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Esami

Un padre, una figlia
(Bacalaureat)
di Cristian Mungiu
Romania, Francia, Belgio, 2016
Con: Adrian Titieni (Romeo), Maria-Victoria Dragus (Eliza), Lia Bugnar (Magda), Malina Manovic (Sandra), Vlad Ivanov (l’ispettore capo)
Trailer del film

Eliza si sta preparando all’esame di maturità. Una media molto alta le consentirebbe di lasciare finalmente la Romania per studiare a Londra. Alla vigilia dell’esame viene aggredita da uno stupratore ma deve sostenere a ogni costo le prove. Il padre, un medico bravo e integerrimo, viene per la prima volta a compromessi nel tentativo di aiutare la figlia a ottenere il risultato.
Il cinema di Cristian Mungiu racconta con sobrietà, pietas e rigore i sentimenti umani e le scelte che essi implicano. Lo ha fatto in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni a proposito dell’aborto, in Oltre le colline sulle motivazioni che separano persone che un tempo si sono amate. Qui in Bacalaureat (esame di stato) l’analisi riguarda non solo e non tanto i rapporti tra un padre e una figlia quanto soprattutto le circostanze che inducono a chiedere sostegno illegale, raccomandazioni, anche al di là della propria volontà.
Si sorride amaramente nel constatare che gli esami di maturità in Romania sono assai più severi che in Italia, che barare a scuola e all’università è un reato per il quale si muove la magistratura, che le persone si vergognano delle loro azioni. Quanto descritto dal film, in Italia non è più neppure percepito come illegale o semplicemente scorretto. Siamo diventati veramente tra i più corrotti al mondo.

Una catastrofe didattica

Qualche giorno fa ho svolto gli esami di una delle materie che insegno. Riepilogo qui i risultati.
Studenti esaminati: 21
Non approvato (è il modo burocratico di definire una bocciatura): 10
Voto 18: 5
Voto 20: 1
Voto 22: 2
Voto 23: 1
Voto 24: 1
Voto 26: 1
Come si vede, una catastrofe didattica. Non è la prima volta, anche se devo aggiungere che in altre mie discipline i risultati sono migliori. E tuttavia l’esito avrebbe potuto essere anche peggiore se non fossi stato un po’ accondiscendente e mi fossi attenuto con rigore al livello scientifico che un esame universitario sempre richiede.
Le spiegazioni di una simile situazione possono essere numerose: il docente è una carogna (tendo per ovvie ragioni a escludere tale risposta); gli studenti tentano la fortuna (lo si fa più spesso di quanto si pensi e con esito anche positivo); i contenuti sono troppo difficili (ma siamo all’Università, vale a dire al livello più alto della formazione); le conoscenze di base sono scarse (credo che questa sia una delle spiegazioni più sensate, visto il livello medio di preparazione con il quale gli studenti escono dalle scuole, nonostante l’impegno totale e la serietà professionale di moltissimi insegnanti, impegno e serietà che ben conosco per la mia lunga esperienza nei licei); le persone hanno dei limiti naturali, come ha osservato in maniera assai franca Arthur Schopenhauer: «Il nostro valore intellettuale, come quello morale, non ci giunge quindi dall’esterno, ma sgorga dalla profondità del nostro proprio essere e nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, tomo I, trad. di G. Colli, Adelphi 1981, p. 647) (una tesi che rappresenta l’opposto dell’onnipotenza educativa sostenuta dai comportamentisti e più di quella mi sembra corrispondere alla realtà); viviamo in un contesto sociale che tende a illudere le persone, producendo così molti danni individuali e collettivi (grave è che su tali temi si pensi spesso al ‘trauma’ che un soggetto può subire per il fallimento delle proprie aspirazioni personali, senza porre attenzione al trauma sociale prodotto da competenze attestate ma non possedute: vi affidereste a un medico che ha ottenuto la laurea ‘per ragioni umanitarie’?); nel profondo si è convinti che scuola e università non servano a nulla e che quindi una laurea non la si debba negare a nessuno, neppure a chi -come mi è accaduto di sentire in questa sessione di esami- a una domanda sul periodo nel quale venne inventata la stampa a caratteri mobili ha risposto: «Nel 1965»; le strutture universitarie si adattano al principio punitivo imposto dalla Legge Gelmini (mantenuta con convinzione dall’attuale governo), la quale riduce i finanziamenti agli Atenei in relazione al numero di studenti che non riescono a completare l’iter formativo nei tempi previsti (un principio giuridico-contabile tanto insensato quanto micidiale).
Scuola e Università non sono soltanto luoghi di scienza ma anche efficaci strumenti di ascesa sociale. A condizione però che diplomi e lauree non perdano di valore e di senso. Gramsci lo sapeva bene:

Il ragazzo che si arrabatta coi barbara, baralipton si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. […] La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale.
(Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117).

