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Espressionismo manzoniano

I Promessi Sposi
di Mario Bonnard
Italia, 1922
Con: Domenico Serra (Renzo), Emilia Vidali (Lucia), Umberto Scalpellini (Don Abbondio), Mario Parpagnoli (Don Rodrigo), Enzo Billiotti (Fra’ Cristoforo), Rodolfo Badaloni (L’Innominato), Ida Carloni Talli (Agnese), Ninì Dinelli (Gertrude), Olga Capri (Perpetua)

Restaurato e accompagnato da musiche contemporanee, questo capolavoro del cinema muto mostra una coinvolgente originalità formale e narrativa. Mario Bonnard fa del romanzo di Manzoni un percorso dentro la storia, l’antropologia, il male. La vicenda di Renzo e Lucia quasi rimane sullo sfondo delle grandi scene collettive, fatte di folle, soldati, appestati, ribellioni. Scene nelle quali la violenza delle vicende, la malvagità degli umani, l’inesorabilità degli eventi emergono dallo sfondo ora idilliaco del lago ora concitato della città. I rappresentanti dell’ideologia religiosa di Manzoni – fra’ Cristoforo, il cardinale Federigo – appaiono costantemente rivolti verso l’alto, distanti, quasi emaciati, ininfluenti. Come se fossero estranei rispetto alla concretezza della manzoniana fenomenologia dell’umano. Le libertà narrative che Bonnard si è preso – l’Innominato alla guida dei suoi soldati contro i lanzichenecchi; Lucia malata in casa di Donna Prassede; i dettagli del tradimento del Griso e della sua morte; le lunghe scene del saccheggio di Mantova; – sono funzionali a una disincantata descrizione della città umana, così come essa va sempre o come andava ‘nel secolo XVII’:
«In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»
(I Promessi Sposi, a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. VIII, p. 184).
E tutto questo viene narrato in una tonalità color seppia, con moderne dissolvenze delle forme, tramite giochi tra sfondo/primi piani e altre modalità espressionistiche. Un grande film.

Luce che si fa struttura

Georges de La Tour
L’Europa della luce

A cura di Francesca Cappelletti
Palazzo Reale – Milano
Sino al 27 settembre 2020

Non ci sarebbe stato, naturalmente, senza Caravaggio. Ma non ci sarebbe stato neppure senza i fiamminghi antichi e i più recenti, come i maestri di Utrecht. Non ci sarebbe stato senza l’intera pittura nordeuropea della prima metà del Seicento. E soprattutto non ci sarebbe stato senza la luce. La luce della notte e la luce della sua mente. La mente di Georges de La Tour (1593-1652). Quella che emerge nella penombra dei suoi spazi; nei trapezi e nei rettangoli dei suoi abiti; nell’energia dei suoi mendicanti; nel riverbero incredibile e soffuso delle candele.
La mostra milanese accompagna ai dipinti di de La Tour quelli di alcuni dei suoi contemporanei: prima di tutto il sempre vivace e ammaliante van Honthorst, con una splendida Vanitas (1618, qui a destra, anche se la foto -ahimè- non rende) nella quale la bellezza di una donna diventa specchio, morte, giustizia, arcano; poi un pittore senza nome, chiamato Maestro del Lume di Candela, poiché una candela è sempre il centro dal quale si dipartono i corpi, gli eventi, le situazioni; infine altri artisti nelle cui tele si diffonde una polvere di luce.
Tra i dipinti di de La Tour esposti a Palazzo Reale ci sono alcune opere della prima fase – Il denaro versato; La rissa tra musici mendicanti – nelle quali esplode una violenza che sembra tanto antica quanto naturale, nelle quali il denaro condiziona, plasma e deforma i volti degli umani. Le opere più mature – I giocatori di dadi (in alto), Educazione della vergine – acquistano significati e forme del tutto nuove e potenti, con figure sempre più nette, geometriche, astratte dallo spaziotempo, dentro la luce che si fa struttura. Queste opere e Giobbe deriso dalla moglie (1650, a sinistra) stanno al confine tra la pittura italiana e quella dell’Europa del Nord. Nel Giobbe una figura grande, dominante sino al divino, surclassa un uomo nudo e vago, il cui sguardo è, rispetto alla potenza di lei, una lacrima tenace. Uno degli ultimi dipinti – San Giovanni Battista nel deserto (sotto)– raffigura una solitudine ai confini delle tenebre, del nulla.
Di lui Roberto Longhi disse: «È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il suo genio; ma sento che il talento di de La Tour spezzerebbe più di un manometro».
Dentro Caravaggio ma al di là di Caravaggio, Georges de La Tour incarna un ideale matematico-platonico, un espressionismo esoterico, arcaico e modernissimo dove tutto sembra vibrare di immobilità sospesa, enigmatica, luminosa.

