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Festa / Narcisismo / Potenza

La fotografia, l’attività fotografica, il lavoro del fotografo, sono polisemantici, assumono modalità, contenuti, obiettivi e risultati molto diversi. La fotografia può essere, e quasi sempre lo diventa nei grandi fotografi, anche antropologia, può costituire assai più che una documentazione storica di ciò che accade, può rappresentare una chiave, una strada, un modo per capire le costanti dei comportamenti umani così come si presentano in un dato spazio e tempo, in un particolare luogo e ambiente antropico. Può in questo modo coniugare la continuità dei comportamenti umani e la varietà del loro  esprimersi e manifestarsi.
Nel caso di Franco Carlisi, questo spazio e questo tempo è il cuore profondo dell’Isola, è il centro della Sicilia vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani, della nostra antropologia: il matrimonio. Per i siciliani il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è festa, narcisismo e potenza.
Festa perché è dimostrazione della gioia, del compimento, della pausa nella vita quotidiana immergendosi in un momento di gaudio e in un rito felice che devono rimanere per sempre nella vita delle persone che lo vivono.
Narcisismo perché è finalmente quell’insieme di ore -quel giorno e tutto ciò che lo ha preparato- nel quale due persone e i loro più intimi familiari si mettono legittimamente al centro della scena collettiva.
Potenza perché qualunque spesa è permessa anche, se necessario, indebitandosi per mostrare le possibilità di una famiglia, la ramificazione dei suoi legami, il fasto che la cerimonia nei suoi diversi momenti -preparazione, rito, banchetto, memoria- deve assumere, pena la sua insignificanza.
L’arte di Franco Carlisi è capace di fare della festa, del narcisismo, della potenza pure immagini che trasformano l’intera corporeità in uno sguardo. Il corpo/sguardo di Carlisi e dei suoi sposi mescola in modo inseparabile la festa e il nulla. A  me sembra questo il suo segreto.

Il 12 novembre 2021 ebbi il piacere di presentare a Caltanissetta l’opera di questo artista. Ho pubblicato ora il video di quell’evento, con l’introduzione  della Prof. Aurelia Speziale e il mio successivo intervento. Il video dura 42 minuti.

 

Corpo / Sguardo

Venerdì 12 novembre 2021 alle 18.00 a Caltanissetta terrò una relazione sull’opera fotografica di Franco Carlisi, in particolare -ma non solo- su Il valzer di un giorno. L’evento si inserisce nell’ambito della mostra in corso presso il Museo Diocesano della città.
L’intervento ha per titolo Franco Carlisi. Il corpo come sguardo.
Il cuore profondo dell’Isola costituisce lo spazio e tempo dell’opera di Carlisi, spazio vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani: il matrimonio.
Per noi il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è lo squadernarsi di un’antropologia.
L’opera di Carlisi trasforma l’intera corporeità in uno sguardo che esprime festa, narcisismo e potenza, che sia il corpo degli sposi, il corpo di coloro che guardano gli sposi, il corpo del fotografo diventato il suo sguardo che coglie, vede, trasmette e documenta l’anima dei siciliani, la solitudine, la malinconia, il nulla. Dentro la festa.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

Archetipo / Altero / Ascetico

Il volto del ‘900. Da Matisse a Bacon. Capolavori dal Centre Pompidou
Palazzo Reale – Milano
Sino al 9 febbraio 2014

Brancusi_Musa_addormentata_1910I “fatti” non hanno alcuna autonomia ontologica ma assumono senso –e quindi per noi si verificano, li vediamo, li viviamo- solo in un ambito di rilevanza situazionale, in un contesto fenomenologico ed esistenziale che è sempre superiore alla somma dei singoli enti, eventi, cose. Una faccia -l’insieme di fronte, occhi, orecchie, zigomi, naso, labbra, mento- non è ancora un volto. E neppure uno sguardo lo è. Lo sguardo, infatti, è l’intenzione comunicativa di una faccia. Il volto è l’interpretazione / costruzione che della faccia e dello sguardo fa chi la osserva. Una faccia è atomistica, separabile in parti. Un volto è l’intero.
Bacon_Michel_Leiris_1976Di questo intero la pittura ha da sempre cercato il segreto. E soltanto la pittura e la grande fotografia possono in effetti riuscire a coglierlo. Il volto archetipo, silenzioso e perfetto della Musa addormentata (Brancusi, 1910) si distende in un sogno orizzontale fatto di luce e di oro, di forme sobrie e perfette, di una calma che dura. Il volto altero, vissuto, dinamico di Michel Leiris (Bacon, 1976) sembra moltiplicarsi a ogni istante; sembra ripetere le sue forme in un qualche altrove appena scoperto; sembra sezionarsi, frangersi, tornare come le onde di un oceano di figure. Il volto ascetico, materico, immerso di Asaku Yanaihar (Giacometti, 1956) colma lo spazio e riempie il tempo come una sacra icona, simulacro venerato da un’umanità diventata ologramma, che in essa riverisce il proprio capostipite.
Il volto del Novecento -e oltre- che questa mostra documenta e testimonia ha tolto al soggetto tutto il peso Giacometti_Asaku_Yanaihar_1956sciocco del suo narcisismo individuale e di ceto, lo ha frantumato nelle discariche della materia, lo ha letteralmente distrutto, per restituirgli però una sacralità completa e inquietante di fronte alla quale vien fatto di sostare come davanti all’immagine di un dio.

