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Il grande mago

Teatro Biondo – Palermo
La grande magia
di Eduardo De Filippo 

Con: Natalino Balasso (Calogero di Spelta), Michele Di Mauro (Otto Marvuglia), Veronica D’Elia (Amelia Recchia), Gennaro Di Biase (Mariano d’Albino e brigadiere), Christian di Domenico (Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta), Maria Laila Fernandez (Signora Marino e Rosa Di Spelta), Alessio Piazza (Gervasio e Oreste Intrugli), Manuel Severino (cameriere dell’albergo e Gennaro Fucecchia), Sabrina Scuccimarra (moglie di Otto Marvuglia), Alice Spisa (Marta Di Spelta), Anna Rita Vitolo (Signora Zampa e Matilde, madre di Calogero)
Scene di Roberto Crea
Regia di Gabriele Russo
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Sino al 15 dicembre 2024

I sentimenti umani, gli inquieti e tristi sentimenti umani. Tra di essi, uno dei più potenti e distruttivi è la gelosia. Marcel Proust più di ogni altro ha mostrato come e quanto la gelosia non sia soltanto potente, non sia soltanto distruttiva ma sia anche necessaria. Necessaria quando un altro umano (amante, marito, moglie, figlio, amico e così via) occupa per intero lo spazio interiore di qualcuno, quando vale a dire si è innamorati.
È tale necessità a dare a Calogero di Spelta il potere distruttivo di far sparire la sua bella moglie. Certo, non è lui direttamente a farlo ma è un illusionista miserabile eppure abilissimo, Otto Marvuglia, il quale viene pagato dall’amante della moglie per distrarre per un quarto d’ora Calogero. E però questo breve tempo diventa un abbandono. I due amanti fuggono da Napoli a Venezia e al mago non resta che far credere al marito che si trovano tutti dentro un grande gioco, una grande illusione, nella quale la moglie sparita è ora dentro una cassettina. Se Calogero aprendola avrà fede, la signora ricomparirà, in caso contrario sparirà per sempre. L’uomo non apre la cassetta, la porta sempre con sé nel trascorrere degli anni, nell’invecchiare, nella disperante speranza – che diventa ambigua certezza – di trovarsi dentro un gioco il quale tra pochi momenti avrà fine per restituire lui e la moglie al tranquillo cortile dell’albergo dove Otto Marvuglia ha iniziato la sua magia.
Pirandello, indubbiamente. Ma molto oltre Pirandello, verso la dimensione che fa dire a Marvuglia che lui è soltanto un piccolo mago, che sopra di lui c’è un mago più grande e poi ancora un altro, «fino alla perfezione». «Il mondo è un’illusione» afferma il trattato gnostico Sulla resurrezione (NHC I,4, 48) a organizzare la quale è il grande mago che assume vari nomi, tutti malvagi, tutti immersi nel non sapere, tutti fatti di tristezza. La tristezza profonda di una commedia/dramma che il regista Gabriele Russo riesce a rendere plausibile e leggera ma mai superficiale, mai ovvia.
La grande magia è infatti un testo che va oltre, molto oltre, la gelosia e altri sentimenti umani, dai quali pure sono partito. Le scene colorate, quotidiane e insieme esotiche, di Roberto Crea suggeriscono che questa magia è la nostra vita di tutti i giorni, intrisa di certezze e di illusioni, di speranze e di abbandoni, di cassette dentro le quali racchiudiamo i nostri slanci.

«Cu picca parrà…»

Confidenza
di Daniele Luchetti
Italia, 2024
Con: Elio Germano (Pietro Vella), Federica Rosellini (Teresa Quadraro), Vittoria Puccini (Nadia Labaro), Pilar Fogliani (Emma Vella), Isabella Ferrari (Tilde)
Trailer del film

