- Tempo e significato
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Vol. 2 [2011], n. 1, pp. 56-65
Hans-Georg Gadamer, 102. Bertrand Russell, 98. Ernst Jünger, 103. Karl Popper, 92. Sono gli anni di vita di alcuni filosofi del Novecento. Una bella età, vero? È soltanto una piccola conferma empirica di quanto l’epidemiologia cognitiva va scoprendo con «risultati inequivocabili: più bassa è l’intelligenza di una persona, misurata secondo i test, e maggiore è il rischio che questa corre di avere una vita breve, di andare incontro a disturbi sia fisici che mentali in tarda età e di morire a causa di malattie cardiovascolari, suicidio o incidente» (I.J.Deary, A.Weiss, G.D.Batty, p. 28). Certo, si potrebbero fare altrettanti nomi di personaggi intelligentissimi morti piuttosto giovani. E dunque «forse non è essere intelligenti il fattore chiave per vivere a lungo; l’aspetto cruciale potrebbe essere agire e prendere decisioni da persona intelligente» (Id., 33), come -ad esempio- non fumare, evitare di dare troppa importanza a quanto ci succede, guardarsi dalle passioni distruttive.
Dell’intelligenza umana è parte assolutamente centrale la parola. Il linguaggio è davvero l’acquario nel quale noi, pesci parlanti, nuotiamo per l’intera esistenza. «Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi 1980, prop. 6.43, p. 80). Perché? Una ragione sta nel fatto che tutto ciò che si vive, compreso il dolore e la gioia, lo si vive in maniera linguistica, lo si pensa in termini che hanno un significato. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Ivi, prop. 5.6, p. 63) e dunque gli eventi assumono la loro valenza più profonda in relazione non soltanto a come accadono ma anche a come li penso e li dico. Perché «tutto si risolve in un cervello che cerca senso nelle cose, anche dove non esiste» (P. Garzia, recensione a La bella e la bestia: arte e neuroscienze, p. 105). Alla linguisticità del mondo questo numero di M&C dedica vari articoli, tutti di carattere empirico e che offrono dunque ampie conferme alla tesi di Wittgenstein, condivisa -in modi diversi- da Heidegger e da Gadamer: «Le persone di lingua madre diversa vivono davvero in mondi concettualmente diversi?». Sì, perché «la madrelingua influenza il nostro modo di pensare» e «quando impariamo una nuova lingua, di fatto ci impadroniamo di un modo nuovo di pensare» (K. Wilhelm, pp. 36, 39 e 40). È assai interessante il fatto che tutto questo sia legato anche alla percezione e rappresentazione spaziotemporale. Mentre infatti chi -come gli europei- scrive da sinistra a destra si raffigura lo scorrere temporale in modo orizzontale, «i cinesi che parlano la lingua mandarina raffigurano lo scorrere del tempo come un movimento verticale» e se si costringono europei e cinesi a modificare la direzione spaziale «la cosa stravolge anche la loro percezione del tempo» (Id., p. 40).
Si susseguono sempre più le evidenze sperimentali che ampliano l’intelligenza agli animali non umani. Al di là del caso mediatico-sportivo del polpo Paul che “indovinò” tutti i pronostici dei mondiali di calcio sudafricani, i cefalopodi mostrano di possedere «capacità di apprendimento, orientamento, comunicazione», che sinora sono stati attribuiti soltanto ai vertebrati (N. Nosengo, p. 60) e persino «le api possono sperimentare qualcosa di simile all’umore» (J. Castro, p. 102).
