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Revenge

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La tragedia del vendicatore
(The Revenger’s Tragedy, 1606)
di Thomas Middleton
Traduzione di Stefano Massini
Con Ivan Alovisio (Lussurioso), Alessandro Bandini (Junior), Marco Brinzi Giudice), Fausto Cabra (Vindice), Martin Ilunga Chishimba (Direttore del carcere), Christian Di Filippo (Supervacuo), Raffaele Esposito (Ippolito), Ruggero Franceschini (Vescovo), Pia Lanciotti (Duchessa / Graziana), Errico Liguori (Spurio), Marta Malvestiti (Castizia), David Meden (Ambizioso), Massimiliano Speziani (Duca), Beatrice Vecchione (medico)
Scene e costumi di Nick Ormerod
Drammaturgia e regia di Declan Donnellan
Sino al 16 novembre 2018
Trailer dello spettacolo

Nomi parlanti quelli dei personaggi -Vindice, Ambizioso, Spurio, Castizia, Lussurioso…-; trame intricate, grottesche e crudeli, dentro le quali la natura umana si incarna, emerge e si svela più feroce di qualunque altro animale; uno sguardo disincantato, sarcastico e rigido verso la Corte -qualunque Corte- e i suoi intrighi che fottono e cummannano.
Per The Revenger’s Tragedy di Thomas Middleton e per il suo regista Declan Donnellan «possono essersi, in una certa misura, modificate talune strutture politiche e sociali, ma di certo non la natura umana» (La tragedia del vendicatore, Piccolo Teatro di Milano, 2018, p. 12). Il risultato è la perduta follia delle passioni, la loro dismisura che -insieme al continuo riferimento al peccato- fa di questa tragedia della vendetta un’opera profondamente cristiana. Rispetto alla violenza pur ben presente nelle tragedie greche, infatti, qui si vede tutto. Nessuna discrezione, nessun racconto di fatti atroci -come è norma nel teatro antico- ma tali fatti in atto: copule, torture, pezzi di carne tagliati e insacchettati, teschi di fidanzate uccise che avvelenano i loro uccisori, coltelli dentro i corpi. Sino a chiudersi su un sabba nel quale la vendetta dissolve se stessa nella morte di tutti.
La tragedia del vendicatore è dunque una danza macabra, genere tipicamente cristiano; si vedano, ad esempio, le feste messicane della morte, con le quali ha inizio anche 007 Spectre di Sam Mendes. Un genere con il quale e dentro il quale quella concezione del mondo svela in modo esplicito il nichilismo dal quale è tutta attraversata, l’intera e radicale negazione di questo mondo in vista di un altro del quale essere davvero cittadini. È il tipo di tragedia che sarebbe piaciuto all’autore del De civitate Dei. Un contemporaneo, amico un poco più anziano e collaboratore di Thomas Middleton, Shakespeare, mostra ancora una volta la sua unicità anche in questo: le sue tragedie accadono infatti in un mondo nel quale il cristianesimo sembra non esserci mai stato.
In ogni caso lo spettacolo in scena sino al 16 novembre allo Strehler è coinvolgente, danzante e divertente. Molto ben recitato, tiene desta l’attenzione sulla natura umana.

Contro il Politicamente corretto

L’Âge des ténèbres
(titolo italiano L’età barbarica)
di Denys Arcand
Canada, 2007
Con: Marc Labrèche (Jean-Marc Leblanc), Sylvie Leonard (Sylvie Cormier-Leblanc) (Diane Kruger (Veronica Star), Caroline Neron (Carole Bigras-Bourque), Macha Grenon (Beatrice di Savoia), Emma De Caunes (Karine Tendance)
Trailer del film