«Cu picca parrà, ma’ si pintì», chi ha parlato poco non ha avuto mai da pentirsene, recita un proverbio siciliano. Questo vale sempre. E vale soprattutto nei rapporti intimi. Più infatti essi sono tali meno la fiducia dell’altro deve essere intaccata. E per non rendere esitante tale fiducia, o addirittura cancellarla, il silenzio è una virtù principe. È questa un’affermazione di buon senso che, certo, contrasta con l’esaltazione della ‘sincerità’ che è uno dei caratteri del miserabile sentimentalismo contemporaneo.
Teresa sembra ignorare questa verità, tanto da proporre al suo ex professore – che l’ha stimolata a proseguire gli studi e che ora è il suo compagno – di confidarsi un segreto che nessuno conosce e a nessuno direbbero. Anche Pietro, il professore, sembra ignorare tale verità e cade in questa trappola confidando a Teresa qualcosa che spinge la ragazza a lasciarlo, a continuare di fatto ad amarlo ma a non stimarlo più. Sembra infatti si tratti di un segreto che confligge in modo evidente e profondo con la figura che Pietro si è costruito di insegnante aperto, empatico, teorizzatore e incarnazione di ciò che ha chiamato «pedagogia dell’affetto», formula e metodo con i quali aiuta davvero i suoi studenti e ottiene un certo successo ministeriale e mediatico.
Nel frattempo Teresa è diventata una studiosa di matematica conosciuta in tutto il mondo, incardinata al MIT di Boston. Dopo molti anni Emma, figlia di Pietro e giornalista, cerca di ottenere per il padre un riconoscimento da parte della Presidenza della Repubblica e per questo ha bisogno che un ex alunno famoso sia disposto a tenere una laudatio del professore. Emma ha la malaugurata idea di rivolgersi alla più celebre di questi ex alunni, a Teresa, la quale accetta.
In che cosa mai consisterà questo segreto la cui confidenza perseguita Pietro per tutta la vita, causandogli allucinazioni, angosce, impulsi suicidi, menzogne? Si pensa subito a qualche stupro attuato in nome della «pedagogia dell’affetto» ma sarebbe troppo banale. O forse non possiede neppure la laurea? Troppo burocratico. Ha ucciso i genitori (è infatti orfano di entrambi)? Troppo freudiano. Rubava sistematicamente le merendine ai compagni? Troppo realistico. Fatto sta che Teresa, per il resto del tutto disinibita e franca, dopo la comunicazione di questo segreto indicibile lascia appunto di colpo Pietro pur non smettendo di perseguitarlo, direttamente o indirettamente, con un ricatto perenne, anzi diventando il ricatto stesso. Un personaggio malato e amorale che però appena riceve la confidenza del suo ex professore sembra colpita da un attacco di moralite acuta. Per quanto riguarda Pietro, è un poveretto animato da buone intenzioni.
Un film inquietante soprattutto per il volto dell’attrice protagonista, non bello e capace di volgersi con immediatezza dal sorriso alla minaccia, ma un film anche furbo perché costruito sul nulla, su qualcosa che non viene mai esplicitato, su ciò che non viene detto, su ciò che non è mai accaduto. L’unico segnale sono dei limoni.

Hegel, l ‘Enciclopedia

Georg W.F. Hegel
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
(Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1817-1830)
Traduzione, prefazione e note di Benedetto Croce
Prefazioni di Hegel tradotte da Angelica Nuzzo
Introduzione di Claudio Cesa
Mondadori, 2008
Pagine CVII-651

[Data l’ampiezza un poco inconsueta del testo che segue, ne metto a disposizione una versione in pdf]

Al di là dell’astrazione illuministica e intellettualistica che vorrebbe imporre alla realtà i pensamenti e i desideri degli umani.
Al di là del moralismo «che tiene i sogni delle sue astrazioni  per alcunché di verace, ed è tanto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come deve essere ma non è» (§ 6, pp. 10-11).
Al di là del sentimentalismo che «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (§ 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico – i Social Network ad esempio – che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’), psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: 

Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua oggettività isolata, nella sua particolarità (§ 447, p. 439). 

Al di là della presunzione che si lega alla parola filosofia, che molti pensano di poter praticare soltanto perché sono dotati di un encefalo e vivono le loro esperienze; che vuol dire presunzione di fare filosofia senza averla mai studiata: 

A questa scienza tocca spesso lo spregio che anche coloro che non si sono affaticati in essa, s’immaginano e dicono di  comprendere naturalmente di che cosa tratti, e d’esser capaci, col solo fondamento di un’ordinaria coltura e in particolare dei sentimenti religiosi, di filosofare e giudicar di filosofia. Si ammette che le altre scienze occorra averle studiate per conoscerle, e che solo in forza di siffatta conoscenza si sia facoltati ad avere un giudizio in proposito. Si ammette che, per fare una scarpa, bisogna avere appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio, quantunque ciascuno abbia la misura della scarpa nel proprio piede, e abbia le mani e con esse la naturale abilità per la predetta faccenda. Solo per filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica (§ 5, p. 8).