È o no parte dell’intelligenza il «“pregiudizio illuminista”, cioè l’idea che l’uomo sia un essere razionale e quindi nella sua forma più colta ed evoluta, tenda a rigettare il pensiero metafisico» (D. Ovadia, p. 55)? In realtà si tratta di una tesi metafisica tipica di Comte, giustificata dall’arroganza delle chiese e di molti gruppi religiosi i quali «affermano di voler governare tutti, quindi anche i non credenti, secondo principi ispirati da qualche credo» (Id., p. 56), mentre dove le religioni sanno stare al loro posto -come nei Paesi del Nord Europa- l’ateismo dichiarato e militante è assai meno diffuso. Dichiarato e militante è invece il fondamentalismo cristiano in nazioni come l’Italia -dove assume un aspetto istituzionale tramite la chiesa papista- e negli Stati Uniti, Paese nel quale «recentemente la Corte Costituzionale ha persino ribadito l’obbligo di prestare giuramento su un testo sacro di qualsiasi natura quando si partecipa a un processo. Persino sulle nostre banconote c’è scritto “crediamo in Dio”» (Ibidem).
Tra i gruppi cristiani più singolari che operano negli USA ci sono gli anabattisti Amish, ai quali l’antropologo Andrea Borella ha dedicato una ricerca sin troppo simpatetica. Intervistato da P.E. Cicerone, Borella cerca infatti di spiegare e difendere le scelte di queste comunità, quali l’indifferenza verso qualsiasi conoscenza scientifica -che nelle loro scuole non viene studiata in alcuna forma-, «il rifiuto degli strumenti musicali, mentre il canto è ammesso […] quella che non è ammessa è l’arte fine a se stessa» (p. 79) e -elemento più noto- la volontà di non utilizzare quasi alcuno strumento tecnologico inventato dopo il Seicento.
Un interessante articolo è, infine, dedicato al disturbo ossessivo-compulsivo, che «sembra nascere da un impulso a rivisitare gli stessi pensieri e compiere certe azioni, ancora e ancora» (M. Wenner Moyer, p. 67); l’impulso distruttivo ad “annullare il tempo”, come ha mostrato assai bene Elvio Fachinelli nel suo La freccia ferma.
UNIVERSITÀ DI CATANIA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Programmi dell’a.a. 2011-2012
Filosofia della mente – Sociologia della cultura
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FILOSOFIA DELLA MENTE
(M-FIL/01 – 7/9 CFU)
Corso di laurea triennale in Filosofia
A
Introduzione alla filosofia della mente
(4 CFU)
Testi
A.G. Biuso, Dispositivi semantici. Introduzione fenomenologica alla filosofia della mente
Villaggio Maori 2008
S. Gallagher – D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive
Raffaello Cortina Editore 2009
B
La freccia ferma. Fenomenologia e psicopatologia del tempo
(5 CFU)
Testi
M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo 1999, Introduzione e Parte seconda
E. Fachinelli
La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi 1992
A.G. Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, capitoli II e III
A.G. Biuso, Tempo e significato, in «Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia» (Vol. 2 [2011], n. 1, pp. 56-65)
N.B. 7 CFU: moduli A-B (= 3 CFU, escluso il volume A.G. Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio).
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SOCIOLOGIA DELLA CULTURA
(SPS/08 – 6 CFU)
Corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche
(Corso integrato di 6 CFU complessivi con la Prof. Rosalba Galvagno)
[…]
D
Massa e potere
(3 CFU)
Testi
R. De Biasi, Che cos’è la sociologia della cultura, Carocci 2008
E. Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981
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SOCIOLOGIA DELLA CULTURA
(SPS/07 – 6 CFU)
Corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione
A
Introduzione alla Sociologia della cultura
(1 CFU)
Testi
R. De Biasi, Che cos’è la sociologia della cultura, Carocci 2008
B
Individuo e massa
(5 CFU)
Testi
J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE 2001
A. Millefiorini, Individualismo e società di massa, Carocci 2005
A.G. Biuso, Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia, Villaggio Maori 2012
di Umberto Eco
Enciclopedia Filosofica ISEDI, 2
Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1973
Pagine 174
Un segno è qualcosa -qualunque cosa- che sta al posto di qualcos’altro. Peirce esprime con chiarezza questa sua natura: «something which stands to somebody for something in some respect or capacity» (Collected Papers, [1931], 2.228, qui a pag 27). Tutto è quindi segno, o tutto può diventarlo se viene interpretato da qualcuno come un indicatore di qualcosa.