Il governo del Québec emana una legge che proibisce l’utilizzo di parole antiche, dirette, eloquenti, come ‘negro’ o ‘nano’. Chi le usa rischia l’incriminazione, il licenziamento, la condanna sociale. È quanto accade a Jean-Marc Leblanc. Ennesimo evento, questo, di una ‘vita insignificante’, con una moglie rampante, delle figlie indifferenti, dei capoufficio conformisti e idioti, che sottopongono gli impiegati a training del sorriso completamente artificiosi e a corsi motivazionali del tutto scoraggianti. Di fronte all’insensatezza, allo squallore, alla violenza travestita da rispetto, il protagonista del film si rifugia nell’allucinazione e nel sogno di una vita di successo. Soluzione disperata e nichilistica. Meglio reagire e chiamare la stupidità del Politically correct per quello che è: una delle più gravi e significative manifestazioni del conformismo che domina la Società dello Spettacolo.
Non si tratta certo di un film o di sola finzione. Si moltiplicano ovunque -a partire naturalmente dagli Stati Uniti d’America- le norme che proibiscono l’uso di parole ‘offensive’. Ma a tutti alcune parole risultano offensive. A me, ad esempio, offendono non pochi sostantivi, espressioni e aggettivi di uso sempre più pervasivo. Ho quindi il diritto di chiedere che tali parole non si pronuncino in mia presenza poiché ne rimango offeso? No, naturalmente.
Grave è anche la violenza espressiva implicita nella sostituzione del maschile neutro con soluzioni un po’ grottesche e un po’ patetiche del tipo ‘dello/della studente/studentessa’ o ‘student*’. La lingua è donna e merita di essere rispettata, non di essere violata in questo modo.
Le parole sono sacre. Comunità e civiltà che cominciano a violentare le parole danno un segno esplicito della propria ferocia. Dietro questa dittatura del politicamente corretto si cela una sostanziale indifferenza nei confronti dei reali bisogni dei disoccupati, delle vittime della violenza, degli anziani. Il politicamente corretto costituisce anzi una delle cause dell’ingiustizia, in quanto rappresenta l’alibi che ritiene di poter sanare e nascondere con un linguaggio asettico la ferita sociale. Come sostiene Robert Hughes, il Politically correct è «una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo».
Sono animalista e vegetariano ma ritengo gravissimo e insensato -un vero e proprio atto criminoso- voler censurare o stravolgere le moltissime fiabe nelle quali il lupo o altri animali appaiono in una chiave del tutto negativa. Eppure è quanto fanno seriamente negli Stati Uniti d’America. Allo stesso modo c’è chi comincia a invocare la censura di Shakespeare e di Dante Alighieri in quanto antisemiti e antislamici. Quando infatti si inizia a percorrere la china dei divieti linguistici, l’esito non può che essere la cancellazione della letteratura o la sua distruttiva ‘riscrittura’.
Amo le parole, tutte. Anche quelle che non mi piacciono. Perché «l’‘essere nel mondo’ dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare» (Martin Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi 2017, p. 53). Un parlare libero, armonioso, semplice e funzionale. Non censurato o autocensurato dal timore che qualcuno si possa sentire offeso dal nostro linguaggio. Per non offendere nessuno sarebbe infatti necessario stare zitti. Che è, di fatto, il vero e ultimo esito di ogni dire politicamente corretto, di un‘âge des ténèbres, un’epoca di tenebre.

Riccardo III

Manifatture Teatrali Milanesi – Milano
Riccardo III
di William Shakespeare
adattamento e regia di Corrado d’Elia
con Andrea Bonati, Raffaella Boscolo, Marco Brambilla, Giovanni Carretti, Paolo Cosenza, Corrado d’Elia, Gianni Quillico, Chiara Salvucci, Antonio Valentino
ideazione scenica e grafica Chiara Salvucci
costumi Rossana Parise
produzione Compagnia Corrado d’Elia
Sino al 4 marzo 2018