A queste piccole e grandi miserie, ai tanti equivoci, ai pregiudizi e all’incomprensione, alla superficialità e alla banalità, Hegel oppone la filosofia intesa come «la considerazione pensante degli oggetti» (§ 2, p. 4); la filosofia come storia del proprio inverarsi e divenire, la filosofia come storia della filosofia ma anche e soprattutto la filosofia come sistema poiché «un contenuto ha la sua giustificazione solo nel momento del tutto, e fuori di questo è un presupposto infondato o una certezza meramente soggettiva; molti scritti filosofici si restringono in tal modo ad esprimere soltanto pareri e opinioni» (§ 14, pp. 22-23).

Con questo approccio sistematico e oggettivo, Hegel coglie alcuni elementi fondamentali e fondanti dell’umano e del tempo. Dell’umano come vita animale coglie il «sentimento d’insicurezza, di angoscia, d’infelicità» (§ 368, p. 362), l’essere l’individuo un epifenomeno della specie che ne fa uno strumento della propria sopravvivenza, riproduzione, moltiplicazione, la sua destinazione mortale: «Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno un’altra più elevata, vanno così incontro alla morte» (§ 370, p. 363), morire che è la vera attività dell’individuo, il significato della parte, il destino del singolo, le cui passioni effimere non vanno giudicate, condannate, respinte ma ancora una volta comprese, poiché «la passione non è né buona né cattiva: questa forma esprime soltanto che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’impegno, del carattere, del godimento. Niente di grande è stato compiuto, né può esser compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della passione in quanto tale» (§ 474, p. 468).
La comprensione della natura parziale dei singoli, degli enti, degli eventi, permette a Hegel di dar conto del tempo come sinonimo della stessa realtà e come sinonimo del nulla nel quale la realtà costantemente si riversa. Non è nel tempo che tutto nasce, muore, accade ma «il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire; è l’astrarre che insieme è; è Kronos, produttore di tutto e divoratore dei suoi prodotti. – Il reale è diverso dal tempo, ma gli è altresì essenzialmente identico» (§ 258, p. 234) in quanto la struttura finita e diveniente delle cose rende ogni elemento finito – e ogni cosa è finita – del tutto «passeggiero e temporale», come si vede dal fatto che il finito si comporta di fronte alla negatività come «alla potenza che lo domina [zu seiner Macht]» (Ibidem). Il tempo è l’incontro tra la realtà e il nulla, dove l’una non sarebbe possibile senza l’altra. Un convergere che chiamiamo divenire:

Le dimensioni del tempo, il presente, il futuro e il passato, sono il divenire come tale dell’esteriorità, e la risoluzione di quel divenire nelle differenze dell’essere, da un lato, che è trapasso in nulla, e del nulla, dall’altro, ch’è trapasso in essere. Lo sparire immediato di queste differenze nella individualità è il presente, come ora [questo istante, als Jetzt], il quale ora, essendo, come l’individualità, insieme esclusivo e affatto continuo negli altri momenti, non è altro che questo trapasso del suo essere in niente e del niente nel suo essere (§ 259, 235).

Il presente è l’istante che non è pronto a dileguare nel nulla ma che consiste proprio in tale dileguare. L’insieme dei dileguanti nello spaziotempo è l’assoluto e da ciò segue «la seconda definizione dell’assoluto: che esso è il niente» (§ 87, p. 102), il quale è quindi l’altro nome dell’essere. La verità dell’essere e del niente nella loro unità è appunto il divenire, che «è la vera espressione del risultato di essere e niente come l’unità di essi: e non è soltanto l’unità dell’essere e del niente, ma è l’irrequietezza in sé» (§ 88, p. 107).

