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Un’inquietudine che si autocelebra

Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980
A cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin
Milano – Palazzo Reale
Sino al 2 settembre 2012

Ad accogliere è una semplice cornice dentro la quale è inscritta la parola Gliannisettanta (Alighiero Boetti) . Nella stessa stanza sta la Bariestesia (Gianni Colombo), una serie di scale asimmetriche che vanno percorse per comprendere quanto straniante possa essere lo spazio. Un incipit nel quale l’ordine della parola racconta il disordine dei luoghi e degli eventi. Da qui ci si inoltra in un vero e proprio catalogo, a volte bulimico, degli anni Settanta.
Copie delle edizioni L’erba voglio e di Alfabeta. La dinamica classicità delle sculture di Fausto Melotti. Il Nuovo Realismo nella varietà delle sue forme, tra le quali i piatti e i tavoli sporchi del Restaurant Spoerri. I funerali delle vittime di Piazza Fontana fotografati da Ugo Mulas. Christo che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo. I ritratti fotografici di Carla Cerati che descrivono altri funerali, i processi più celebri, i personaggi più paradigmatici. L’Orlando Furioso messo in scena da Ronconi in mezzo al pubblico assiepato in piedi. Le superfici acriliche e asettiche di Enrico Castellani. Bernd e Hilla Becher che fotografando gasometri, torri d’acqua e fornaci mostrano tutta la bellezza urbana del paesaggio industriale, da Sironi in poi. John Cage al Teatro Lirico il 2 dicembre 1977. Cesare Colombo e Gianni Berengo Gardin che colgono Milano negli angoli e nei modi di esistere più suoi, mentre Gabriele Basilico si concentra sul proletariato giovanile che la abita. I raduni di questo proletariato, e di chi a proletario si atteggiava, documentati con le immagini e il sonoro. Il tardo e sterile surrealismo di Sergio Dangelo. L’intuizione della Révolution informatique di Simon Nora e Alain Minc. Il narcisismo di Emilio Isgrò che si celebra nella serie di attestati, firmati da lui e da altri, nei quali dichiara di non essere Emilio Isgrò. Le grandi tele colorate di Valerio Adami. Il grigio brechtiano di Emilio Tadini. I meravigliosi Segmenti in bronzo di Arnaldo Pomodoro. Gli Studi di anatomia di Giovanni Testori, espliciti sino al porno. Le metafore materiche di Alik Cavaliere.

Un’inquietudine che si autocelebra, questo è la mostra che Milano ha dedicato a se stessa nel tempo in cui pensava di cambiare il mondo mentre poi fu essa a cambiare, diventando la craxiana capitale della corruzione politica. E questo avvenne -triste a dirlo ma così fu- con la complicità attiva o rassegnata di non pochi fra coloro che volevano, o immaginavano di volere, la Rivoluzione.
Sorpresa-Scandalo-Normalità-Museizzazione. L’inevitabile ciclo di ogni avanguardia e sperimentazione ha in questa mostra una conferma quasi didascalica. La storia (il tempo) davvero tutto tritura, tutto immobilizza. Un Addio malinconico a un decennio che è fallito nelle sue speranze ma che ha vinto nella sua rassegnazione alla legge del più forte. Poiché la città non è riuscita a essere più forte delle banche, ha riconosciuto la loro forza e vi si è sottomessa. Eppure in questo suo quasi funebre autoricordare, Milano mostra di essere ancora la città più critica d’Italia. E questo è parte della sua grandezza, del suo dramma.

Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia

Nuova edizione
Villaggio Maori Edizioni
Catania, 2012
Collana I Saggi del Villaggio

ISBN 978-88-906119-3-3
Pagine 176
€ 14,00

La prima edizione di Contro il Sessantotto (1998) è andata esaurita presso l’editore Guida. Questa seconda edizione presenta una Prefazione di Eugenio Mazzarella, alcune modifiche al testo e un nuovo capitolo dal titolo «Desiderio del Sessantotto. Un’ambigua autocritica».

Questo è l’indice completo:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La società dello Spettacolo

La Société du Spectacle (1967)
Commentaires sur la société du spectacle (1988)
di Guy Debord
Gallimard, Paris 1992
Pagine 209 e 149

Lo spettacolo è il dominio della rappresentazione sulla realtà, la confusione costante dei due livelli sino alla loro totale compenetrazione, che cancella i limiti del sé e del mondo, dell’effettuale e dell’immaginato: «la réalité surgit dans le spectacle, et le spectacle est réel. Cette aliénation réciproque est l’essence et le soutien de la société existante» (La Société du Spectacle, aforisma 8, pagina 19).
Lo spettacolare concentré e lo spettacolare diffus -che nel 1967 Debord ancora distingue- nei successivi Commentaires del 1988 saranno unificati nello spettacolare intégré. Tra tutte le forme dello spettacolo contemporaneo è soprattutto la televisione a costituire l’ininterrotto discorso che la folla solitaria e i suoi padroni intrattengono su se stessi, il dominante specchio autoelogiativo di un sociale divenuto autistico e totalitario. Un’immensa allucinazione collettiva sembra fare del mezzo televisivo il suo stesso scopo. Tale spettacolo

est le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire (af. 13, p. 21).