Tulipani

Tulip Fever
(Titolo italiano: La ragazza dei tulipani)
di Justin Chadwick
Gran Bretagna – USA, 2017
Con: Alicia Vikander (Sophia Sandvoort), Christoph Waltz (Cornelis Sandvoort), Dane DeHaan (Jan van Loos), Holliday Grainger (Maria), Judi Dench (La badessa), Jack O’Connell (II) (Willem Brok)
Trailer del film

Sempre pessima la consuetudine italiana non soltanto di doppiare sistematicamente i film girati in altra lingua ma anche di modificarne i titoli. In questo caso l’originale Tulip Fever è assai più descrittivo di che cosa il film sia, ponendo al centro non la protagonista umana ma i fiori che nell’Olanda del Seicento crearono una bolla speculativa molto simile alle strutture e ai rischi della finanza del XXI secolo.
Sui tulipani, infatti, si investiva prima ancora che fossero fioriti. La rarità di alcune specie rendeva il bulbo di un singolo fiore più prezioso dell’oro. Sembrava che dai tulipani si generasse una ricchezza senza fine, come per i titoli azionari, i derivati e le altre espressioni contemporanee di una finanza tutta cartacea e drogata, una finanza febbrile appunto. Febbre che si rivelò mortale, portando alla rovina intere famiglie, così come è accaduto negli USA e poi in tutto il mondo con la crisi immobiliare e bancaria del 2007-2009, della quale noi semplici cittadini continuiamo a pagare le conseguenze. Allo stesso modo della Tulip Fever olandese, è stata infatti e continua a essere mortale l’odierna crematistica, presentata invece dai quotidiani e da altri media -finanziati dalle banche- come un modo ovvio di utilizzare il denaro e di moltiplicarlo.
Su questo sfondo del tutto attuale si staglia la vicenda dell’orfana Sophia, del suo anziano marito e commerciante Cornelis, dei vani sforzi di avere un erede, dell’amore tra la ragazza e il pittore incaricato da Cornelis di ritrarli. Una storia d’amore come tante che da un certo momento in poi comincia però a crescere nella inverosimiglianza, negli intrichi e intrighi, in un finale chiaramente artificioso.
Ciò che rimane interessante -e che spiega perché il titolo originale è più esatto- è che tutti i personaggi, compresa la determinata badessa del convento-orfanotrofio di Sophia, si rivolgono ai tulipani nei loro progetti di vita, nei loro sogni d’amore, nelle loro fortune e nelle loro disgrazie.
La messa in scena è sontuosa, soprattutto gli interni, e assai cromatica. I calvinisti olandesi sono sempre quelli descritti da Max Weber: persone convinte che la moltiplicazione del denaro sia un segno quasi certo che il Dio cristiano li ami. Da qui è germinata la profonda ingiustizia della modernità, da questa implacabile visione che coniuga l’esigenza della salvezza con la centralità del denaro. Se i nazareni costituiscono una setta da sempre pericolosa per l’equilibrio del mondo, la loro variante puritana si è mostrata la più rovinosa. Se «li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l’albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni» (Mt., 7, 16-18), il frutto più maturo del calvinismo -gli Stati Uniti d’America- era già tutto dentro l’ossessione olandese per i tulipani e per i favolosi guadagni da essi garantiti.