Questi contenuti ed esiti teoretici costituiscono il nucleo sempre fecondo della metafisica hegeliana, che però li coniuga a qualcosa che nella sua essenza è l’opposto di una comprensione oggettiva della finitudine della parte nella perfezione dell’intero. Tale opposto consiste nell’essere quella hegeliana anche una filosofia radicalmente religiosa, cristiana e dunque antropocentrica.
In una delle Prefazioni, quella alla seconda edizione del 1827, Hegel scrive con chiarezza che «la religione può sì sussistere senza la filosofia, ma la filosofia non può sussistere senza la religione, ché anzi la include in sé» (p. XCIII), una tesi che attraversa tutta l’Enzyclopädie sino alla fine, sino alla identificazione di eticità, religione e Stato (§ 552). Questa religione è una ben precisa religione, è il cristianesimo nella sua forma luterana. Una fede che si presenta come razionale, che crede nella teleologia della storia, nella storia come Provvidenza, «in fondo» alla quale sta «uno scopo finale in sé e per sé, (§ 549, p. 520) e che in questo fine accomuna «il principio della coscienza religiosa e della coscienza etica» in «una e medesima cosa nella coscienza protestante» (§ 552, p.  536).
Data la natura radicalmente antropocentrica del cristianesimo, una filosofia apologetica di tale religione non può che cadere in una forma di antropocentrismo assoluto, come quello che innerva questa pagina:

Allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.) o mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui, cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà  (§ 482 , pp. 473-474).

La sintesi e il culmine di un antropocentrismo che disprezza profondamente la materia, il cosmo, gli astri, la luce, è un’annotazione di filosofia della natura che si legge a conclusione del paragrafo 248: «E, anche quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa d’infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perché colui, che così erra, è pur sempre spirito» (p.  223).
Il paragrafo 392 ribadisce la patetica sensazione/convinzione di superiorità dell’umano sul cosmo, individuando nello spirito una separazione e differenza dalla materia cosmica, separazione che negli altri animali non si dà e che anche per questo li renderebbe inferiori: «La storia del genere umano non è in dipendenza dalle rivoluzioni nel sistema solare; né le vicende degli individui dalle posizioni dei pianeti. […] Con la libertà dello spirito che comprende sé stessa in modo più profondo, spariscono anche codeste poche e meschine disposizioni, che si fondano sul convivere dell’uomo con la natura. L’animale, invece, come la pianta, vi rimane sottoposto» (p. 384).
Una filosofia così radicalmente umanistica rappresenta un momento assai chiaro dello smarrimento dell’umano rispetto all’intero, della dimenticanza dell’ontologia, della incomprensione dell’essere, pensato come il più generico e vuoto dei concetti, «l’elemento immediato semplice e indeterminato» (§ 85, p. 101). Anche a proposito della prova ontologica dell’esistenza di Dio, Hegel ribadisce che «pel pensiero, nel riguardo del contenuto, non si può dar nulla di più povero che l’essere» (§ 51, p. 66).
E invece sta proprio nella centralità dell’essere rispetto agli enti, dell’intero rispetto alle sue parti, della materia cosmica rispetto alla materia cerebrale che elabora idee sul mondo, sta nella struttura del mondo la ragione che rende possibile la redenzione filosofica, il fatto che la filosofia sia «appunto quella dottrina, che libera l’uomo da un’infinita moltitudine di scopi e mire finite, e lo fa verso di esse indifferente, in modo che per lui è il medesimo che quelle cose sieno o non sieno» (§ 88, p. 104).
L’Enzyclopädie si chiude con una citazione aristotelica, dal libro λ della Metafisica (1072b). Se davvero il divino è ζωὴ ἀρίστη καὶ ἀΐδιος, vita perfetta ed eterna, è perché esso è diverso dall’umano e dai suoi limiti, che sono certamente anche limiti psicologici e somatici ma prima di tutto e fondamentalmente sono limiti ontologici.

