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Il sogno di un dio

Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia
Castello Ursino – Catania
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 20 ottobre 2023

Bagheria, il mare, le ragazze, i mostri di Villa Palagonia, la campagna, la bellezza conturbante e gelida di Marpessa, le processioni, la festa, i bambini, i vecchi, Leonardo Sciascia. E l’andare e venire dalla Sicilia verso l’altrove. Il dover fuggire ma poi sempre ritornare nel grembo dell’Isola di tripudi e di sfacelo, di cenere mista al sangue degli eroi, dove – nelle urne memori dei Padri – morire è acquietarsi nella luce.
La Sicilia appare fra lontane terre emerse come la sintesi semplice del mondo, una lucente antologia dell’universo. I suoi scrittori la disegnano, la scavano. I suoi fotografi – al Castello Ursino di Catania Ferdinando Scianna, in tante occasioni e luoghi Franco Carlisi – la illuminano, la raccontano. I suoi pittori ne restituiscono le tenebre e la luce. I suoi filosofi, Gorgia, Nicola Spedalieri, Giovanni Gentile, la rendono teoretica.
Ma forse la Sicilia non esiste. Forse l’Isola è il sogno inquieto di un dio e noi siamo parte di questo sogno.

Scicli

Si incuneano ovunque le città e i borghi di Sicilia. Tre colline rocciose tra la costa e gli Iblei circondano e dominano un piccolo tratto quasi pianeggiante. Qui dopo il terremoto del 1693 venne riedificata l’antica Scicli, oggetto di contesa tra normanni e saraceni. La ricostruzione fu barocca. Uno spendente barocco che si dirama nelle strade fatte d’oro, nei palazzi dalle facciate rinascimentali, nelle chiese, tante chiese, che scandiscono la loro musica di pietra nello spazio.
Tra queste San Bartolomeo, incastonata tra due burroni che la fanno apparire come un miracolo d’architettura in mezzo a dei macigni. Dentro questa chiesa – risparmiata dal terremoto – un presepe del 1573 che ha perso molti dei suoi personaggi ma che conserva una vita che si direbbe magica, animistica. Poco distante San Guglielmo in Sant’Ignazio, dove una Madonna guerriera calpesta su un cavallo i saraceni; chiara riproposizione delle dee mediterranee della guerra.

 

Tra i palazzi, da poco restaurato il Palazzo Bonelli Patanè che al nome degli antichi signori dell’Otto e Novecento aggiunge quello dell’acquirente che lo ha restituito allo splendore della facciata rinascimentale,  del giardino interno aperto a un cielo di cobalto, delle otto sale del piano nobile che si susseguono, come d’uso, senza corridoi e che si strutturano in una particolare mescolanza di tradizione e di Novecento, con mitologiche scene rococò nei soffitti e con un mobilio che accomuna la densità di tavoli rinascimentali, i salotti stile Impero, i bellissimi oggetti liberty, in particolare una lampada.
Di fronte a questo palazzo l’antica Farmacia Cartia, diventata museo di se stessa, dove l’intelligenza e l’amore per il mestiere hanno permesso di conservare, dentro solidi mobili di legno scuro Douglas, ampolle, siringhe, veleni, bilancini di precisione, testimonianza di un’epoca in cui i farmacisti erano dei medici, dei chimici e non dei commessi di supermercato quali sono diventati. La Farmacia conserva anche un registratore di cassa degli anni Cinquanta e, nello specchio dietro il bancone, la figura di Igea, dea della salute.
Via Nazionale congiunge la strada dove si trovano palazzo e farmacia – via Mormino Penna – a piazza Busacca e alla chiesa del complesso del Carmine che in un’unica navata concentra tutta la ricchezza tipica delle chiese barocche. Il centro storico di Scicli si squaderna dunque in un’area non troppo estesa. Le sue discese e le sue salite sono clementi e permettono di gustarla a piedi, di perdersi tra i suoi vicoli ma di ritrovarsi facilmente. In ogni caso di avere sempre davanti agli occhi una bellezza che va oltre i suoi monumenti.
Il mare non è lontano da Scicli, come non lo sono Modica e Ragusa. Vicino e dentro la città è la bellezza, è quel «luxe, calme et volupté» (Baudelaire) che nei più ricchi tra i luoghi siciliani coniuga sempre la malinconia della morte e il vibrare dentro essa del καιρός.

Gli occhi della Sicilia

Venerdì 23 giugno 2023 alle 18.00 alla Libreria Feltrinelli di Catania dialogherò con Lina Gandolfo, autrice del romanzo Con i miei occhi (euno edizioni, 2022). Un testo dalla tonalità verista nel pieno del XXI secolo. Un verismo autentico sino al dolore e intramato però della dimensione onirica e folle della grande letteratura del Novecento.
Per scrivere un romanzo come questo è stato necessario avere per decenni osservato, pensato e accolto la disperazione della vita. Della quale l’arsura delle terre della Piana di Catania – di Mineo, di Grammichele, di Scordia – è geografica sineddoche. E bisogna avere avuto il coraggio di confrontarsi senza infingimenti con l’iniquità.

L’epidemia occidentale

Epidemia e caduta
Aldous, 3 dicembre 2022

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute (La caduta) di Albert Camus: «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire».
Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir». La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
E tuttavia la gloria, la luce, la salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, lo slargo del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.