Le difficoltà sono reali, invece. Studiare, apprendere, capire il mondo è qualcosa di splendido e come tutto ciò che vale richiede tenacia e fatica. Illudere dei ventenni che la frequenza di Corsi Zero o analoghi strumenti didattici possa sostituirsi alla loro intelligenza e al loro impegno, illuderli con il rendere tutto facile o persino regalando materie e voti, significa mancare loro di rispetto, significa ingannarli.
La ragione forse ultima e più profonda di questa e di altre catastrofi didattiche sta nel fatto che governi, media, pedagogisti sono attivamente impegnati -ciascuno per la sua parte- a favorire la costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile. Non lo accetterò mai.

Corsi (sotto)Zero

Una delle più gravi illusioni didattiche prodotte dal behaviorismo e da altre correnti della pedagogia contemporanea è la convinzione che sia sufficiente istituire corsi, organizzare lezioni, svolgere azioni di «recupero» per colmare vuoti di conoscenza e dare alle persone le competenze che non hanno acquisito durante molti anni di studio e di frequenza delle scuole.
Esempio di una tale speranza -tanto patetica quanto pericolosa- sono i cosiddetti Corsi Zero organizzati da diversi Atenei italiani (compreso il mio) anche in seguito ai risultati dei test di ingresso ai vari Corsi di Laurea. Test che nel mio Dipartimento hanno avuto risultati drammatici. La maggior parte dei nuovi iscritti, infatti, ha bisogno di frequentare i Corsi di recupero OFA (Obblighi Formativi Aggiuntivi). Tali Corsi consisteranno in una serie di lezioni tenute in tempi assai stretti su argomenti quali: la lingua italiana, le lingue straniere, le lingue classiche, la matematica (in altri Dipartimenti). I Corsi Zero in tali discipline saranno «indispensabili per superare la prova di verifica che, a conclusione del corso, permetterà di soddisfare gli OFA entro il primo anno di corso, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo (art. 8 comma 1 e 2 del RDA -D.R. n.2634 del 6.08.2015)».
Riempire le menti di centinaia di studenti con qualche esercitazione e con alcune nozioni di base -che avrebbero dovuto assimilare a scuola-, ritenendo che in tal modo questi studenti saranno in grado di seguire corsi di Ingegneria, Filologia, Lingue straniere, Filosofia, significa cadere in pieno nella sindrome didatticista del «successo formativo obbligatorio», vale a dire quanto di più distante ci sia dalla concreta realtà dell’apprendimento, che è fatta di tempi lunghi, di talento naturale, di dialogo maieutico tra maestro e allievo.
Il tipico pragmatismo statunitense induce invece a credere -ché di una vera e propria fede si tratta- che basti organizzare, fare, recuperare, affinché accada il miracolo. In effetti è un miracolo quello necessario a riempire gli abissi di ignoranza con i quali troppi giovani escono dalle scuole -chiaramente ridotte a luoghi di intrattenimento e di socializzazione- e che si esprimono anche nelle risposte che sto sentendo in questi giorni di esami delle discipline che insegno. Ho ascoltato studenti che non conoscono la storia del Novecento, che non sanno in quale secolo venne scoperta l’America, che sono privi di qualunque anche minimo rigore logico, che ignorano o confondono in modo drammatico i significati delle parole fondamentali della filosofia, della storia, della letteratura.
Di fronte a tanto scempio organizziamo Corsi Zero per «soddisfare gli OFA» e viviamo sereni.

[Corsi sotto(Zero) è stato pubblicato anche su Roars]

Les Enfants

I 400 colpi
(Les Quatre Cents Coups)
di François Truffaut
Francia, 1959
Con: Jean-Pierre Léaud (Antoine Doinel), Claire Maurier (Gilberte Doinel, la madre), Albert Rémy (Julien Doinel), Patrick Auffay (René), Guy Decomble (l’insegnante di francese)
Trailer del film