La natura furibonda del potere è tale da farne una droga senza pari. Chi si getta nel gorgo dell’autorità diventa archetipo, boia e ologramma, che per gli altri è difficile capire sin dove possa arrivare. Dove possa spingersi la frenesia dell’essere primi, essere i soli, essere dei cresi senza morte, essere ricchezze e potenze ambulanti per le strade.
«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza […] per essere l’unico, oppure, nella forma più mitigata e frequente, il desiderio di servirsi degli altri per divenire l’unico con il loro aiuto» (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981, pp. 273 e 561). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei propri simili; il suo trono poggia su mucchi di cadaveri: «Chi stermina tutti i nemici non ha più alcun nemico, e inoltre gode la vista dei loro mucchi ora inermi» (Massa e potere, p. 543).
Riccardo III è la perfetta espressione di questo desiderio e del suo godimento, dell’ossessione che diventa, della totalità paranoica che è. Molto più di una tragedia. Un trattato sulla natura umana, sul suo abisso.
Togliere a questa perfezione ogni circostanza storica, ogni orpello d’epoca, ogni finzione, ogni cascame puramente narrativo. Per farne la verità di un videogioco nel quale i livelli salgono a ogni assassinio, il punteggio cresce a ogni conquista, la pura parola dell’ambizione trionfa e decade, insaziabile di se stessa, divoratrice del tempo e dello spazio. Riccardo è solo voce, i personaggi e i fantasmi con i quali interagisce appaiono e scompaiono su una scena che mima un monitor, dominata dall’eleganza del nero e del blu, illuminata da luci intense e sature, scandita da movimenti discreti e feroci, pervasa da ritmi esaltanti fatti di melodie che diventano technorock ed esplodono insieme alle luci, agli incubi, alle parole scolpite di Shakespeare.
Uno spettacolo superbo, barocco, ludico, tecnologico e tribale. Una gioia, una danza ritornante, un ciclo senza fine, l’essenza del potere, l’enigma disvelato.
«Tomorrow in the battle think on me, And fall thy edgeless sword. Despair, and die!»

Immaginare

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Macbeth
di William Shakespeare
Traduzione di Agostino Lombardo
Con: Franco Branciaroli, Valentina Violo, Tommaso Cardarelli, Daniele Madde, Stefano Moretti, Livio Remuzzi, Giovanni Battista Storti, Alfonso Veneroso
Regia di Franco Branciaroli
Produzione CTB Centro Teatrale Bresciano · Teatro de Gli Incamminati
Sino al 6 novembre 2016

La tragedia è l’immaginare. Tutto infatti avviene nella mente. Se non avessimo questo pungolo continuo del pensare, dal quale -certo- prendono vita poesia, cultura, scienza, interi mondi, staremmo nel presente dell’empiria, dei fatti, dell’adesso. E invece è la mente che ci porta dove aggrada. Nelle memorie felici e in quelle atroci del già stato, nell’attesa senza pause del futuro, in un presente che è sempre interpretato.
Le streghe di Macbeth, le potenze che lo inquietano, lo illudono, lo sbattono, lo distruggono, sono i suoi pensieri, sono la sua immaginazione. Il male che lo intride sta anche nel braccio che uccide, ma abita soprattutto nella fantasia che lo pungola, lo esalta, lo terrorizza, lo stronca.
Il fantasma di Banquo è la più evidente prova che la tragedia è l’immaginare. Stessimo fermi al qui e ora avremmo dolore ma non angoscia, saremmo sempre miserabili ma con misura. E invece la forza del pensare ci porta tra luoghi che sono stati e altri che forse o mai saranno. Luoghi che tralucono a volte miele di dolcezza e altre invece sono fatti di pura atrocità -«Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria» (Alighieri, Inferno, V, 121-123)- e in essi abitiamo come a casa nostra. Poiché è il pensiero la nostra dimora. Abitiamo le sue stanze che hanno nome memoria, attesa, intenzione, fantasia.
Anche per questo «non si pò avere maggior, né minor signoria che quella di se medesimo» (Leonardo da Vinci, Scritti letterari, Rizzoli, aforisma 65, p. 71). Perché essere signori di se stessi vuol dire dominare pensieri, ricordi, attese. Vuol dire regnare.
Macbeth intende regnare sugli umani e sulle terre ma è in balia del proprio immaginare. Lui come la sua compagna. La domanda più lucida e più disperata il re non la rivolge alle streghe ma al suo medico, al quale chiede di dare aiuto alla regina: «Cure her of that. / Canst thou not minister to a mind diseased / Pluck from the memory a rooted sorrow / Raze out the written troubles of the brainrrow?» ‘E curala di questo, guariscila. Non sai occuparti di una mente malata, sradicandole dalla memoria la pena che l’avvolge?’ (Atto V, scena III). Chi sa fare questo non è un medico. È un mago, è un filosofo.
Branciaroli ha intuito tale verità e fa del suo Macbeth una tragedia dell’immaginazione. Assai efficace la scelta di far parlare in inglese le streghe, rendendo ancora più evidente la loro potenza in primo luogo linguistica e dunque mentale. La compagnia però è ridotta all’osso, otto attori, tanto che alcuni episodi non compaiono, così come la scena è minimale; il protagonista, poi, esagera un po’ nella consueta iperteatralità del suo recitare. Ma questa rimane l’opera più radicale e più profonda di Shakespeare, quella in cui la tragedia dell’immaginazione umana si è fatta parola, carne, sangue.