Don Giovanni / Don Rodrigo

Giovanni Macchia
Tra Don Giovanni e Don Rodrigo
Scenari secenteschi
Adelphi, 1989
Pagine 220

«Il Seicento, il corrotto Seicento, terribile e crudele, miserevole e splendido, dominato dal senso del potere e dalla licenza, mistico e miscredente, è diventato il secolo che oggi più ci attrae» (pp. 125-126). In esso cerchiamo quella parte di buio che si stende anche su di noi, che ci accomuna a quell’epoca di ferocia, di piaceri e di segreti.
In pagine lievi, veloci eppur assai dense, Giovanni Macchia rende conto e ragione di questo intreccio tra il Seicento e noi. Mazzarino e Grácian, Malagrida e Retz, gli untori e Don Giovanni, sono e rimangono uomini e personaggi del loro tempo, indagati da Macchia con la consueta, straordinaria erudizione, ma diventano anche simboli e compagni della nostra ricerca, del nostro tentativo di trovare un filo che ci guidi nella complessità delle strutture sociali e psicologiche. Basta guardarci intorno per scoprire quanta «dissimulazione» ci circondi, quanto «segreto», che lo strepito e il rumore informativo (specialmente i social network) non fanno che accrescere e nascondere.
Le due figure del titolo si stagliano su uno sfondo di lotta, di ombre, di sensazioni estreme: «Il terzetto Don Giovanni, Zerlina, Masetto (un aristocratico e due contadini, promessi sposi) corrisponde perfettamente a quello di Don Rodrigo, Lucia, Renzo» (15-16). Ma la luminosità della festa in cui Don Giovanni tenta di conquistare Zerlina contrasta a fondo con il buio e con la notte protagoniste della vicenda di Lucia. Ai Promessi Sposi -e soprattutto al Fermo e Lucia come «romanzo nero del Manzoni» (32)- è dedicato il capitolo più ampio ed emblematico: «Un romanzo di morte […] una forma di epopea negativa» (24), nel quale Manzoni sentì ed espresse la misteriosa attrazione che lo legava al Seicento, secolo della paura, della malattia, della guerra, del male.
A questa visione insieme truce e provvidenziale del tempo umano si contrappone quella del saggio dedicato al cardinale Mazzarino, all’ambizione, alla politica, al segreto, alla socialità, al teatro, alla saggezza e al disincanto. Mazzarino diventa una figura speculare a quella del cardinale Federigo, così come la fine superba e ironica di Don Giovanni lo è rispetto alla morte ebete di Don Rodrigo.
Ancora una volta Macchia ha visto giusto: «La sete di dominio trova in Don Giovanni una via d’uscita nell’erotismo. […] Il dongiovannismo può essere definito, nell’indipendenza della politica dalla morale, una forma di machiavellismo portato sull’amore» (169).

Pistis Sophia

Sangue del mio sangue
di Marco Bellocchio
Italia, Francia, Svizzera – 2015
Con: Pier Giorgio Bellocchio (Federico), Lidiya Liberman (Benedetta), Fausto Russo Alesi (Cacciapuoti), Roberto Herlitzka (Il conte), Filippo Timi (il pazzo), Alberto Cracco (l’inquisitore francescano), Alba Rohrwacher (Maria Perletti), Federica Fracassi (Marta Perletti), Toni Bertorelli (Il dottor Cavanna)

Trailer del film

XVII secolo, Monastero di Bobbio. Benedetta è accusata di essere una strega e aver indotto il suo confessore al suicidio. La violenza, l’ipocrisia, la follia dell’Inquisizione non riescono a farla confessare. Viene murata viva. Dopo decenni, torna a trovarla il fratello del prete suicida, che voleva ucciderla, che forse se ne era innamorato e che ora è un rigido cardinale.
XXI secolo, Bobbio. L’antico carcere sembra abbandonato. Vi abita un uomo che esce soltanto di notte ed è a capo di una fondazione che benefica -in maniera non del tutto legale- gli abitanti del luogo. Il Conte -così lo chiamano- sembra una sorta di saggio vampiro. Una giovane e fiorente donna lo attrae con tutta la forza della vita. La desidera, la segue mentre lei amoreggia con il suo ragazzo.
Due vicende apparentemente lontane nel tempo e nel contenuto ma che invece mostrano l’unità di una metafora gnostica tra le più chiare. L’Inquisizione cattolica e il Conte rappresentano infatti l’espressione tragica e quella benevola di una struttura antropologica intrisa di buio e incapace di riscattarsi nonostante il tentativo di imprigionare la Luce. Anzi, proprio per averla imprigionata. La Grande Chiesa -la Chiesa papista- ha soltanto la forza di tenere separata e segregata la Luce ma non ha la potenza di distruggerla. Come germe sonnecchiante essa tace e subisce, cova la propria purezza che è anche la sua forza, per poi risvegliarsi, ormai libera. Benedetta/Sophia si immerge negli elementi del mondo -l’acqua, il fango, il sangue, il fuoco- li assorbe in sé, oltrepassa la logica dualistica e insensata degli inquisitori, ne rimane incontaminata e alla fine esce dalla sua prigione risplendendo della potenza di una giovinezza che soltanto la conoscenza può offrire.
Non importa, naturalmente, che Bellocchio sappia che cosa è tutto questo. Artista è infatti colui che coglie gli archetipi e ne esprime la forza, anche se ne ignora i contenuti e le forme. E qui si tratta di un archetipo tra i più antichi, che dall’orfismo arriva al presente.
Questo film è dunque un’offerta di riflessioni sulla vita, di stabili intuizioni nello scorrere caotico del mondo e della sua narrazione, da cogliere dentro e oltre il tempo nella trama degli eventi e grazie al loro mutare.