Buoni sentimenti

L’imprevedibile viaggio di Harold Fry
(The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry)
di Hettie MacDonald
Gran Bretagna, 2023
Con: Jim Broadbent (Harold Fry), Penelope Wilton (Maureen), Earle Cave (David Fry), Linda Bassett (Queenie)
Trailer del film

Quanto bisogno hanno gli umani di sentirsi buoni. Di sentirsi e apparire sinceri, bravi, corretti, accoglienti, onesti, dolci. Un bisogno che ha naturalmente anche origini filogenetiche, in modo da temperare un poco l’innata e indispensabile aggressività che spesso tracima in esplicita violenza e altrettanto spesso in ferocia, azioni estreme e persino sadismo. Dato che la paura di un Grande Padre che punisca i bambini cattivi non è alla fine sufficiente, si inventano idee e soprattutto autorappresentazioni che ci rassicurino sulla nostra indole in fondo non tanto malvagia. Esistono raffinatissime e più o meno razionali versioni di questa immaginazione (l’antropologia di Rousseau, ad esempio) e poi esistono opere del tutto finte come questo Unlikely Pilgrimage of Harold Fry. Pilgrimage, pellegrinaggio, e non viaggio come recita il sempre banalizzante titolo italiano. Un pellegrinaggio unlikely, improbabile e non imprevedibile, che non è la stessa cosa. 

È infatti improbabile, davvero improbabile, che un pensionato abitudinario e poco camminatore di una qualsiasi cittadina inglese dopo aver ricevuto da una sua vecchia collega la notizia che lei si trova in un ospedale nella fase terminale di un tumore, decida di colpo di mettersi in cammino per andare a trovarla a 800 chilometri di distanza, un cammino a piedi (un pellegrinaggio appunto) nato dalla fede che sin quando Harold camminerà per raggiungerla, l’amica Queenie non morirà. Durante questa improbabile camminata, Harold si trova ovviamente in condizioni molto critiche ma viene accolto da una signora che gli offre dell’acqua dicendogli quanto sia bello avere dei figli; viene amorosamente curato da un medico (femmina) immigrato che per vivere fa le pulizie; incontra in un bar un maturo omosessuale che gli chiede consiglio su come agire con il proprio amante giovane e povero; viene fotografato e diventa la star dei buoni sentimenti televisivi, tanto che un giovane ex tossico e poi molte altre persone si uniscono a lui (in una versione New Age di Forrest Gump), scegliendolo come guru. Alla fine, però, Harold arriva da solo al capezzale dell’amica, le regala un cristallo dal quale vengono illuminati – in una scena tra le più finte e fasulle che abbia visto al cinema – la donna del bicchiere d’acqua, il medico immigrato, l’omosessuale.

Harold attraversa, in un itinerario poco picaresco e abbastanza selvaggio, buona parte dell’Inghilterra, sino ai confini con la Scozia. Attraversa quindi le terre e le città della nazione che ha inventato il colonialismo e la schiavitù moderne, che ha esportato l’imperialismo al di là dell’Atlantico con la sua gemmazione statunitense, che rimane serenamente fedele alla sua storia con la piena complicità nei massacri in corso in Ucraina e a Gaza. Ma non intendo soffermarmi su questo aspetto storico, che pure è significativo.
The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry è veramente emblematico di altro, è emblematico di una ideologia tanto autoritaria e distruttiva quanto più si presenta buona e brava. I personaggi sono centellinati con la bilancia del farmacista: QB per i neri, le donne islamiche con il velo, gli immigrati, i tossici, con una robusta dose di anziani che nelle loro vite hanno fallito ma che suscitano tanta compassione. Più di tutti ha fallito Harold. La vera ragione del suo pellegrinaggio, si scopre a poco a poco, non è la sopravvivenza della collega Queenie ma la vicenda del figlio David, che compare a intervalli regolari nel film con tutto il peso della sua memoria. Ragione che Harold dichiara in modo aperto quando, arrivato a destinazione, comincia a piangere e a ripetere «Voglio mio figlio, voglio mio figlio». È un atroce senso di colpa a guidare questo personaggio. La colpa sulla quale vivono e prosperano tutti i poteri immanenti e trascendenti, temperata da affermazioni quali: «La fede può ottenere qualunque cosa» (testuale, un personaggio dice proprio questo).