Sorriso / Malinconia

Teatro Franco Parenti – Milano
La dodicesima notte
(Twelfth Night, or What You Will)
di William Shakespeare
Con: Carlo Cecchi, Daniela Piperno, Vincenzo Ferrera, Eugenia Costantini, Dario Iubatti, Barbara Ronchi, Remo Stella, Loris Fabiani, Federico Brugnone, Davide Giordano, Rino Marino, Giuliano Scarpinato
Traduzione di Patrizia Cavalli
Musiche di scena Nicola Piovani; musicisti Luigi Lombardi D’Aquino, Alessandro Pirchio, Federico Occhiodoro
Costumi Nanà Cecchi
Regia di Carlo Cecchi
Sino al 6 marzo 2016

dodicesima_notteL’amore come equivoco, la vita come desiderio, le relazioni come lotta. E su tutto il sorriso di chi ha compreso quanto di umano, troppo umano ci sia nella pretesa di fare delle nostre passioni il criterio del mondo. Così le identità diventano dinamiche, i nomi vengono scambiati, la volontà di piacere all’altro appare o arrogante o ridicola. La ricomposizione finale -nel suo veloce e innaturale acquietarsi- rende ancora più stridente l’accaduto. Nelle commedie di Shakespeare, per quanto divertenti -e questa lo è molto- c’è sempre un fondo di malinconia che contribuisce all’immortalità dell’opera.
Un allestimento della Dodicesima notte che tralascia gli orpelli e punta all’essenziale, che in uno spazio quasi vuoto fa dei costumi la vera scenografia e perviene al cuore della malinconia attraverso un franco sorriso. Carlo Cecchi gigioneggia come sempre e come sempre regala ai suoi personaggi un tratto inconsueto di verità. La compagnia lo segue nella leggerezza e nella meditazione sulle cose del mondo.

Antropologia napoletana

Teatro Elfo Puccini – Milano
Il sindaco del rione Sanità
di Eduardo De Filippo
Con Eros Pagni, Federico Vanni, Maria Basile Scarpetta, Gennaro Apicella, Massimo Cagnina, Angela Ciaburri, Orlando Cinque, Gino De Luca, Federica Granata, Cecilia Lupoli, Rosario Giglio, Luca Iervolino, Marco Montecatino, Gennaro Piccirillo, Pietro Tammaro
Produzione Teatro Stabile di Genova – Teatro Stabile di Napoli
Regia di Marco Sciaccaluga
Trailer dello spettacolo
Sino al 14 febbraio 2016