Soltanto ciò che appare in televisione esiste veramente, il monopolio dell’apparire è diventato il monopolio dell’essere e del valore fino al punto che non apparire equivale a non esserci. Un mondo sempre più virtuale sembra mostrare evidenti le tracce del profondo nichilismo che lo attraversa: «le spectacle est le mauvaise rêve de la société moderne enchaîné, qui n’exprime finalement que son désir de dormir» (af. 21, pp. 24-25).
Quali le cause della vittoria televisiva? Debord tenta una sia pur sintetica storia del mondo (nel capitolo V: temps et histoire) ma certo non mira a cogliere tutte le radici del fenomeno. Si limita a individuarne due: da un lato la centralità del vedere unita al dominio della tecnica che caratterizza fin dai Greci il progetto filosofico europeo; dall’altro il dispiegarsi vittorioso del Capitale. Lo spettacolo nella sua essenza altro non sarebbe che «le capital à un tel degré d’accumulation qu’il devient image» (af. 34, p. 32).

È molto interessante seguire il percorso di Debord dall’opera del 1967 ai Commentari di vent’anni dopo passando per l’edizione italiana del ’79. In quest’ultima, infatti, le speranze rivoluzionarie e la fiducia nel proletariato “non stalinista” sono intatte, anche se mai Debord confonde la distruzione del presente con la sicura felicità del domani. I successivi Commentaires, invece, dichiarano fin dall’inizio di non voler giudicare né indicare ma soltanto descrivere e si chiudono con un’ambigua dichiarazione di resa affidata a una pagina di dizionario aperta alla voce vainement (“vanamente”): «le travailleur a perdu son temps et sa peine, sans préjuger aucunement la valeur de son travail, qui peut d’ailleurs être fort bon» (cap. XXXIII, p. 118).
Nel mezzo, si dispiega una compiuta descrizione di alcuni degli sviluppi più nascosti della società contemporanea. I temi, gli eventi, le connessioni toccate da Debord sono eccentrici e proprio per questo verosimili. Tucidide e Clausewitz servono a spiegare i servizi segreti, Gracián e La Boétie aiutano a cogliere i nuovi servilismi, mafie e terrorismi vengono inseriti –come è giusto- nel cuore dell’economia e della politica attuali. Aldo Moro e le Brigate Rosse ritornano con frequenza come prova della solidarietà e reversibilità che intercorre fra i servizi segreti e i rivoluzionari. Il «terrorisme illogique et aveugle» (Préface, p. 138) delle BR è l’emanazione della P2 chiamata da Debord Potere Due, in grado di assicurare impunità ai terroristi e la cui concordia è svelata da un lapsus: il S.I.M., il preteso “stato imperialista delle multinazionali” non sarebbe altro che il modo con cui le BR firmavano senza volerlo la loro vera natura di succedanee del Servizio Informazioni Militari del regime fascista (Ivi, p. 135). Non a caso, inoltre, le operazioni delle BR ottenevano il massimo di pubblicità da parte dei media, a suggello della «politique “spectaculaire” du terrorisme» (Ivi, p. 142). Terrorismo che nulla avrebbe quindi in comune con gli intenti sovvertitori della Internazionale Situazionista, della quale La Société du Spectacle volle essere il fondamento filosofico e critico. Ma, a proposito di lapsus, la Situationist International ha la stessa sigla dello SI, lo Spectaculaire Intégré, il quale s’impone ormai ovunque, perfettamente coeso con ogni forma di discorso pubblico, struttura istituzionale, modo di produzione. Esso si caratterizza per l’effetto combinato di

cinq traits principaux, qui sont: le renouvellement technologique incessant; la fusion économique-étatique; le secret généralisé; le faux sans réplique; un présent perpétuel (cap. V, p. 25).