Morris ha quindi ragione a ritenere che «la semiotica non ha a che fare con lo studio di un tipo di oggetti particolari, ma con gli oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipano al processo di semiosi» (Lineamenti di una teoria dei segni [1938], Einaudi 1959, p. 20; qui 34). La pervasività del segno nella vita sociale e nei rapporti interpersonali è data dal fatto che l’uomo stesso è «un segno. Vale a dire uomo e segno esterno sono la stessa cosa, come le parole homo e man sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso perché l’uomo è il pensiero» (Peirce, cit., 5.314; qui 138).
Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Platone indaga le relazioni tra il referente (iperuranio), l’imitazione (gli enti), i concetti che riassumono gli enti e le parole che li esprimono. Per i neoplatonici, poi, è l’intero cosmo a costituirsi in forma di segno, in teofania. Traducendo come sempre la metafisica del maestro in discorso tecnico su ciò che appare, Aristotele distingue tra onoma, il segno/nome che significa qualcosa; rema, un segno al quale si aggiunge un fondamentale riferimento temporale; logos, segno complesso e discorso significativo. Quindi /Mario/ è onoma; /Mario è arrivato e sta lavorando/ è rema; la descrizione del viaggio di Mario è logos. Gli Stoici individuano a loro volta il semainon come segno fisico, linguistico o di altra natura; il semainomenon, la parte immateriale del segno, il suo significato concettuale; il pragma e cioè l’oggetto/referente al quale il semainon si riferisce, che può essere un ente fisico ma anche un evento o un processo. Lo schema è dunque: significante-significato-referente e spiega la compresenza nel segno di una forma-significante e di un contenuto-significato, inseparabili come due facce della stessa moneta. I filosofi antichi e quelli medioevali sanno anche che tra le parole e le cose si pone il concetto. Per Ockham la parola rimanda non alle cose direttamente ma ai loro concetti-significati, i quali a loro volta diventano dei significanti il cui significato-referente sono soltanto le cose singole.
Con Locke la semiotica inizia ad acquistare un proprio statuto autonomo, oltre che il nome che la indica. La svolta fondamentale è costituita naturalmente da Peirce, dalla sua stupefacente e articolata costruzione estremamente tecnica e insieme pansemiotica, all’incrocio tra pragmatismo e platonismo. Le Ricerche logiche di Husserl -in particolare la prima, la quarta e la sesta- sostengono una posizione radicale, che intende «lo stesso significato percettivo come un risultato di processi semiotici» (111), le percezioni come dei costrutti, la conoscenza come una sintesi attiva che trasforma il dato (Gegenstand) in oggetto (Objekt). «Questa nozione di una costruzione percettiva del mondo, in sé aperto a vari esiti possibili, come continua donazione di senso a cui partecipo non solo col linguaggio verbale ma con l’intera espressività della mia corporeità, è presente in tutto il pensiero di Merleau-Ponty. La fenomenologia della percezione si salda quindi con una fenomenologia della semiosi» (114). Rimanendo in ambito fenomenologico, Eco critica con asprezza l’ermeneutica heideggeriana in quanto essa sarebbe l’esatto opposto di una teoria dei segni e costituirebbe invece «una pratica, continua e appassionata di interrogazione dei segni» (97) e tuttavia discutendo della Semantica Generale di Korzibsky e di Sapir-Whorf, ricorda che per questi studiosi «la lingua non è ciò attraverso cui si pensa, ma ciò con cui si pensa o addirittura ciò che ci pensa o da cui siamo pensati» (106), che è tesi anche heideggeriana.