sindaco_2Finito lo spettacolo appare una frase dal Riccardo II di Shakespeare: «La morte è poca cosa ma risana la ferita della vita». La stessa affermazione viene pronunciata all’inizio da Don Antonio Barracano: «La morte non tene crianza ma un merito ce l’ha: chiude una ferita mortale, la ferita della vita». Nel testo di Eduardo queste parole non ci sono ma bene ha fatto Sciaccaluga a inserirle, poiché delineano in modo limpido l’antropologia che sta al fondo dell’opera. Un’antropologia disincantata, che non crede alla giustizia delle leggi e delle ‘autorità’ ma cerca anche di evitare le carneficine che ogni vendetta privata e ogni ingiustizia subìta scatenano.
Il guappo Antonio Barracano cerca sempre di sentire «le due campane» di ogni disputa, conflitto, odio, e di indicare o -se necessario- imporre la soluzione più equa. Al medico che collabora con lui da trentacinque anni e che è stanco di ricucire e curare i corpi di disgraziati, di canaglie che non lo meritano, Barracano risponde che costoro sono delle vittime, «sì vittime dell’ignoranza e l’autorità comanda più facilmente sugli ignoranti». Don Antonio tiene sempre aperto sulla scrivania il Codice Penale, ne conosce bene contenuto e articoli ma ritiene -come Solone- che le leggi somiglino alla ragnatele: gli insetti piccoli ne vengono catturati, quelli grossi le sfondano. In questo disinganno amaro e profondo sta, certo, la radice delle camorre e delle mafie ma abita anche l’anelito libertario. Tra ‘l’uomo lupo per l’altro uomo’ e il sogno platonico della giustizia affidata ai saggi, si declina uno dei testi più ricchi e complessi della drammaturgia di Eduardo.
La regia di Sciaccaluga è essenziale e punta tutto sulla densità del testo. Eros Pagni è un Antonio Barracano credibile sino alla commozione. Uno spettacolo molto bello, nel quale la tragedia e il comico si intrecciano e fanno pensare ancora a Platone: «Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).

Schuldigsein

Macbeth
di Justin Kurzel
Con: Michael Fassbender (Macbeth), Marion Cotillard (Lady Macbeth), Paddy Considine (Banquo), David Thewlis (Duncan), Sean Harris (Macduff)
Gran Bretagna, 2015
Trailer del film

«Life’s but a walking shadow, a poor player / That struts and frets his hour upon the stage / And then is heard no more. It is a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing», «La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente» (atto V, scena 5). Questo afferma Macbeth tenendo tra le braccia la sua Lady ormai morta. Macbeth il valoroso, Macbeth l’intrepido, Macbeth il traditore, Macbeth il folle, Macbeth lo sconfitto.
Sconfitto dalla sua fiducia negli oracoli, che sono invece per loro natura sempre ambigui, sono uno dei modi con i quali le divinità si divertono a prendersi gioco degli umani. Sconfitto dalla sua fiducia nel proprio coraggio, che non riesce a reggere l’orrore di aver massacrato l’ospite regale nel letto che lui stesso gli aveva preparato. Sconfitto dalla colpa e dal suo senso, che incombe come ascia sulle teste della felicità umana. «Das Schuldigsein resultiert nicht erst aus einer Verschuldung, sondern umgekehrt: diese wird erst möglich ‘auf Grund’ eines ursprünglichen Schuldigseins», «Non è l’essere in colpa l’effetto di qualche indebitamento, piuttosto il contrario: tale indebitamento è possibile soltanto ‘sul fondamento di’ un essere in colpa che sta all’origine» (Heidegger, Sein und Zeit, § 58, p. 284 dell’edizione Niemeyer di riferimento).
La potenza del testo shakespeariano è tradotta da Justin Kurzel in immagini forti, suggestive, lontane. Il film è ambientato in una brughiera desolata, sporca, acquosa. Gli abiti sono quelli di contadini diventati re. I colori sono totali e intridono di sé la disperazione dei personaggi. Le musiche contemporanee trasportano fuori dal tempo questo dramma antico il cui rigore filologico immerge personaggi, parole, immagini in una dimensione arcaica, molto vicina a una tragedia greca.
Ciò che vi accade è infatti forma ed espressione di ἀνάγκη, la Necessità madre delle Moire, «the instruments of darkness», le ‘streghe’ che appaiono a Macbeth a dargli certezze vane e ad assistere impassibili alla sua rovina. Macbeth lo sa ma non può farci nulla. E mano a mano che gli eventi si compiono tutto sembra accadere nella mente di Macbeth il valoroso, Macbeth l’intrepido, Macbeth il traditore, Macbeth il folle, Macbeth lo sconfitto. Macbeth il debitore.

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