i_400_colpiIn francese il titolo significa ‘fare il diavolo a quattro’. E il dodicenne Antoine Doinel è in effetti una mescolanza di Pinocchio e di Gian Burrasca. Ma è lontano da entrambi per la malinconia, la rassegnazione quasi, con le quali vive la sua solitudine di bambino non amato, il susseguirsi delle punizioni e della desolazione, la sua stessa radicata monelleria. Parigi e la Francia alla fine degli anni Cinquanta del Novecento vi appaiono nella loro identità immediata e profonda, irreversibilmente dissolta, oggi. Come svanito è un modo di educare che nel nostro tempo è diventato esattamente l’opposto rispetto a quello descritto e condannato nel film, oggi che i bambini e i ragazzini di tutte le età sono diventati i tiranni delle famiglie.
La narrazione procede senza nessuna sbavatura, del tutto priva di retorica anche se totalmente intrisa di pietà. Il cinema, la letteratura, il teatro è naturalmente sempre dell’umano che parlano ma le opere che valgono lo fanno senza alcun sentimentalismo. Les Quatre Cents Coups è un grande film anche per questo. Da qualche mese l’opera è tornata nelle sale, restaurata e quindi capace di sprigionare ancora e di nuovo tutta la sua bellezza formale, la sua maestria di racconto per immagini.

La pessima scuola

Con l’imposizione del voto di fiducia su una questione che riguarda lo stesso futuro del corpo sociale e la sua formazione nel presente, la scuola italiana è stata violentata. Lo stupratore ha le fattezze di un Partito Democratico il cui volto è ormai quello degli industriali, delle privatizzazioni, del fascismo come sistema di pensiero e di gestione dei rapporti sociali. Si tratta di un crimine che la scuola italiana e i suoi docenti non dimenticheranno. Con questa fiducia comincia la fine del Partito Democratico e del prestanome che lo domina.
Un gruppo di docenti dell’Università di Catania ha sottoscritto il documento che pubblico qui sotto.

Il Ddl  buona scuola? Non in nostro nome

Onorevoli Senatori e Parlamentari della Repubblica,
siamo docenti e ricercatori dell’Università di Catania. Come cittadini e come professori intendiamo manifestarvi la nostra contrarietà alla “riforma” scolastica proposta dal Governo. Vi indichiamo, in estrema sintesi, soltanto le principali ragioni di un dissenso ampio e motivato.

1) L’attribuzione al Dirigente scolastico di un’autorità che vada oltre gli aspetti organizzativi, per toccare addirittura la chiamata e la conferma del docente nel suo ruolo professionale, lederebbe il principio costituzionale della libertà di insegnamento (art. 33: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»). La “chiamata diretta” dei docenti vanificherebbe inoltre i percorsi formativi e valutativi attualmente in atto (in cui l’Università è coinvolta), non escluso il risultato dei concorsi (tutelato in linea di principio dall’art. 97 della Costituzione).

2) L’evidente incentivo a concentrare i docenti “migliori” nelle scuole “migliori” per gli studenti “migliori” (in concreto: di famiglie più abbienti, disponibili a sostenere le scuole con i loro soldi) – e di conseguenza a concentrare i docenti “peggiori” nelle scuole “peggiori” per gli studenti “peggiori” – appare in contrasto con l’art. 3 della Carta: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

3) La “riforma” mostra di ignorare che, nonostante il costante definanziamento e i disordinati interventi governativi degli ultimi anni, quella italiana è ancora una “buona”, spesso “ottima” scuola. Lo dimostra il fatto che studenti formatisi in Italia (fra medie superiori e Università) trovano spesso agevolmente lavoro all’estero, vincendo la concorrenza locale e trasferendovi con successo le proprie competenze. L’appiattimento su standard gestionali e formativi di livello genericamente “europeo” sancirebbe invece il definitivo arretramento della competitività del diplomato/laureato italiano a livelli meramente locali.

4) D’altro canto, tutti gli indicatori e i test valutativi provano che la “media” italiana risulta da dati profondamente squilibrati, fra regioni centro-settentrionali (allineate ai valori delle grandi nazioni europee) e regioni centro-meridionali. La diseguaglianza dei risultati non dipende quindi dall’ordinamento interno, ma da fattori decisivi e profondamente diversificati generati dal contesto sociale ed economico. Lo schema del Preside-manager e della competizione fra istituti opererebbe in senso negativo, come un moltiplicatore delle diseguaglianze e dei fallimenti scolastici. Tale schema non risponde alle finalità di promozione personale e culturale, proprie della scuola pubblica, ma all’esigenza tutta politica di estendere al mondo della scuola modelli organizzativi e ideologici propri dell’Impresa.

5) La “riforma” elude quello che, da tutti gli insegnanti, è indicato come il principale ostacolo a un efficace svolgimento dei compiti didattici: l’eccessivo numero di studenti per classe. Grave è anche l’umiliazione professionale, con la conseguente dequalificazione sociale, inflitta agli insegnanti da una retribuzione lontanissima dai livelli delle nazioni europee sviluppate: più in generale, non viene dal Governo alcuna svolta nel senso di adeguati investimenti in Istruzione scolastica, Cultura, Università.

