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Melandri su «Contro il Sessantotto», Libertaria 2015

Libertaria_2015_copertina

Franco Melandri analizza e discute Contro il Sessantotto in un vero e proprio saggio critico dal titolo Il Sessantotto? Un nuovo integralismo
«Libertaria 2015 – La pratica della libertà e i suoi limiti»
A cura di Luciano Lanza
Mimesis 2015
Pagine 227-233

«Il libro è una sorta di pamphlet di “filosofia applicata”, cioè muove dall’analisi di quanto animò quegli anni non soltanto per svolgere un ragionamento su quel periodo, ma per avanzare più specificamente una serie di tesi e argomentazioni di portata più generale, giungendo a delineare un’antropologia filosofica e una serie di tesi sull’utopia, la politica, la cultura»

Giappone / Violenza

Shinjuku Mad
di Koji Wakamatsu
Giappone, 1970

shinjuku-madGiappone. Anni Sessanta del Novecento. Un ragazzo bacia la sua compagna e proclama di voler andare verso il futuro. Giungono dei suoi coetanei, lo uccidono, stuprano la ragazza. Il padre, postino di provincia, arriva a Tokyo per scoprire chi gli ha ucciso il figlio e le ragioni della sua morte. Penetra così lentamente in un ambiente di giovani che si proclamano infelici, nichilisti e rivoluzionari. Il coraggio che mostra quando incontra gli assassini disvela tutta la loro pochezza culturale e politica. I proclami si sciolgono al fuoco della controversia.
Le strade di Tokyo, i riferimenti alla storia giapponese, la musica che accompagna tutto il film, l’ossessiva litania della canzone Hare Krishna che scandisce uno dei dialoghi centrali del film, la geometria della violenza iniziale, il cerchio -figurativo e metaforico- nel quale si inscrivono tutte le relazioni, il sonno che pervade i sedicenti rivoluzionari, la pochezza della rivolta giovanile, ben espressa dalla bandiera degli States che campeggia in una delle stanze abitate dai ragazzi. Tutto questo è forse ciò che un europeo può comprendere di un film ambientato sì nel presente storico ma il cui significato affonda nel mito che è il Giappone.

 

Un’autocritica del Novecento

The Desire of  Freedom. Arte in Europa dal 1945
Palazzo Reale  – Milano
A cura di Monika Flacke, Henry Meyric Hughes e Ulrike Schmiegelt
Sino al 2 giugno 2013

Un’autocritica artistica del Novecento. Questo è la densa e coinvolgente mostra che Palazzo Reale dedica alla questione della libertà -al suo desiderio– nel XX secolo e oltre.
Si comincia con il sogno/sonno della Ragione che nella Rivoluzione francese instaurò un regime di perfezione inevitabilmente votato alla morte, poiché la perfezione non è di questa specie. Un Marat salutato come fosse la Madonna e un Adam Smith privo della testa mentre prende un libro dalla sua biblioteca rappresentano efficacemente la dialettica tra disincanto e idolatria che sta a fondamento del giacobinismo.
Si prosegue con sezioni e opere che esprimono: l’orrore dei regimi staliniani; gli effetti apocalittici delle bombe atomiche sganciate dagli USA sul Giappone; la superficialità del Sessantotto funzionale al trionfo del consumismo (in un dipinto di Erró i guerriglieri sudamericani hanno lo stesso tratto pubblicitario dell’interno borghese che stanno assediando); la violenza costante e spesso ben camuffata dei regimi cosiddetti democratici -le torture inglesi sui corpi degli irlandesi, l’esercito francese che il 17 ottobre 1961 sparò a Parigi sulla folla che protestava contro la guerra d’Algeria uccidendo 300 persone, i bombardieri che fanno del Vietnam un deserto (e che Wolf Vostell invita invece a bombardare di rossetti, garantendo in questo modo la vittoria del consumismo statunitense)-; la Russia e gli altri Paesi dell’Impero sovietico diventati dopo il crollo dell’URSS delle lande desolate e insicure dove scorrazzano uomini trasformati in cani da caccia e donne che mangiano insieme a delle lupe.
I titoli delle 12 sezioni sono assai espressivi: Tribunale della Ragione; La rivoluzione siamo noi; Viaggio nel paese delle meraviglie; Terrore e tenebre; Realismo della politica; Libertà sotto assedio; 99 Cent; Cent’anni; Mondi di vita; L’altro Luogo; Esperienza di sé e del limite; Il mondo nella testa.
Il risultato è una meditazione drammatica, ironica e dolente su quanto sia difficile essere liberi ma come senza questo desiderio non ci sia davvero vita.

