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Umidità sentimentale

La forma dell’acqua
(The Shape of Water)
di Guillermo Del Toro
USA, 2017
Con: Sally Hawkins (Elisa), Doug Jones (Amphibian Man), Michael Shannon (II) (Richard Strickland), Octavia Spencer (Zelda Fuller), Michael Stuhlbarg (Dr. Robert Hoffstetler), Richard Jenkins (Giles)
Trailer del film

Una coerente opera hollywoodiana, alla quale non manca alcun ingrediente, girata come i comodi film degli anni Cinquanta -epoca durante la quale la vicenda è ambientata-, colma di sentimentalismo. Destinata pertanto all’Oscar, che infatti è copiosamente arrivato. Come anche il Leone d’Oro di una Venezia insolitamente tenera.
L’archetipo è antico, la favola ripetuta. Una Cenerentola che riscatta la propria insignificanza sociale, una Bestia che rende evidente la mostruosità dei normali, l’amica della Cenerentola pronta a difenderla e a soccorrerla, i Nemici (sovietici) che sembrano diventare amici e poi tornano nemici, il finale aperto alla consolazione. Non mancano le musiche avvolgenti e tranquille di Glenn Miller e Benny Goodman. E inoltre -omaggio alla contemporaneità- la disabilità fisica della Cenerentola e il suo amico omosessuale.
Un film abile anche nelle citazioni e nei riferimenti alla storia del cinema, un poco noioso, prevedibile in ogni suo tornante. L’elemento più interessante è che il fumetto fantascientifico-politico degli anni Cinquanta, ai cui colori e ambienti il film evidentemente si ispira, prende il dinamismo dell’acqua, sostanza dalla quale proveniamo e che ci tiene in vita. Ma è un’acqua nella quale l’opera nuota con sottile disagio.

[Photo by Noah Silliman on Unsplash]

Das Kommunistische Manifest

Il giovane Karl Marx
(Le jeune Karl Marx)
di Raoul Peck
Francia-Germania-Belgio, 2017
Con: Auguste Diehl (Karl Marx), Stefan Konarske (Friedrich Engels), Vicky Krieps (Jenny von Westphalen), Hannah Steele (Mary Burns), Olivier Gourmet (Pierre Proudhon)
Trailer del film

La scena iniziale racconta di impiegate in un call center che si sentono male sul lavoro e il cui padrone dichiara di non obbligare nessuna di loro a rimanere. Quando la più libera denuncia le condizioni di sfruttamento viene licenziata in tronco. Una delle scene centrali descrive un industriale che giustifica i bassi salari e l’utilizzo di manodopera immigrata e precaria affermando che se non facesse così non potrebbe reggere la concorrenza, dovrebbe aumentare i prezzi dei suoi prodotti e l’azienda fallirebbe. Inoltre, «se non lo faccio io, lo farebbero altri».
Siamo negli anni Quaranta dell’Ottocento e naturalmente non si tratta di call center ma di industrie tessili, non di manodopera immigrata ma di lavoro minorile. E tuttavia la tipologia, le motivazioni, le modalità dello sfruttamento sono le stesse. E anche le leggi sono simili, specialmente da quando la riforma del diritto del lavoro  in Italia -il cosiddetto Jobs Act- e analoghe legislazioni in Europa hanno legalizzato il precariato, i salari infimi, il ricatto padronale e le tante altre forme con le quali il capitale vive e uccide.
Ne hanno discusso con lucidità Noam Chomsky e Yanis Varoufakis. Il primo afferma che «the predators in the so-called private sector are there [nelle Università e nei Centri di ricerca] to see what they can pick up from the taxpayer-funded research in the fundamental biological sciences, and that’s called free enterprise and a free-market system. So speak of hypocrisy, it’s pretty hard to go beyond that» e il secondo conclude che la ricchezza «is being created collectively and appropriated privately but right from the beginning» (Full transcript of the Yanis Varoufakis | Noam Chomsky NYPL discussion). Fin dal principio e tuttora.
Bisognerebbe pensare a tutto questo quando si osserva il crollo dei partiti socialdemocratici in Europa. Mentre i partiti di destra difendono i loro tradizionali referenti -industriali, imprenditori, finanzieri, alta borghesia-, i partiti che si autodefiniscono di sinistra, come il Partito Democratico et similia, hanno tradito interamente la loro base sociale, che in Italia si è rivolta a forze quali il Movimento 5 Stelle e la Lega. Altrove gli operai hanno fatto lo stesso. È ciò che giustamente osserva Giovanni Dall’Orto, quando scrive che «la non-gestione dei flussi migratori serve alla creazione di un “esercito industriale di riserva” che non avendo nessun diritto, a partire da quelli di cittadinanza, è costretto ad accettare lavori al puro livello di sussistenza o in alternativa a morire di fame, spingendo così il proletariato “nazionale” ad abbassare le proprie pretese troppo “choosy“. I marxisti italiani che sento invocare porti aperti per tutti, sono protetti da tale concorrenza lavorativa dalla cittadinanza e dal fatto che svolgono lavori (in genere pubblici e burocratico-amministrativi) in cui la madrelingua italiana e la cittadinanza è necessaria. Non è quindi per un caso se oggi gli operai votano Lega e la sinistra “fa il pieno” nei quartieri ricchi delle grandi città» (“Aiutiamoci a casa nostra”. Migranti, ipocrisie e contraddizioni in «Sinistrainrete. Archivio di documenti e articoli per la discussione politica nella sinistra», 23.6.2018). È così che si ragiona in politica e in sociologia, non mediante isterismi moralistici o appelli sentimentali. Chi opta per tali modalità semplicemente non capisce, e quindi perde.
Le jeune Karl Marx è un film storico, a tratti coinvolgente, a volte ingenuo e anche inevitabilmente un poco didascalico -comunque quasi sempre corretto- che racconta le vicende private e politiche del Marx ventenne, le difficoltà economiche, gli sforzi per sostentare la moglie Jenny e le due bambine, il carattere impetuoso e difficile, gli inizi del sodalizio con un altrettanto giovane Friedrich Engels, l’accordo e poi la rottura con gli anarchici -Proudhon e Bakunin-, l’abilità con la quale Marx ed Engels trasformarono la Lega dei giusti -permeata di ciò che oggi si definirebbe buonismo– nel Partito Comunista, alla cui base venne posta una rigorosa teoria delle forze, dei modi e dei rapporti di produzione, che nulla possiede -tuttora- di psicologico e molto, invece, di analitico e plausibile.
Perché «la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi. […] Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia […] ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. […] La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. […] Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e e al consumo di tutti i paesi [oggi il fenomeno di chiama Globalizzazione]
[…] Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente. […] Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie. […] La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia [anche a questo principio fa riferimento il Sovranismo].
[…] Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l’esistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari [nell’originale: Philanthropen, Humanitäre], miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanze e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori». E così via.
(Marx-Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54;  57-59; 61; 73; 74; 109-110).
Lessi queste pagine per la prima volta quando avevo 17 anni e non le ho dimenticate. Le ho rilette più volte insieme ai miei studenti quando insegnavo filosofia a scuola. Ho commesso l’errore di non leggerle anche insieme agli studenti universitari, immaginando -a torto- che le conoscessero. E invece in un Paese irrimediabilmente cattolico, e quindi ferocemente sentimentale, le lacrimevoli immagini di Internet, gli appelli a favore «di donne e bambini» pretendono di sostituire le analisi più oggettive dell’umano e delle società. A vantaggio, come sempre, della borghesia globalizzata e dei suoi interessi. È anche per questo che le tesi di Karl Marx sono ancora vive, poiché è ancora vivo l’inganno borghese-umanitario che Das Manifest der Kommunistischen Partei aveva disvelato. Nel 1848. 