Elio Romano

Libero Elio Romano 1909-1996 
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Vittorio Ugo Vicari ed Enrico La Rosa
Sino al 20 gennaio 2023

Elio Romano ha attraversato il Novecento di una Sicilia sempre uguale e di un’Italia inquieta. È stato amico di altri artisti; ha ospitato pittori e amici nella sua casa museo di Morra, vicino ad Assoro nell’ennese; ha ricevuto committenze da istituzioni pubbliche e private, creando affreschi al modo dei rinascimentali. Ha plasmato le tele, la carta, il gesso, il bronzo. I suoi quadri, e i filmati che ne testimoniano il divenire, mostrano un uomo che sembra aver avuto la fortuna di fare ciò che ha voluto di sé e del proprio talento.
Le 57 opere raccolte a Catania costituiscono anche un’antologia del fare pittorico nel Novecento: impressionismo, fauves, espressionismo, macchiaioli, persino qualcosa del realismo magico. I soggetti sono soprattutto la campagna riarsa, antica, cupa e luminosa del latifondo siciliano; nudi dipinti come da distanze; ritratti assai intensi realizzati con la tecnica della china su carta – forse le cose sue migliori – e su tutto la solitudine di una terra enigmatica, al di là del tempo, dentro ogni tempo.

L’impressione è però di un epigono, di un artista che ha scelto volutamente di isolarsi in luoghi splendidi ma che sociologicamente costituiscono periferia dell’arte contemporanea. A chi gli chiedeva che cosa ci facesse a Morra, Romano rispondeva «coltivo il giardino». Una citazione dal Candide di Voltaire, certo, ma il rischio di una scelta come questa è indicato da alcuni versi di Vittorio Sereni: «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi  1980, p.  67).
L’arte, la filosofia, la vita non sono un’acquisizione soltanto individuale e intima ma costituiscono sempre un riflesso e un’espressione del tempo e dello spazio dai quali germinano. Per questo bisogna sempre abitare la distanza ma saper rendere anche quella distanza il centro del mondo.

Gelati

Paradise. Una nuova vita
di Davide Del Dean
Italia, 2020
Con: Vincenzo Nemolato (Calogero), Giovanni Calcagno (il killer), Catarina Kas (Claudia), Branko Zavrsan (Padre George), Selene Caramazza (Lucia)
Trailer del film

Nello splendore di Cefalù. Due uomini portano in piazza una bara vuota. La buttano a terra, le sparano contro. E minacciano il destinatario di questo lugubre rito. Il destinatario è un gelataio che ha assistito a un omicidio, ha visto il killer, ha testimoniato contro di lui. Per salvarlo gli si dà una nuova identità: venditore di granite nel gelo dell’inverno friulano, ospite di un residence – Paradise – aperto soltanto per lui. Ma non, alla fine, solo per lui. Arriva infatti un altro ospite, nel quale a Calogero sembra di riconoscere l’assassino. Lo afferra, ovviamente, il panico ma la vicenda si dipana senza tragicità, piuttosto attraverso una mescolanza di usanze alpine, affetti trattenuti, μετάνοια, rasserenanti presenze di bambine. E magnifici paesaggi innevati che sembrano indifferenti alla presenza di questi animaletti dotati di maglioni, lampadine e carabine, alcuni dei quali vengono dall’Isola, da Σικελία, dalla Trinacria
«Io non so niente – disse il confidente – […] non so niente: ma tirando a indovinare allo scuro, posso dire che le proposte le avrà fatte Ciccio La Rosa, o Saro Pizzuco… – e già quel verticale volo di gioia diventava caduta, pietra che precipitava al centro del suo essere, della sua paura» (Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1972, p. 31).

Siciliani

Teatro ABC – Catania
La roba
da Giovanni Verga
con Enrico Guarneri (Mazzarò), Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Alessandra Falci, Alice Ferlito, Francesca Ferro, Gianni Fontanarossa, Maria Chiara Pappalardo, Giuseppe Parisi, Giampaolo Romania
regia Guglielmo Ferro
Sino al 13 novembre 2022

La roba e il resto avrebbe dovuto intitolarsi questo spettacolo. Guarneri e Ferro mescolano infatti la scarna e perfetta novella che ha questo titolo con altri testi delle Novelle rusticane e di Vita dei campi; con altri personaggi quali Nedda, Janu, Jeli, Mara; con altre miserie, altri amori, altri tradimenti; con la disgrazia dell’esser nati poveri o d’avere molto danaro e farselo rubare o saper mantenere e moltiplicare la roba e poi dover morire; con la pazienza, la solitudine e la violenza a stento mascherata «d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano» (Jeli il pastore, in Giovanni Verga, Tutte le novelle, Einaudi 2015, p. 130).
E poi le piogge che rovinano il raccolto e il sole tremendo che moltiplica l’arsura. E la diffidenza verso i potenti. E su tutto la morte. La morte che fa impazzire Mazzarò al pensiero che dovrà lasciare ad altri – a degli sconosciuti – quella roba che è diventata la sua sostanza stessa, per la quale ha commesso la stoltezza di continuare a mangiare pane e cipolle quando i suoi granai straboccavano, per la quale ha vissuto, respirato, faticato, odiato. Senza ottenere una pace diversa dalla consolazione di vedere «gli scimuniti» perdere la loro roba e lui acquistarla.
La messa in scena assai tradizionale ma piacevole di Guarneri-Ferro inizia con Mazzarò che recita l’incipit della novella, il suo canto del possesso nello spazio sconfinato della terra:

«Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra».
(Tutte le novelle, pp. 256-257)

La roba è parola tra i siciliani sacra, anche quando essa non riguarda direttamente dei beni economici ma il possesso di cariche politiche, amministrative, accademiche. La roba è il concetto materico per eccellenza. La roba è una droga capace di porre fine alla miseria e di dare senso al regime quotidiano della lotta. Greci e hobbesiani; solitari «sul cuor della terra» e splendenti d’ironia come il sorriso dell’ignoto di Antonello, i siciliani vivono la pienezza dell’assurdo mentre vengono inghiottiti dalle tenebre della storia e del tempo.

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