 

La materia, lo specchio

Anish Kapoor
Milano – Rotonda della Besana
A cura di Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni
Sino al 9 ottobre 2011

Sette grandi opere dentro la struttura regolare e magnifica della Rotonda della Besana. Al centro domina My Red Homeland, una grande installazione fatta di cera rossa, con un braccio in acciaio che passando sull’enorme massa la spiana e la trasforma a ogni istante. Tra le colonne dell’antica chiesa si riverberano sei specchi a forma di parallelepipedo, di parabole, di curve. Specchi che creano intensi effetti spaziali e danno vita all’opera, la quale esiste soltanto quando una figura consapevole la attraversa, si riflette, riflette. In S-Curve l’ordine perfetto del convesso si sbriciola subito nella dissoluzione del concavo. E viceversa. Non Object (Door) deforma il corpomente che vi si specchia, Non Object (Plane) gli trasmette una magia tridimensionale che -avvicinandosi ancora- diventa luce bianchissima che a guardarla stordisce. Quasi una droga estetica. E in ogni punto di questo luogo a croce greca si crea un nuovo artefatto, una rinnovata visione. «Oltre Oriente e Occidente» recita la presentazione della mostra di questo artista/architetto nato a Bombay nel 1954. Di più: oltre soggetto e oggetto, contenuto e forma, materia e sguardo. Il mondo è tutto nella visione e la visione è cosmica.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Lo sguardo umano

Abdel Kechiche
Venere nera
(Venus noire)
Con: Yahima Torrès (Saartjie), Andre Jacobs (Caezar), Olivier Gourmet (Réaux)
Francia-Italia-Belgio, 2011
Trailer del film

Nel 1810 a Londra una donna del Sudafrica viene esposta come fenomeno da baraccone. Il suo guardiano domatore la mostra al pubblico in una gabbia da cui la tira fuori come fosse una selvaggia, suscitando un’esitazione eccitante. È la Venere ottentotta. Pochi anni dopo, a Parigi, la donna viene presentata in feste aristocratiche più o meno licenziose. L’eco dello spettacolo arriva ai naturalisti dell’Università che pagano i suoi padroni per studiarne il corpo e misurarne ogni dettaglio, soprattutto le grandi natiche e la particolarissima estensione delle piccole labbra della vulva. Quando la donna rifiuta di mostrarsi completamente nuda agli scienziati viene picchiata dai suoi sfruttatori. La degradazione subita la conduce a un bordello e poi per le strade, sino a che sifilide e tubercolosi non la uccidono. Questa la vicenda di Saartjie Baartman. Il corpo venne venduto dopo la morte agli stessi naturalisti che non erano riusciti a studiarla in vita come pretendevano. Un calco dell’intera persona a grandezza naturale, gli organi genitali e il cervello conservati nella formalina costituirono oggetto di lezione di anatomia razziale da parte di insigni studiosi, tra i quali Georges Cuvier. Costoro affermarono con sicurezza che la conformazione del cranio, del volto e del sedere di questa “femmina” la avvicinava assai più all’orangotango che all’Homo sapiens sapiens. Soltanto nel 2002 i resti e lo scheletro di Saartjie vennero restituiti al Sudafrica e trovarono finalmente sepoltura.

Il film si chiude proprio sulle immagini reali dell’arrivo delle spoglie di Saartjie Baartman in Africa. Si apre, invece, su una lezione tenuta da Cuvier, nella quale lo scienziato espone le proprie opinioni razziste come un dato del tutto evidente, empiricamente e razionalmente evidente. Merito non piccolo di questo film è dunque contribuire a smascherare ancora una volta la presunta neutralità delle scienze dure, le quali in realtà -come tra gli altri Foucault e Kuhn hanno dimostrato- costituiscono uno dei più formidabili strumenti al servizio del potere degli Stati e dei pregiudizi diffusi nelle società. Ma non è questo a dare senso e valore al film. Neppure lo è la critica al razzismo che intride la storia europea come quella di tutti gli altri continenti e civiltà. La magia di Venus noire sta nell’essere una descrizione dello sguardo umano. Non succede infatti nulla in questo film. Tutto quello che accade è dentro e intorno al corpo di Saartjie, nei suoi occhi. Il suo sguardo rimane sempre colmo di una profonda dignità, qualunque cosa accada, anche quando viene toccata, derisa, violata non soltanto dalle mani degli altri ma anche e soprattutto dai loro sguardi famelici, sprezzanti, curiosi, lascivi, violenti, umilianti, volgari, arroganti, avidi, gelidi. Lo sguardo di Saartjie e quello di tutti gli altri appaiono in un tessuto di primi e primissimi piani scolpiti da una cinepresa in moto perpetuo, che mostra come lo sguardo umano sia uno sguardo di ferocia.

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