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La malinconia delle labbra

This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
Con: Sean Penn (Cheyenne), Frances McDormand (Jane), Eve Hewson (Mary), Kerry Condon (Rachel), Harry Dean Stanton (Robert Plath), Olwen Fouere (la madre di Mary), Joyce Van Patten (Dorothy Shore), Judd Hirsch (Mordecai Midler), Heinz Lieven (Alois Lange), David Byrne (Se stesso)
Italia, Francia, Irlanda 2011
Trailer del film

Cheyenne è un cinquantenne che vive in un magnifico palazzo irlandese. Lo ha acquistato con i proventi della sua attività di rockstar. Attività che ha abbandonato da vent’anni ma che lo induce ancora a vestirsi e a truccarsi come faceva una volta. La sua vita procede tranquilla, annoiata, gravata da pesi e fantasmi che lo accompagnano discreti. Il padre, un vecchio ebreo di New York, sta molto male. Cheyenne parte con la nave  -teme infatti il volo- e arriva troppo tardi. Dai documenti lasciati dal padre scopre che questi ha cercato per tutta la vita un ufficiale nazionalsocialista che lo aveva umiliato ad Auschwitz. Comincia dunque a percorrere gli States per proseguire l’opera del genitore e la conduce a compimento. Può tornare in Irlanda ormai cresciuto, senza trucco e -per la prima volta- sorridendo.

Al di là della vicenda narrata, il film è molto bello per la capacità di Sorrentino di saper coniugare ancora una volta malinconia e grottesco. Cifra che era già esplicita ne Il divo e che qui si incarna perfettamente in un Sean Penn semplicemente straordinario, che non disegna un personaggio ma costruisce una vera scultura fatta di psiche, soma, sguardi, movenze, labbra, silenzi, voce (ho avuto la fortuna di sentire il film in lingua originale). Cheyenne era sempre rimasto un bambino ma attraversa in pochi giorni la vita e diventa un adulto finalmente liberato dal dover portare sempre con sé un trolley per la spesa o per il viaggio, chiaro simbolo di memorie irrisolte. Anche gli altri personaggi, situazioni, dialoghi sono simbolici, compreso l’incontro con il vecchio ufficiale delle SS e il contrappasso. Nonostante il pregiudizio freudiano (Edipo) al quale troppo si ispira, il film risulta miracolosamente lieve, puro cinema, intatto sogno.

Milk

di Gus Van Sant
USA, 2008
Con: Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve Jones), Josh Brolin (Dan White) , Diego Luna (Jack Lira), James Franco (Scott Smith)

milklocandina

San Francisco, anni Settanta del Novecento. Harvey Milk tenta più volte di diventare consigliere comunale (“Supervisor”, una funzione che negli USA conta assai più che in Italia) e alla fine ci riesce. È il primo omosessuale dichiarato ad assumere in quel Paese una carica pubblica. È aiutato e sostenuto dalla comunità gay, dalle altre minoranze e dal sindaco Moscone, un liberal che insieme a lui pagherà con la vita il proprio impegno. Prima, però, riescono a far respingere dall’elettorato la proposta di un senatore repubblicano e di una imbonitrice evangelica che vorrebbero escludere gli omosessuali dall’insegnamento e da altre professioni.

Il film vuole ricostruire la San Francisco e la California di quegli anni. Alcuni inserti d’epoca e una grande attenzione agli ambienti e ai costumi (di Danny Glicker) aiutano a cogliere quella tonalità di vita. Ma il risultato complessivo è piatto, la sceneggiatura è del tutto scontata e l’opera risulta una banale miscela tra documentario e fiction. Anche la narrazione della vita privata di Milk, dei suoi dolorosi amori, ha qualcosa di patetico. Magnifico, ancora una volta, Sean Penn, che regge su di sé tutto il film e riesce a rendere autentica l’omosessualità del suo personaggio, con uno sguardo e dei gesti sempre plausibili. Il confronto con gli altri interpreti -che proprio recitano il ruolo di “froci”- conferma che Penn è uno dei più grandi attori viventi. Per il resto, retorica a piene mani.

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