 

Filologia del Sessantotto

Après mai
(Titolo italiano: Qualcosa nell’aria)
di Olivier Assayas
Con: Clement Metayer (Gilles), Lola Creton (Christine), Felix Armand (Alaine), Carole Combes (Laure), India Menuez (Leslie),
Francia, 2012
Trailer del film

Non proprio il Sessantotto, ma ciò che ne è scaturito. Il titolo (quello originale, non l’insulsa versione italiana) è infatti del tutto adeguato al contenuto. 1971, Gilles è uno studente liceale. Militanza, assemblee studentesche, scontri con la polizia e con la destra, autonomia dalla famiglia, stampa clandestina, rapporti affettivi liberi, suggestioni orientali, musica ribelle. Ma anche la bella casa di famiglia, il denaro dei genitori e soprattutto una grande inclinazione per la pittura, l’unica sua vera passione. Gilles infatti attraversa i suoi anni, compie le sue azioni, viaggia per la Francia e per l’Italia in modo quasi anaffettivo, senza mai arrabbiarsi, piangere, senza mai ridere né sorridere. In maniera non troppo dissimile si comportano anche i suoi amici, le sue ragazze e l’intero mondo nel quale è immerso. Una cortina narcisistica e ideologica sembra separarli da quella realtà che pure dicono di voler trasformare.
Il valore e il significato di questo film consistono nel non nutrire né mostrare pregiudizi positivi o negativi e nel non formulare giudizi. È una intelligente e rigorosa fenomenologia del Sessantotto e di ciò che è venuto appunto après, dopo il Maggio francese. Una descrizione di caratteri, azioni, ambienti, libri, oggetti, strade, manifesti, contesti, abiti, capigliature e soprattutto sguardi, occhi, domande, inquietudini, incertezze. Un’autentica, accuratissima, meticolosa filologia della rivolta giovanile, del suo slancio, dei suoi limiti, del suo senso.
Si comincia con il professore che in classe legge un testo di Pascal – «Entre nous, et l’enfer ou le ciel, il n’y a que la vie entre deux, qui est la chose du monde la plus fragile» (Tra noi e l’inferno o il cielo, c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo; Pensées, 349 [Ed. Chevalier], 213 [Ed. Brunschvicg])-, evidente riferimento alla breve durata della giovinezza e delle sue passioni. Si chiude con le parole più sincere di Gilles: «Abito nella mia immaginazione, e quando la realtà bussa alla porta io non le apro». L’immaginazione al potere.

12 dicembre 1969

Bombe e segreti
piazza fontana: una strage senza colpevoli
con un’intervista a guido salvini
di Luciano Lanza
elèuthera, Milano 2009
Pagine 180

