti concepiti, plasmati, sprofondati e riemersi dal cuore della Sicilia greca «la vita si manifesta nella sua luce assoluta e nella sua verità. Questa ‘illuminazione’ sarebbe -sottolinea ancora Aristotele- la modalità ‘misterica’ del conoscere» (Davide Susanetti, La via degli dei. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione, Carocci 2017, p. 20).
L’arte, l’architettura, la filosofia dei Greci esprimono questa forma oggettiva di iniziazione, fatta non di riti che l’andare della storia porta al culmine e alla deriva, non di ‘parole di Dio’ autoritarie e indiscutibili, non di contenuti accessibili a ristrette cerchie, ma composta di oggetti, figure, edifici, testi, dentro i quali ognuno e tutti possono entrare, guardare, tenere in mano, abitare per attingervi spiegazioni disincantate e insieme determinate, serene. «Exegi monumentum aere perennius», ‘Ho edificato un monumento più duraturo del bronzo’ (Orazio, Odi, III, 30, 1).

Umanitarismo e Spettacolo

In mondovisione la società dello spettacolo -giornalisti e televisioni, i mediatiques come li chiama Guy Debord, che hanno «toujours un maître, parfois plusieurs» (Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, 1992, § VII, p. 31)- accoglie 600 migranti a Valencia. Niente di paragonabile a tale dispiegamento c’è stato quando Sicilia e Italia hanno accolto in tutti questi anni e quasi ogni giorno migliaia di migranti. Spagna la quale, in base alle sue norme, ne rimpatrierà in Africa una buona parte. Accolgono sapendo già che respingeranno. È questa l’essenza dell’umanitarismo spettacolare di una società intramata di ipocrisia.
Altra distorsione mediatica: come dimostra la prima pagina della Repubblica del 29.6.2017 -meno di un anno fa- anche il precedente governo a guida Partito Democratico e con ministro degli Interni Marco Minniti aveva dichiarato la necessità di chiudere i porti.
Chi finanzia la labile memoria della stampa?
Chi finanzia le organizzatissime strutture (ONG) che rappresentano un anello indispensabile nella moderna tratta degli schiavi?
Chi finanzia il flusso verso l’Europa, la quale deve rimanere sempre aperta mentre gli Stati Uniti d’America chiudono i loro confini e, con i dazi, la loro economia?
Il 4 giugno del 2015 commentavo in questo sito alcuni brani di Karl Marx. Ripropongo parte di ciò che scrissi allora perché mi sembra che gli eventi ne abbiano confermato la sostanza.

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«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda.
Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia.
È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica. Tutto questo si chiama anche globalizzazione
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Chi finanzia dunque l’esercito industriale di riserva che nell’immaginario collettivo sostituisce la lotta di classe con i diritti umani?
Le anime belle invece non le finanzia nessuno. Fanno tutto da sole.

 

Biblioteche

«Sospetto che la specie umana  -l’unica- stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta»
(Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele in Finzioni, Meridiani Mondadori, p. 688)

La Biblioteca del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania possiede un patrimonio di circa 350.000 monografie e alcuni Fondi di grande pregio sia scientifico sia artistico. La sua Emeroteca conserva quasi 600 testate di periodico attive e quasi 3000 cessate.
Dal marzo del 2017 svolgo la funzione di delegato del Direttore del Disum alla gestione di tale struttura. Coordino dunque una commissione composta da quattro colleghi e da una Bibliotecaria. Dal giorno del suo insediamento l’attività della commissione è stata improntata ai seguenti principi:
1. Affrontare in modo consapevole e quotidiano i problemi incancreniti da anni di gestione non all’altezza della complessità e ricchezza di questa struttura.
2. Attuare tale tentativo attraverso modalità trasparenti, determinate e rispettose delle norme, del patrimonio librario, degli studiosi e degli studenti che utilizzano la Biblioteca più ricca dell’Ateneo di Catania.
3. Salvaguardare strutture, patrimonio e servizi che appartengono all’Università di Catania e quindi ai cittadini che la finanziano con le loro tasse.
4. Responsabilizzare tutto il personale della Biblioteca, che abbiamo incontrato in varie occasioni e con il quale interagiamo costantemente.
5. Rendere una concreta e virtuosa pratica quotidiana l’indicazione che avevamo dato in occasione del primo incontro con il personale della Biblioteca (8 maggio 2017), riassunto nella seguente espressione: «La Biblioteca non esiste in funzione nostra ma siamo noi che esistiamo in funzione della Biblioteca». Così come noi docenti esistiamo per il Dipartimento, non il Dipartimento per noi docenti.
Al momento del nostro insediamento la situazione della Biblioteca del Dipartimento di Scienze Umanistiche è apparsa caratterizzata da alcune gravi criticità; mi limito a segnalarne soltanto due:
-La mancata catalogazione dell’intero patrimonio librario e la dispersione di un numero imprecisato di volumi.
-La disfunzionale interruzione per la pausa pranzo dei servizi bibliotecari e dell’apertura delle sale di lettura.