Sui rapporti tra pensiero e linguaggio, la posizione di Roland Barthes è che «la verbalizzazione sia la forma stessa del pensiero, che non si possa pensare senza parlare: quindi la semiologia sarebbe solo un capitolo della linguistica» (93). In ogni caso è chiaro che la complessità della semiotica è tale da tenere lontano ogni riduzionismo logicistico. La logica formale, infatti, «si applica a linguaggi appunto formalizzati e assolutamente non equivoci e entra in crisi quando vuol farsi logica dei linguaggi naturali, che sono invece il luogo dell’equivocità, della polisemia, della sfumatura e dell’ambiguità» (82). Il neopositivismo presenta lo stesso limite, giudicando «come strumento accreditato di comunicazione quell’uso di segni assolutamente univoci che si verifica così di rado nella vita umana e solo nel chiuso dei laboratori, mentre veniva discreditato il discorso quotidiano, il discorso della politica, dell’affettività, della persuasione, dell’opinione che non può essere ridotto ai ferrei parametri della verifica fisicalistica» (134).
La ricchezza della semiotica è data anche dal fatto che la creazione e lo scambio di segni costituiscono un ciclo senza fine, sono la vita stessa della comunicazione umana. Il processo fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario richiede non soltanto la comunicazione di una serie di segnali che in quanto tali possono essere puro significante (flatus vocis) ma di una struttura semantica, un codice, che renda quei segni parte di un mondo condiviso e li trasformi immediatamente in prassi; «nel segno il significante si associa al proprio significato per decisione convenzionale e dunque in base a un codice» (142). Secondo Peirce, la società umana si mostra in questo modo e tutta intera come linguaggio e cultura, come un «sistema di sistemi di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa» (138).
«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno.
Esiste a Torino un museo singolare, dove si viene accolti dallo scheletro del padrone di casa, Cesare Lombroso.
di Aa.Vv.
A cura di Hans-Peter Reichmann
Giunti Arte Mostre Musei, Firenze-Milano 2007
Pagine 382
Plato is Philosophy and Philosophy is Plato. L’affermazione di Emerson potrebbe essere volta in questa forma: Kubrick is Cinema and Cinema is Kubrick. La perfezione tecnica, la forza delle immagini, l’unitarietà del percorso che da Day of the Fight (1951) conduce a Eyes Wide Shut (1999), la continua innovazione e un classicismo fuori dal tempo, sono alcune delle ragioni che giustificano l’identificazione tra Stanley Kubrick e l’arte cinematografica.
«Lettore vorace, interessato a ogni argomento» (A. Frewin, p. 170), radicato nella cultura europea –i nonni paterni provenivano dalla Mitteleuropa-, Kubrick assorbe, rielabora, esprime e ricrea temi e domande filosofiche. E lo fa con la forza dirompente delle immagini, dei significanti e dei significati non verbali, di icone e simboli che non possono né devono essere spiegati. Il senso dei suoi film è evidente e nello stesso tempo inaccessibile anche perché essi vogliono descrivere la realtà del mondo e della psiche ma lo fanno con un atteggiamento di radicale disincanto nei confronti del potere comunicativo delle parole: «In a film, however, I think the images, the music, the editing and the emotions of the actors are the principal tools you have to work with. Language is important but I would put it after those elements» (cit. da R.M. Fischer, p. 230).
L’opera di Kubrick è una filosofia non verbale, iconica, sorretta da una logica lucida e da una matura antropologia. Non solo per i numerosi e più o meno espliciti riferimenti –la War Room del Dr. Strangelove è la Caverna platonica; HAL 9000 e il monolito sono simboli del pensiero tecnico e cosmico, della potenza e della fragilità di ogni «ragione strumentale» (V. Fischer, p. 157)…- ma soprattutto per la potenza di uno sguardo fenomenologico che non giudica bensì mostra, che esclude ogni psicologismo nella analisi e comprensione delle azioni umane, per attingere invece alle strutture biologiche, storiche, archetipiche della nostra specie. La caratteristica filosofica più importante del cinema di Kubrick è il suo profondo rispetto nei confronti della realtà e cioè degli enti, degli eventi e dei processi. Per questo «non esiste uno stile kubrickiano. Il Kubrick cineasta si caratterizza proprio per il fatto che il suo modo di procedere creativo si adatta al soggetto in questione e si sviluppa a partire da quest’ultimo» (C. Appelt, p. 317).