Sentimentalismi

Mommy
di Xavier Dolan
Francia-Canada, 2014
Con: Anne Dorval (Diane -Die- Després), Antoine-Olivier Pilon (Steve Després), Suzanne Clément (Kyla)
Trailer del film

mommyChe cosa c’è di peggio di un film feroce? Un film feroce e sentimentale. Così è fatto il cerchio sempre ritornante che descrive la violenza di un figlio e il tentativo della sua smammanica madre di prenderlo con le cattive, con le buone, con le medie, con l’aiuto di una deliziosa e balbuziente professoressa vicina di casa e in anno sabbatico. Ma non c’è niente da fare: Steve non si sente mai amato abbastanza, è geloso, è desiderante, è violento ed è fuori di testa. Naturalmente nella vicenda si alternano attimi di profonda tenerezza, scene di sangue, altre condite di umorismo, tutto immerso nel costante turpiloquio della famigliola.
I tre eccellenti attori (magnifica Anne Dorval nel ruolo della madre), la splendida fotografia, l’indubbio talento narrativo, non rendono migliore un film davvero troppo furbo nel titillare il riso e il pianto. In fondo tutte le opere che contano parlano sempre della stessa cosa, compresa la vicenda ripetuta sino alla noia dell’amore e dei legami umani, ma il loro segreto consiste nel farlo senza sentimentalismo mentre qui ci troviamo in una melassa che per essere fatta anche di maleparole e di ‘disagio psichico’ non per questo risulta meno diabetica.
La furbizia del film sta anche nella sua trovata più originale: l’inquadratura stretta e alta in 4:3 che permette di vedere soltanto un personaggio alla volta, chiuso in un corpomente claustrofobico, e che di tanto in tanto si allarga all’intero schermo, nei momenti -è ovvio- di gioia e di riscatto. Una trovata che insieme alle ripetute dissolvenze e ai ralenti fa di Mommy un melodramma per un pubblico (critici compresi) che evidentemente vuole un sentimento sempre più fisico come il tossico desidera una droga sempre più forte. Ma dalla banalità del sentimentalismo non si esce mai.

Smielato

Piccole bugie tra amici
(Les petits mouchoirs)
di Guillaume Canet
Con: François Cluzet (Max), Marion Cottilard (Marie), Benoît Magimel (Vincent), Pascal Arbillot (Isabelle),  Gilles Lellouche (Eric), Jean Dujardin (Ludo), Valérie Bonneton (Veronique), Laurent Laffitte (Antoine)
Francia 2010
Trailer del film

 

Inizia con un ottimo piano sequenza che porta Ludo dai divertimenti di un locale notturno alle strade quasi deserte di Parigi,  da lui attraversate in moto all’alba prima di schiantarsi contro un camion. E qui il film finisce. Comincia infatti la storia degli amici di Ludo che si recano a trovarlo affranti in ospedale, decidono di andare lo stesso in vacanza tutti insieme nella casa sull’Atlantico messa a disposizione da uno di loro, Max. Qui si susseguono confidenze, gelosie, pianti, litigi, rimorsi, gite in barca, meditazioni sulla spiaggia. Tutto artefatto, stucchevole, politicamente corretto, banale e con tempi cinematograficamente inaccettabili, tanto sono dilatati. Una noia dolciastra che arriva al diabete nella interminabile scena conclusiva, dove tutti fingono di piangere.

 

 

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