Attraverso di essi l’arte di governo muta radicalmente, il dominio diventa assai più soft: «le destin du spectacle n’est certainement pas de finir en dispotisme éclairé» (cap. XXXII, p. 116). Non la violenza aperta è infatti lo strumento dello Spectaculaire Intégré ma una pervasiva disinformazione la quale «réside dans toute l’information existante; et comme son caractére principal» (cap. XVI, p. 69). La conseguenza è che tutti gli addetti all’informazione hanno sempre un padrone, sono tranquillamente sostituibili e meglio servono quanto meglio mentono. Ciò che conta è infatti rimuovere la storia, la memoria, la distanza poiché «l’histoire était la mesure d’une nouveauté véritable; et qui vend la nouveauté a tout intérêt à faire disparaître le moyen de la mesurer» (cap. VI, p. 30).
All’inizio dei Commentaires, Debord dichiara che non tutto potrà essere detto e bisogna scoprire il segreto fra le pieghe delle parole. Il caso forse più importante di applicazione di questa reticenza è il Sessantotto. Nonostante le sue esplicite intenzioni, esso non ha minimamente scalfito lo Spectaculaire Intégré che anzi ha continuato ovunque a rafforzarsi.

Già nel 1967, Debord aveva compreso e scritto che

À l’acceptation béate de ce qui existe peut aussi se joindre comme une même chose la révolte purement spectaculaire: ceci traduit ce simple fait que l’insatisfaction elle-même est devenue une marchandise dès que l’abondance économique s’est trouvée capable d’étendre sa production jusqu’au traitement d’une telle matière première (La Société du Spectacle, af. 59, p. 55).

E tuttavia secondo Debord dopo il Sessantotto nulla è davvero come prima poiché con esso la società ha perso la sua innocenza. L’ambiguità diventa enigma e persino mistero nel seguente giudizio:

Rien, depuis vingt ans, n’a été recouvert de tant de mensonges commandés que l’histoire de mai 1968. D’utiles leçons ont pourtant été tirées de quelques études démystifiées sur ces journées et leurs origines; mais c’est le secret de l’État (Commentaires, cap. VI, p. 28).

Tra i segreti dello Stato, il più palese è ormai la sua natura spettacolare, che in Italia si mostra in modo persino clamoroso. Le masse inebetite fanno della servitù la loro stessa vita, credendosi libere di scegliere quale spot politico-pubblicitario vedere. L’imbonitore che vende il nulla è diventato non più figura ma sostanza stessa del potere.

[I due testi sono stati tradotti e pubblicati in italiano con il titolo La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 2008]

La bellezza del somaro

di Sergio Castellitto
Italia, 2010
Sceneggiatura di Margaret Mazzantini
Con: Sergio Castellitto (Marcello), Laura Morante (Marina), Enzo Jannacci (Armando), Nina Torresi (Rosa), Barbara Bobulova (Lory), Marco Giallini (Duccio), Gianfelice Imparato (Valentino), Emanuela Grimalda (Raimonda), Lidia Vitale (Delfina), Renato Marchetti (Ettore Maria), Lola Ponce (Gladys)
Trailer del film

Marcello e Marina sono due professionisti romani simpatici, agiati, politicamente correttissimi, i quali hanno sempre permesso alla loro figlia Nina di fare ciò che voleva. Adolescente molto seria ma anche puntuta, Nina ha un nuovo fidanzato. I genitori le propongono di invitarlo a una festa in campagna, convinti che il ragazzo sia un amichetto negro. E invece no. Armando è un bianco settantenne. Vacillano, naturalmente, le aperture mentali delle quali i due genitori si facevano vanto. Al loro posto si scatenano litigi, ricordi negativi, tradimenti. Marcello comincia a farsi le canne con i compagni della figlia, Marina cerca di riscoprire la propria femminilità infranta. Tutto intorno ruota una fauna di improbabili amici di famiglia: una preside bulimica e iperpermissiva, un cardiologo più interessato a vagine che a cuori, un economista che studia di continuo l’inglese, la severissima colf rumena, due pazienti di Marina decisamente schizzati, una giornalista assai antipatica e, naturalmente, un somaro. Ma chi è davvero Armando? Un furbo, un ex diplomatico, un buono, un guru? Non si sa, ma comincia a essere chiamato “il Presidente” (con chiaro riferimento al magnifico Chance il giardiniere di Being There). Presidente di che cosa? «Di tutto».

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La cultura del piagnisteo

di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto

(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242

Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).

Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.

Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).

Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.

Einblicke

di Arnold Gehlen
(Gesamtausgabe, Band 7)
Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978
Pagine 589

Einblicke, impressioni e sguardi sul presente, elaborati da Gehlen in venticinque anni (dal 1950 al 1976) di interventi, conferenze, articoli, analisi, tutte caratterizzate da una estrema lucidità nella comprensione delle radici e delle conseguenze dei fatti sociali e culturali.