Il cosiddetto “perfezionismo” non è altro che una espressione di tale completa aderenza al reale, testimoniata dalle parole di Ken Adams a proposito di Barry Lindon, molto più che un aneddoto: «Facemmo ricerche sugli spazzolini da denti del periodo, sui contraccettivi, su una quantità di cose che alla fine non sono apparse sullo schermo» (R.M. Fischer, p. 223). Chi vuole descrivere il mondo deve infatti cominciare col rispettarlo e con l’averne cura in ogni sua componente.
È tale riconoscimento filosofico della complessa unitarietà del reale a fare dell’opera kubrickiana una delle più riuscite espressioni di superamento dei dualismi che impediscono di comprendere l’essere. Kubrick, infatti, nel descrivere l’uomo e il suo mondo coniuga in modo inestricabile ragione e sentimento, tragedia e ironia, comicità e disperazione, maschera e autenticità, “bene” e “male”. Davvero «il pubblico rimane privo di una morale della favola» (Ivi, p. 230).
Kubrick filosofo sa da subito e conferma ogni volta che la lotta costituisce una condizione ineliminabile della corporeità, che bìos e thanatos, desiderio e guerra sono tra di loro intrecciati. Dagli scontri fra boxeur delle prime pellicole, passando per le guerre di Fear and Desire, Spartacus, Paths of Glory, Dr. Strangelove, Barry Lindon, attraversando la violenza estrema delle relazioni personali, familiari, sessuali e sociali di Lolita, A Clockwork Orange, The Shining, si arriva al culmine di Full Metal Jacket, «forse il film di guerra più radicale che sia mai stato girato. Nel film di Kubrick (…) l’opposizione tra guerra e umanità si rivela illusoria» (G. Seesslen, p. 276), illusione confermata da Eyes Wide Shut, il cui tema principale è probabilmente il proustiano “essere di fuga” che ogni umano rappresenta per l’altro, una impossibilità di possedere che trasforma le relazioni in una guerra e fa dell’amore un sogno e un incubo, maschera suprema del niente.
Lo sguardo teoretico di Kubrick va ancora oltre e arriva a cogliere due cardini della comprensione filosofica: il determinismo, la verità nomade. In The Killing (Rapina a mano armata) l’intreccio di caso e necessità produce un perfetto meccanismo di eventi dal quale è impossibile uscire, così come il vero tema di Arancia meccanica è il condizionamento biologico di ogni essere umano. La sottile e inspiegabile impressione di “innocenza” che nonostante tutto promana da Alex si fonda su questa inevitabilità del suo comportamento, per la quale non serve la rozza tecnologia della “cura Ludovico” e che invece acquista senso alla luce del principio deterministico enunciato da Schopenhauer: «operari sequitur esse, ergo unde esse inde operari» (La libertà del volere umano, Laterza, p. 118). Concezione che ha una sua profonda espressione metaforica nell’annotazione scritta da Kubrick in una bozza di sceneggiatura del progettato film su Napoleone: «forse è proprio così: il grande campione di scacchi non può battere il peggiore dei giocatori in meno di un determinato numero di mosse. A un osservatore casuale può sembrare che il dilettante possa tenergli testa, ma un vero scontro non c’è mai stato» (citato da E.M. Magel, p. 208); un “vero scontro” tra il singolo e la necessità “non c’è mai stato”, davvero.
L’essere, il tempo, appaiono così per quello che sono: labirinti della mente. Il dedalo su cui Jack Torrance si sofferma e dentro il quale trova la morte è il labirinto temporale e interiore nel quale l’immobilità spaziale della figura congelata di Jack è identica all’immobilità temporale che fa di lui da sempre il custode dell’Overlook Hotel, come conferma la foto su cui il film si chiude: una festa del 1921. Il centro immobile del Tempo coincide con il suo eterno ritornare. Un’eternità che colloca 2001. A Space Odissey al centro geometrico del pensiero di Kubrick, una centralità che rende profondamente unitaria la sua opera, un percorso nel quale ciascun film si collega a ogni altro attraverso una serie ricchissima di rimandi, temi, citazioni intertestuali, obiettivi, crescita sapienziale.