Elementi positivi sono stati e sono invece:
-La disponibilità di gran parte degli impiegati a dare il proprio contributo al recupero di una corretta gestione. Abbiamo visto persone ritrovare entusiasmo per il loro lavoro in Biblioteca.
-L’attività di catalogazione e controllo a scaffale, che sta dando ottimi frutti.
-La realizzata apertura dei servizi bibliotecari senza interruzioni sino alle 16.45 e della principale sala lettura della Biblioteca sino alle 19.40, anche con il contributo di studenti tirocinanti e part-time.
-La collaborazione costante con il Centro Biblioteche e Documentazione dell’Ateneo, che ha messo a disposizione le proprie competenze e la presenza, quando richiesta, del proprio personale, a cominciare dalla Dott.ssa Daniela Martorana, senza la quale tutto questo semplicemente non sarebbe stato possibile.
Stiamo vedendo con autentica gioia la crescita del numero di studenti e docenti che usufruiscono dei servizi della Biblioteca, dei suoi spazi, del suo splendido patrimonio.
«Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire. […] Ho ricostruito molto, e ricostruire significa collaborare con il tempo, nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti» (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano. Seguite dai taccuini di appunti, Einaudi 1988, pp. 121-123). Desideriamo mantenere vive le biblioteche-sorgenti delle quali parla Yourcenar e per raggiungere tale obiettivo è necessaria la collaborazione di tutti, a partire dai nostri allievi.
Anche per questo lo scorso 28 maggio abbiamo incontrato alcuni rappresentanti degli studenti, ai quali abbiamo consegnato una comunicazione -mia e della Dott.ssa Martorana- che evidenzia gli elementi di criticità nei comportamenti dei fruitori della Biblioteca. La si può leggere qui: La Biblioteca, gli studenti, i lettori. In essa ricordavamo alcune elementari regole di utilizzo di un bene prezioso e collettivo, alcune elementari regole di civiltà bibliotecaria. Si tratta delle norme che vedete qui accanto, tratte dagli articoli 6 e 7 del Regolamento di Ateneo. Abbiamo chiesto ai rappresentanti degli studenti di collaborare alla messa in atto e soprattutto alla interiorizzazione di tali pratiche.
La situazione, invece, si è aggravata, come testimonia uno scambio epistolare relativo ad alcuni comportamenti che persistono, in particolare:
-La mancata restituzione nei tempi previsti dal regolamento di Ateneo dei volumi presi in prestito (comportamento messo in atto anche da alcuni docenti, verso i quali stiamo assumendo i provvedimenti previsti dal regolamento).
-L’abitudine a sottolineare e apporre segni vari sui libri della Biblioteca.
-Il mancato rispetto del silenzio quando si sta e si studia in Biblioteca.
-L’utilizzo degli armadietti -nei quali lasciare gli zaini mentre si sta in Biblioteca- come deposito di effetti personali per l’intera giornata e persino portandosi le chiavi a casa. Ci sono giorni in cui a inizio mattina sono presenti in Biblioteca due o tre studenti ma gli armadietti chiusi sono quasi quaranta.
Su questo e su altri problemi ho avuto uno scambio epistolare con alcuni rappresentanti degli studenti. Rendo nota soltanto una mia lettera poiché non sono stato autorizzato dai miei interlocutori a pubblicare le loro. Ecco il testo di una mail del 6.6.2018:

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Quanto sta accadendo nella Biblioteca del Disum è di una gravità inaudita e la responsabilità è tutta e soltanto dell’inciviltà e della scorrettezza degli studenti.
Se già da ventenni non si è in grado di rispettare un servizio pubblico, le strutture collettive, gli altri colleghi, questo spiega perché la Sicilia tutta vive in una condizione civile pressoché infima.
La «situazione d’emergenza» della quale parla non è creata dal destino cinico e baro, da una calamità naturale, dall’inefficienza dei servizi bensì dalla rozzezza umana e sociale dei fruitori della Biblioteca, dei vostri rappresentati, che evidentemente non siete riusciti a convincere a cambiare atteggiamenti, nonostante la chiarezza con la quale io e la Dott.ssa Martorana vi abbiamo parlato nell’incontro dello scorso 28 maggio. Incontro da noi sollecitato perché non era difficile capire dove stesse andando la china intrapresa.
Ho ribadito ieri alla Dott.ssa Martorana l’assoluta inopportunità legale e di fatto a farsi custodi dei beni personali dei fruitori. Se gli studenti del Disum non sono in grado di rispettarsi a vicenda, questo non deve mettere a rischio penale gli addetti alla Biblioteca.
Noi stiamo facendo il possibile per fornirvi strutture e servizi adeguati. Al resto deve provvedere la civiltà e l’intelligenza dei fruitori, civiltà e intelligenza evidentemente carenti.
Siete voi che dovete dire ai vostri colleghi che la Biblioteca ha delle regole scritte e delle regole che nessuna comunità civile si sognerebbe di scrivere.
Dite loro che gli armadietti della Biblioteca servono soltanto per stare in Biblioteca e non come deposito per poi andarsene in giro per il Monastero.
Dite loro che senza il rispetto di queste elementari regole di convivenza non sarà più possibile utilizzare la Biblioteca.
Dite loro che i responsabili della Biblioteca sono amareggiati, delusi e indignati.
Si andrà verso la progressiva chiusura dei servizi e questo lo si deve unicamente e soltanto alla responsabilità degli studenti.
In questi giorni sarò impegnato con esami e convegni e dunque non potrò incontrarvi. Non ho comunque nulla da aggiungere a quanto ho detto il 28 maggio e sto ribadendo in questa mail.
Gli studenti di Catania stanno mostrando di non meritare la loro Biblioteca. Non si tratta infatti dei comportamenti di questo o di quello ma di un clima sociale di sopraffazione e illegalità, senza il quale questi gravissimi fatti non accadrebbero.
In tale situazione non si può parlare di «malcontento» degli studenti -verso chi se non verso se stessi e i propri colleghi?- e di «fase intermedia» -verso quale fase definitiva?- ma piuttosto di fallimento sociale e antropologico.
Come responsabili della Biblioteca noi abbiamo fatto e facciamo la nostra parte. Siete voi ora che dovete risolvere i vostri problemi, che non hanno a che fare con la Biblioteca ma con lo stare al mondo, un pessimo stare al mondo.
Ho intenzione di rendere pubblico il mio sconcerto di cittadino e di docente. Le chiedo per questo l’autorizzazione a diffondere anche la sua mail. Se non me la concederà -come è suo diritto- renderò pubblica soltanto la mia replica.
Se riceverete le lamentele dei vostri colleghi, comunicate loro questa mia risposta. Noi ci siamo assunti le nostre responsabilità. Voi assumetevi le vostre.

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Sto dedicando molto tempo ed energie a questa Biblioteca, cosa che continuerò a fare sino a quando rivestirò tale incarico, il quale essendo fiduciario potrà cessare in qualsiasi momento. Un impegno che in cambio mi sta offrendo una formidabile e istruttiva esperienza sociologica e antropologica. I corpi sociali costituiscono davvero un intero. Per quanto circoscritti e parziali, l’insieme di eventi che ho qui cercato di documentare mostrano le radici profonde dei limiti della vita collettiva del Sud. In ogni caso non dispero affatto e sono anzi fiducioso nel futuro, anche guardando ai risultati positivi che stiamo raggiungendo con la collaborazione di tutti, a cominciare dalla maggior parte degli studenti che non mettono in atto i comportamenti descritti. Una minoranza danneggia anche loro ma vorrei vederli reagire nei confronti di pratiche gravemente scorrette. Senza la collaborazione di quanti ne fanno parte nessuna struttura può espletare il proprio compito, volto all’interesse collettivo e non alla prevaricazione o ai privilegi di pochi.

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