Sentimento di colpa che si coniuga al sentimento della morte, che nella nostra povera civiltà di depressi è rifiutata, taciuta oppure posta al centro delle decisioni politiche, perché la salute è tutto e non bisogna morire, non bisogna proprio; la morte è un disdicevole scandalo, un comportamento inammissibile. Degli umani che arrivano a questo, a combattere strenuamente contro la loro stessa natura di enti finiti, e il cui solo accenno alla morte li terrorizza, sono destinati a una vita ben triste, come appunto è quella di Harold.
Ma questo non è affatto l’unico modo di essere umani e di rimanere vivi. Tantomeno è un modo inevitabile e naturale. Ci sono state e ci sono intere e grandi culture, quelle orientali ad esempio, nelle quali e per le quali morire è naturale quanto vivere. Anche l’Europa una volta è stata così. Diogene Laerzio racconta (ma è soltanto uno dei tanti episodi e detti di questo tenore) che quando ad Anassagora annunciarono la morte dei figli la risposta fu «Sapevo di averli generati mortali» (I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Anassagora, DK A 1; p. 557). L’abisso che ci separa da un simile sentimento della vita, sostituito da patetici e fasulli ‘buoni sentimenti’, è indice e segno assai chiaro di un tramonto.

«Usignolo della vita nuova»

Prefazione a:
Sofò e Fefilìa. Poesie
di Maria Emanuela Randazzo
BookSprint Edizioni 2023, pp. 92
Pagine 7-8

«Non sembra comunque che l’autrice ponga in primo piano la versificazione in quanto tale ma il suo obiettivo è piuttosto rivelare ciò che sinora ha scoperto del mondo: il suo arcano, il dolore che lo pervade e anche la nascosta e tenace dimensione di riscatto che affonda in antiche sapienze religiose dell’Oriente e dell’Occidente».

Come tutti

Gustave Flaubert
Dizionario dei luoghi comuni – Album della marchesa – Catalogo delle idee chic
(Dictionnaire des idées reçues)
Trad. di J. Rodolfo Wilcock
Adelphi, 1988
Pagine 190

Lavorando a Bouvard et Pécuchet – romanzo, enciclopedia, immondezzaio – Flaubert raccolse una mole imponente di documenti, citazioni, appunti, note, da cui trasse il Dictionnaire des idées reçues. Al Dizionario questa traduzione Adelphi aggiunge altri due testi dello scrittore: un breve catalogo/riassunto delle idee chic e un terrificante Album che raccoglie numerose citazioni dolciastre e patetiche di alcuni anche ammirati scrittori francesi: da Michelet a George Sand, da Balzac a Sainte-Beuve, da Cousin ai fratelli Goncourt. Di Alfred Assolant è una delle citazioni più banali: «La bellezza era il minore dei suoi incanti; ella univa il canto dell’usignolo alla flessibilità del boa constrictor» (p. 124).
Il Dizionario di Flaubert aiuta a comprendere come e perché Emma Bovary  costituisca il suicidio del Romanticismo. L’eccesso del sentimento ci rende infatti sciocchi, incapaci di capire e di ragionare. Per Emma «pensare» – come recita la voce del Dizionario – è «increscioso. Le cose che ci costringono a farlo vengono di solito accantonate» (91).
Se Bouvard et Pécuchet costituisce il romanzo del sapere impossibile è anche perché i due scrivani sono vittime e insieme protagonisti attivi del più integrale conformismo, del luogo comune elevato a metodo, dell’omologazione al pensiero e all’etica dominanti, della rassicurazione che dà il parlare come parlano tutti, il condividere i valori sostenuti dalla maggioranza del corpo collettivo. Vale a dire di ciò che oggi trionfa  in televisione, sui giornali, nella quasi totalità delle pagine di Internet e nel moralismo totalitario che attraversa il corpo sociale.
Per contrasto e paradosso, la libertà che traspare dal Dizionario di Flaubert è invece persino lancinante. Negli sparsi frammenti vince la potenza dell’idiozia ma emerge anche la via d’uscita più immediata: la riflessione, la critica, la sobrietà, il silenzio, la distanza.
«Vedere la stupidità umana e non poter più tollerarla» (Bouvard e Pécuchet, Einaudi, p. 182) è l’impressione che a volte afferra osservando la vita, semplicemente la vita. Bisogna ammettere, con un uomo assai equilibrato e da Nietzsche sino all’ultimo venerato, che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (Jacob Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214).
Una volgarità interiore che è l’altro nome, il nome gemello, il vero nome, della stupidità.