Il fenomeno che salta subito agli occhi è naturalmente la massificazione inarrestabile della vita interiore e delle strutture collettive. Le società appaiono a Gehlen sempre più divise fra una minoranza di persone colte e avvertite e una maggioranza dedita solo al lavoro e allo svago mediatico, in particolare televisivo. La cultura di massa sarebbe caratterizzata soprattutto da tre elementi: la carenza di creatività e di fantasia; l’assenza della dimensione tragica; il rifiuto di qualunque complessità poiché «die Massenkultur darf nicht austrengen. Sie darf keine Denkprobleme aufwerfen [la cultura di massa non deve costare fatica. Essa non deve sollevare alcuna riflessione problematica]» (p. 41).

Lo svago diventa uno degli strumenti di dominio sulle masse. Le quali però, lungi dall’essere soltanto le vittime di tali tendenze, diventano le protagoniste della più formidabile coercizione sociale mai verificatasi. Su ciò Gehlen si distacca nettamente dalle analisi dei Francofortesi. Egli sottopone infatti a critica due delle idee dominanti nella contemporaneità: la legge della maggioranza e l’eguaglianza naturale degli uomini. I pericolosi effetti della prima si osservano quando il principio di maggioranza viene indebitamente esteso dall’ambito suo proprio, che è quello politico, a settori come l’arte, la scienza, l’educazione. In questo caso avviene qualcosa di singolare: il ritorno alla pura forza, alla «Hegemonie des Kopfzahlstärksten [egemonia dei numericamente più forti]» (383). Al pericolo totalitario insito in tale primato naturale bisogna opporsi apertamente, ribadendo il principio culturale secondo cui «die quantitative Minorität wird zur qualitativen Majorität [la minoranza quantitativa diviene maggioranza qualitativa]» (107).

Anche il principio di eguaglianza sociale rivela sempre più il suo lato d’ombra, quando lo si fa valere in settori come quello etico, culturale, pedagogico. Che tutti siano capaci di tutto, che il sapere non comporti fatica, che l’aggressività sia soltanto un effetto sociale e non anche un necessario corredo biologico, sono solo alcune delle ingenuità antropologiche che dominano il Moderno sulla scorta degli equivoci di Rousseau. Dall’affermazione che «alle Menschen gleich sind [tutti gli uomini sono uguali]» è stato dedotto che essi «auch alle gut sind [siano anche tutti buoni]» e quindi «konnte man die gesellschaftlichen Ungleichheiten zugleich als widernatürlich wie als moralisch verdorben hinstellen [si poté far passare la diseguaglianza sociale per qualcosa di contronatura e moralmente vizioso]» (380).
L’idea di eguaglianza così intesa mostra tutta la forza di una vera e propria fede, tanto che risulta «unmöglich, sich als Atheist der egalitären sozialreligion zu bekennen [impossibile professarsi atei della religione sociale egualitaria]» (384). Qualunque accenno critico viene subito giudicato come una pericolosissima eresia sociale, come un sentimento disumano o come una bieca difesa di antichi privilegi. La religione egualitaria produce i tipici riti umanitaristici i quali, lungi dall’aver prodotto una convivenza più pacifica, hanno scatenato la violenza sociale in tutte le sue forme: privata, criminale, politica. Dalla Rivoluzione francese e dal Romanticismo in avanti sentimentalismo e ferocia hanno proceduto insieme a privare gli individui e i gruppi di qualunque misura etica e tolleranza pragmatica. Allorché un’idea così astratta come l’eguaglianza naturale degli uomini assume il potere nella storia, subito si apre un nodo insolubile di problemi poiché il livellamento e l’accordo -fra gruppi etnici, economici, religiosi- rimane su un livello quasi esclusivamente ideologico, con la tragica conseguenza di riattivare ogni volta i conflitti rimossi e repressi ma non risolti. Tornano quindi oggi più di prima le guerre religiose e tribali, dall’Africa all’Europa, col ritornante razzismo nei confronti delle culture non cristiane.

Ai frutti avvelenati e amari dell’utopia che sempre inevitabilmente ricade nel più antico degli atti umani, il dare la morte; al delirio di onnipotenza delle pedagogie comportamentistiche che nel trattare i discenti come macchine li rendono socialmente irresponsabili e pronti al dominio del principio gregario (un esempio clamoroso è il Sessantotto, i cui protagonisti furono vittima di una «geistige Abhänngigkeit von den Massenmedien [dipendenza mentale dai massmedia]», che produsse «einem wichtigtuerischen, geschraubten Jargon [un gergo esibizionistico e affettato]» (316), a tutto questo Gehlen oppone la forza e la coerenza di un’antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura il proprium dell’animale uomo. Un’antropologia che quindi non si illude di distruggere il giogo delle circostanze e non inganna nessuno sul comune destino di fatica e di morte dell’uomo. Essa coglie la complessità del fenomeno umano, privandosi delle comode scorciatoie dell’ideologia, del riduzionismo e delle fedi ma proprio per questo è in grado di fornire soluzioni e punti di vista – Einblicke– ancora attuali.

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