Archetipi / Il Doppio

Il racconto dei racconti
di Matteo Garrone
Italia-Francia-Gran Bretagna, 2015
Con: Salma Hayek (Regina), Christian Lees (Elias), Johan Lees (Jonah), Franco Pistoni (negromante), Toby Jones (Re), Bebe Cave (Viola), Guillaume Delaunay (L’orco), Vincent Cassel (Re), Shirley Henderson (Imma), Hayley Carmichael (Dora), Stacy Martin (Dora ringiovanita).
Trailer del film

Nel cuore dei Seicento Giambattista Basile scrive il suo Cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille ma non è ai bambini che si rivolge il film che Matteo Garrone ha costruito traendolo da tre delle 50 fiabe del libro di Basile: La reginaLa pulceLe due vecchie.
Una regina desidera a ogni costo il figlio che non arriva. Si affida a un negromante che fa nascere da lei un bambino gemello di un altro concepito da una serva. Il legame tra i due fratelli è più forte di quello verso la madre. Un re ha passione soltanto per la sua pulce e dà con leggerezza la figlia in sposa a un orco. Un altro re, che si accoppia senza posa, si innamora di una voce, che in realtà è quella di due anziane laide. Quando se ne accorge diventa furioso, sino a che una delle due gli ricompare davanti giovane e bellissima. Ma per quanto tempo?
È nel bosco, naturalmente, che gli enigmi si sciolgono rimanendo tuttavia sempre il labirinto nel quale la regina insegue il figlio avuto dal cuore del drago. Quale drago? Quello delle passioni umane più cupe e più profonde. Quello del possesso dal quale ogni amore scaturisce e a cui ogni affetto si riconduce. Il Figlio è parte del corpo della Madre, al di fuori di esso non può neppure essere concepito. Il Re vorrebbe che la Figlia rimanesse sempre accanto a lui, come la pulce che alleva in segreto. Questo padre all’apparenza così innocuo è tanto orco quanto l’Orco al quale alla fine la consegna. Il corpo della femmina è l’ossessione di un giovane Re, purché sia un corpo giovane e splendente. Il tempo che va e viene nel corpo della vecchia/giovane Dora è l’inganno oltre il quale gli occhi del sovrano non sanno vedere. E quando vedono è l’orrore.
Il Doppio è una cifra della favola. I due gemelli sono nati da madri differenti ma risultano indistinguibili persino agli occhi delle loro genitrici. Il Padre e l’Orco si scambiano l’animalità che li intesse. Le due vecchie sorelle sono disposte entrambe a qualunque atroce lifting pur di negare la potenza del divenire.
L’ente che si sdoppia, l’ente che vorrebbe tornare al luogo originario nel quale il labirinto dell’esistere era la Lichtung, la luce aperta dello spazio senza entropia. L’ente che vorrebbe fare dell’Altro, della differenza e dell’alterità una parte, un riflesso, uno sguardo di se stesso, unico, solitario, signore del tempo e dello spazio. Ma l’umano è una solitudine identitaria che può vincere il suo gelo soltanto al calore della differenza. Anche questo dicono gli archetipi che intessono i racconti di ogni popolo e che li rendono così lontani e insieme così vicini, vicini sino all’inquietudine.
Il genere fantasy è qui pura superficie, pretesto. Questa è un’opera totalmente carnale, è un film assolutamente tragico.

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

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