Joséphine

Napoléon
di Ridley Scott
Sceneggiatura di David Scarpa
USA, Gran Bretagna 2023
Con: Vanessa Kirby (Giuseppina), Joaquin Phoenix (Napoleone), Paul Rhys (Talleyrand), Tahar Rahim (Barras), Rupert Everett (Duca di Wellington)
Trailer del film

Il film avrebbe dovuto intitolarsi Joséphine. Non parla infatti di Bonaparte ma di un uomo innamorato. E per questo non è certo necessario scomodare Napoleone. Insieme alla chimica, i sentimenti sono naturalmente la sostanza degli animali umani ma di persone come Bonaparte ci interessa altro, la loro azione politica, il loro significato metafisico, il peso che hanno avuto nel divenire degli eventi. Elementi, questi, che nel film appaiono, certo, ma sullo sfondo.
A Ridley Scott interessa la storia di un legame più forte dell’ambizione, della guerra e della morte. Un legame che viene narrato da quando i due si incontrarono dopo la liberazione di Joséphine dal carcere giacobino dove era stato giustiziato suo marito Alexandre de Beauharnais. Da qui l’incontro nella dimora di lei che alzando la gonna dice «se osservate qui sotto, troverete una sorpresa, vista la quale non potrete più farne a meno» e poi il matrimonio appassionato, fedifrago e sterile, cosa che determinò il successivo divorzio, sancito ufficialmente e solennemente in una cerimonia altrettanto pubblica come era stato il matrimonio. La scena del divorzio è tra le meglio riuscite per l’oscillare tra risentimento e desiderio ma le carte firmate dai due non più coniugi appaiono redatte…in inglese. Trascuratezza imperdonabile.
Il momento migliore del film è quello di una battaglia – la natura guerriera di Napoleone emerge anche al di là della volontà di chi ne parla -, la più trionfale battaglia di Bonaparte nella quale il 2 dicembre del 1805 surclassò le truppe austro-russe diventando padrone dell’Europa, escluse Gran Bretagna e Russia. Di Austerlitz il film mostra in particolare il momento nel quale le truppe sconfitte vengono inghiottite da un lago ghiacciato, nel disperato tentativo di sottrarsi alle acque e alla morte. Il rosso del sangue dei cavalli e dei soldati si mescola alla densità del ghiaccio e al pallore delle acque, in una leggerezza che sembra il destino. La scena mi ha ricordato i versi di un contemporaneo di Bonaparte: «si spandea lungo ne’ campi / Di falangi un tumulto e un suon di tube / E un incalzar di cavalli accorrenti / Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, /E pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 208-212).
Le Parche, dee della vita destinata a finire; Ἀνάγκη, il destino della necessità, costituiscono la chiave della vicenda di Napoleone, emblema e sintesi della storia moderna con il suo progetto di unificazione dell’Europa, la sua spregiudicatezza di «delinquente corso», il suo amore per la Francia e per se stesso.
Di tutto questo nel Napoléon di Scott emergono soltanto scampoli e frammenti, sostanziati invece dal bisogno di una donna, dalla sua spregiudicatezza grande quasi quanto quella del consorte, dallo sguardo sempre uguale di Joaquin Phoenix. Di Bonaparte rimane una specie di parodia, ben evidenziata in un commento di Denis Collin, il quale scrive giustamente che si tratta di «un film raté. Lamentablement raté. La vision de la France d’un bon réac anglais, une incompréhension radicale du phénomène Napoléon, des batailles sans queue ni tête et des scènes de sexe grotesques». Collin sottolinea la miriade di insensatezze storiche che intessono l’opera e soprattutto il fatto che il Napoleone di Scott e di Scarpa (che ha scritto la sceneggiatura) «n’est pas un Macbeth, mais un bouffon, sans intelligence» mentre «l’histoire napoléonienne est une tragédie» e Bonaparte costituisce la sintesi «de toutes les contradictions de son époque. Mais le barnum hollywoodien ne fait pas bon ménage avec la tragédie» (À propos du Napoléon de Ridley Scott, «La Sociale», 26.11.2023).
Anche questo film è forse un piccolo segno di un’Europa che non sa più pensare se stessa, che non si riconosce, che si dissolve nei sentimenti. Quando una civiltà sostituisce la conoscenza e la determinazione con il primato del sentimentalismo, è una civiltà al tramonto.

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