L’occhio dello Starchild che chiude 2001 diventa nella prima immagine del film successivo l’occhio di Alex, così come l’avanzatissima intelligenza tecnologica di Hal -fattasi nemica dell’umano- apre alla intelligenza biologica dell’Overlook Hotel, un vero e proprio animale che divora la mente di chi lo abita fino a inglobarlo in sé. Lo scimmione preistorico diventa umano nel momento della violenza, il grande e grosso Palla di lardo diventa uomo anch’egli quando uccide il sergente suo aguzzino. Il peregrinare di David nel tempo diventa sia il cammino di ascesa e crollo sociale di Barry Lindon sia il viaggio del Dottor Harford nel labirinto del desiderio e della paura…Un vagabondare che caratterizza tutti i film e i personaggi di Kubrick e che si dispiega come nomadismo di una verità che riserva sempre nuovi luoghi, dimensioni e significati.
La mobile verità del mondo genera il nomadismo della mente ed è da essa prodotto. In questo cammino, la possibilità è l’itinerario verso lo svelamento dell’enigma, il rischio è il precipitare verso la follia, verso le tenebre…ed è a questo punto che si mostra la radice filosofica e gnostica del pensiero di Kubrick. Il familiare diventa mostruoso, la Heimat –la dimora, la solida terra che ben si conosce- si trasforma nello unheimlich, nell’inquietante che non dà più punti di riferimento e dentro la cui oscurità ci si può perdere per sempre. Ci sono due luoghi visuali in cui tenebre e luce sembrano trapassare l’uno nell’altro e fondersi: il primo è la scena conclusiva di Dr.Strangelove nella quale «accompagnato dall’idea che il mondo segua una legge matematico-divina, il cerchio di luce diventa l’immagine simbolica della forma di un cosmo irradiante/irradiato, infuocato e morente che, nella notte del cosmo, muore con la stessa rapidità con cui era nato» (B. Hars-Tschachotin, p. 116); il secondo è il duplice esito del labirinto di Shining: «dal momento che il labirinto combina due motivi collegati con l’infinito, uno dei quali è un motivo ornamentale che porta ad un vicolo cieco, chiuso, inguaribilmente pessimistico (l’eterno ritorno collegato a Jack), mentre l’altro, la spirale, è un motivo positivo, aperto, ottimistico (l’eterno divenire collegato a Danny), il labirinto simboleggia alla fine il trionfo del figlio sul padre, del “figlio della luce” sull’oscura violenza» (M.Ciment, cit. in U. von Keitz, p. 240).
Dentro il cinema ma anche molto al di là di esso, il pensiero di Kubrick riconosce l’indistruttibilità del male e del dolore: Hal 9000/l’albergo della scintillanza/Jack Torrance e i suoi fantasmi/la pervasività del conflitto e della distruzione…sono la potenza delle tenebre. Ma l’occhio della mente cinematografica e filosofica può guardare la Medusa e non morire: gli occhi chiusi su questo mondo di sogno si aprono col cinema ad altre visioni perché –afferma Kubrick- «il vero scopo di un film è fare luce» (cit. da G. Seesslen, p. 278). Una foto di Weegee ritrae il giovane regista «misteriosamente ammantato nella materia stessa del cinema: luce e ombra» (D. Kothenschulte, p. 137). La stessa materia dei suoi pensieri.
Sabato 26 settembre 2009 – ore 18,00
Relazione al Convegno “Miti di ieri e miti di oggi”
in occasione del XL Premio Letterario Brancati-Zafferana
Auditorium di Zafferana Etnea