In realtà di segreti ne rimangono pochi. Su quella bomba a Milano, su ciò che la precedette e su quanto ne seguì, quasi tutto è stato chiarito. In parte nelle aule di tribunale ma soprattutto nella conoscenza storica. Questa è una delle tesi di fondo del libro di Luciano Lanza, «libro di parte, ma non partigiano» che cerca di «raggiungere il massimo di obiettività possibile» (pp. 8-9). E ci riesce. Nelle sue pagine c’è tutto il rigore del giornalismo che controlla ogni dato e verifica tutte le fonti. E c’è soprattutto lo sguardo di lunga durata dello storico contemporaneista, capace di inserire ciascuno dei particolari in un quadro razionale e plausibile.
12 dicembre 1969 – 3 maggio 2005. Più di trentacinque anni sono trascorsi dalla strage alla sentenza definitiva con la quale la Cassazione ha archiviato quel crimine. Un crimine nelle cui indagini il depistaggio è stato immediato, pianificato e sistematico: «I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anarchici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengono dall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario Luigi Calabresi a Milano, come il suo collega della squadra politica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massima solerzia» (94). L’obiettivo del progetto criminale maturato tra il Ministero dell’Interno, gli ambienti più oltranzisti della Nato e le organizzazioni neonaziste italiane era infatti tanto semplice quanto lucido: «meglio i morti che il cambiamento» (7). Meglio dare inizio a un vortice di violenza che paralizzi il dinamismo della vita sociale in una cupa atmosfera di timore e terrore, in una spirale che induca a rispondere alla violenza dello Stato e dei suoi complici neonazisti con la violenza della lotta armata; un crescendo che ha cristallizzato la situazione politico-istituzionale, «una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana» (7). Questo era l’obiettivo -raggiunto- di un affare di Stato progettato e messo in opera da «personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere» (134).
Chi sono tali personaggi? Per comprendere, al di là dei nomi e cognomi, si può partire da una delle rare ammissioni di Freda: «La strage l’ha organizzata un prefetto» (164), vale a dire una carica di governo, del Ministero degli interni. C’è infatti «una ragnatela di complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che traccia alcune delle pagine più velenose della storia italiana» (81). C’è il provvidenziale tassista Rolandi il quale, dopo qualche incertezza e in cambio dei 50 milioni della taglia -cifra certamente assai consistente all’epoca-, fu indotto a riconoscere Valpreda nell’assurdo cliente che prese il taxi per coprire 135 metri di distanza, un itinerario che nessun milanese prima e dopo il 12 dicembre del 1969 ha mai percorso con un’auto pubblica. Ci sono stati i capetti sessantottini del Movimento studentesco che, dopo il discorso dell’autore di questo libro in un’assemblea alla Statale di Milano, «intervengono per minimizzare una situazione oggettivamente drammatica» e però «qualche tempo dopo rivendicheranno di essere stati i primi ad accorgersi del “pericolo fascista”» (46). C’è stato Luigi Calabresi, non soltanto con il volo di un indagato dal suo ufficio in questura ma anche con «le minacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi di non poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, lo aveva preso di mira» (109). Ci sono state «le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro» (131). C’è stato il ruolo del PCI, che molto sapeva e molto ha taciuto, che «in pratica, ha commercializzato il suo silenzio» (15) in vista di future e miopi speranze di governo. C’è stata la magistratura che -nel momento in cui, dal 1989 al 1997, sembravano aprirsi concrete prospettive grazie alle indagini del giudice istruttore Guido Salvini– si è divisa al proprio interno, ha ostacolato il collega, ha visto con fastidio e come un peso ciò che definiva «archeologia giudiziaria» (149), negando definitivamente giustizia alle vittime e ai loro familiari. Ci sono state le sentenze dell’ineffabile Corrado Carnevale, «il “re del cavillo” che manda liberi mafiosi, terroristi e bancarottieri» (126). C’è stato il determinato e abilissimo Delfo Zorzi, «cioè l’uomo che confesserà almeno in due occasioni di aver partecipato all’attentato di Milano del 12 dicembre» (84) ma che le sentenze d’appello e di Cassazione manderanno assolto.
E ci sono stati soprattutto Giovanni Ventura, Franco Giorgio Freda e Federico Umberto D’Amato. Questi sono i nomi e i cognomi determinanti. Freda e Ventura sono stati definitivamente condannati per diciassette attentati -anch’essi attribuiti all’inizio agli anarchici- compiuti tra l’aprile e l’agosto del 1969, un’attività degna di un esercito. Freda e Ventura tuttavia commisero tali e tante imprudenze nella preparazione dell’attentato da essere subito individuati tra i possibili responsabili e però sono andati assolti per la sistematica opera di copertura e protezione dei servizi segreti. Ma persino la sentenza finale della Cassazione riconosce la loro responsabilità, pur dichiarando la non procedibilità nei loro confronti in quanto definitivamente assolti da una precedente corte d’Assise. In ogni caso -dichiara Guido Salvini- «la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo» (140). Ventura è morto a Buenos Aires nel 2010. Freda è un raffinato editore di testi neonazisti ma non solo, anche di bellissimi libri pagani e di varia (dis)umanità. Scorrendo il catalogo delle Edizioni Ar e visitando il sito www.edizionidiar.it si ha l’impressione di una persona che crede d’essere davvero il “superuomo” nietzscheano (tradotto così da D’Annunzio e non l’ “oltreuomo” come sarebbe più corretto volgere l’originario Übermensch). Nella pagina biografica del sito vi si legge, ad esempio, che «vincere in questo mondo non gli preme, non gli importa nulla del successo mondano, ma se vincesse lui vorrebbe fare fuori “anche il cane di casa” dei nemici. Tranquilli, non c’è quel rischio. In una recente intervista (delle pochissimissime che concede), alla domanda: “Come pensa debba muoversi l’uomo ‘in ordine’?”, ha risposto con decisione: “Non deve muoversi. Deve stare fermo, raccolto in sé, concentrato in sé. Naturalmente, nel proprio miglior sé”». Dispiace che tanta elegante scrittura e simile sentimento eroico della vita si siano incarnate anche nel sostegno violento alla Nato, ai servi di uno Stato ritenuto da Freda decadente e cialtrone, alle volontà degli Stati Uniti d’America e del loro cuore sionista. Il puro, troppo puro, Franco Giorgio Freda non se n’è accorto o non se ne dà pensiero. Ma intanto di quelle potenze è stato attivo complice.
Potenze il cui corpo e volto sono quelli di Federico Umberto D’Amato, personaggio quasi ignoto ma che «è stato uno degli uomini più potenti d’Italia» (116). Responsabile in più alto grado dell’Ufficio affari riservati del Ministero degli Interni, tessera 1643 della loggia massonica P2, curatore per anni della rubrica gastronomica dell’Espresso, morto nel 1996, D’Amato ha raccolto, posseduto e usato centocinquantamila fascicoli con i quali è verosimile abbia controllato e ricattato soggetti di tutti i tipi e tendenze. Prima e dopo il 12 dicembre fu attivissimo nell’organizzare, provocare, depistare, coprire.

Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con molti altri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’attività dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, è teleguidato da D’Amato. Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italia nell’ufficio sicurezza del Patto atlantico. […] D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attività di Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura. Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, in ultima istanza, della strage di piazza Fontana? […] Da come l’ufficio affari riservati si muove per proteggere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta affermativa risulta convincente. (115-116)

A quest’uomo e al potere -esso sì- espressione di apparati «cialtroni, di carogne, di osti, di legulei, di traditori…» (come si esprime Freda in un suo libro) si contrappongono la pulizia e la forza politica di Giuseppe Pinelli, il quale aveva «buttato fuori» Valpreda dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a causa dell’ingenuità ideologica e del pericolo politico rappresentato dalla «prosa allucinante» di alcuni suoi articoli (95). In una lettera spedita proprio il 12 dicembre a Paolo Faccioli, Pinelli aveva scritto che «l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: esso è ragionamento e responsabilità» (27).
Luciano Lanza inizia la sua ricostruzione di eventi, idee, situazioni, con l’affermare che non si tratta di una pagina oscura ma di un capitolo chiaro e preciso della storia del crimine politico in Italia. Una chiarezza che non è potuta pervenire alla sua dimensione giuridica e formale a causa della volontà e della capacità che «ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia» (8) hanno avuto nel nascondere pervicacemente l’evidenza dello Stato criminale. Tali forze hanno costantemente mischiato «il falso al vero e al verosimile» (155). Debord afferma che «dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (“nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1991 [I ed. Buchet-Chastel,1967], prop. 9, pag. 19). Questo mondo rovesciato è quello di Piazza Fontana, i suoi cadaveri bocconi sul pavimento della banca ne sono la più plastica e terribile delle figure.

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