6) Al contrario, nel solco dei suoi predecessori, di pur vario segno politico, il Governo propone forme di finanziamento alle scuole private che costituiscono comunque “onere per lo stato” (se non altro come mancate entrate fiscali), in contrasto con l’art. 33 della Costituzione.

Per questi (e altri) motivi, considerato che l’abnorme numero di deleghe al governo previste dal ddl vanificherebbe i vostri eventuali emendamenti di segno migliorativo, vi chiediamo di bocciare la “riforma”, senza cedere al ricatto del voto di fiducia.

Giugno 2015

FIRME:

Attilio Scuderi, Antonio Pioletti, Salvino Giuffrida, Felice Rappazzo, Gianni Piazza, Marcella Renis, Alessandro Pluchino, Giuseppe Mulone, Francesca Vigo, Rossana Barcellona, Anna Zimbone, Erminia Conti, Katia Perna, Maria Luisa Barcellona, Teresa Sardella, Edoardo Tortorici, Ferdinando Branca, Anita Fabiani, Rosa Maria D’Angelo, Antonio Milazzo, Marina Paino, Concetta Sipione, Andrea Manganaro, Luciano Granozzi, Alessandro Mastropietro, Giuseppe Consiglio, Angelo Spadaro, Marco Mazzone, Laura Bottini, Gemma Persico, Stefania Arcara, Mirella Cassarino, Loredana Pavone, Nando Pistarà, Filippo Gravagno, Ernesto De Cristofaro, Giuseppe Russo, Antonio Carbonaro, Antonio Sichera, Alberto Giovanni Biuso, Maria Rizzarelli, Rosario Castelli, Alessandro De Filippo, Federica Santagati, Luigi Ingaliso, Mario Di Raimondo, Iuri Peri, Giuseppe Pezzinga, Andrea Orazio Caruso, Gaetano Ortolano, Francesco Leone, Rita Cirmi, Giancarlo Rappazzo, Sebastiano Battiato, Annalinda Contino, Francesca Zuccarello, Enrico Felici, Stefania Rimini, Rita Pavsic, Francesca Pulvirenti, Domenico Cantone, Riccardo Reitano, Vincenzo Bellini, Antonietta Rosso, Maria Grazia Grimaldi, Giuseppe Di Fazio, Anna Maria Maugeri, Paolo Cipolla, Anna Guglielmo, Francesca Guarino, Alba Rosa Suriano

Guerre, migranti ed esercito industriale di riserva

«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda. Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica.
Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo  le obsolete categorie di destra e sinistra. È quanto ha compreso anche il filosofo Michel Onfray, che per questo è stato attaccato in modo tanto violento quanto sciocco dal primo ministro francese Manuel Valls. Davvero, come scrive Alain de Benoist, bisogna essere consapevoli «dell’incapacità dell’immensa maggioranza degli uomini politici di comprendere qualsiasi cosa che abbia attinenza con il dibattito delle idee. […] Non sono i lettori a interessargli, ma gli elettori» (Diorama letterario, n. 323, p. 9).
Si tratta della stessa classe dirigente che in Francia come in Italia va distruggendo la scuola e l’università con ogni nuova legge che emana. L’apprendimento a scuola di una cultura scientifica, filologica, filosofica che non sia banale e superficiale è infatti giudicato ‘discriminatorio’ verso coloro che non riescono o non vogliono imparare. Onfray afferma giustamente che in questo modo «la scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli della classi favorite che fanno fruttare nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa» (Ivi, p. 11).
Si tratta della stessa classe dirigente europea che sta facendo di tutto per far fallire il progetto di Syriza in Grecia, giudicandolo ‘irrealistico’. «Ma nei fatti l’irrealismo sta piuttosto dalla parte dei giornalisti liberali e dei cronisti stipendiati, i quali assicurano che un debito che è impossibile pagare dev’essere pagato comunque, che la sovranità popolare dev’esser considerata nulla e che è legittimo portare a compimento lo squartamento del popolo greco» (De Benoist, p. 15).
Si tratta della stessa classe dirigente che -cancellando la Libia di Gheddafi e sovvenzionando il terrorismo contro il governo siriano- ha creato il Califfato e l’ISIS; una classe che «pretende di battersi contro un nemico senza voler riconoscere che si tratta di un Golem da lei stessa generato. Il dottor Frankenstein non può lottare contro la sua creatura perché è la sua creatura» (Id., p. 17).

Il generale francese Vincent Desportes ha dichiarato apertamente (lo scorso 17 dicembre) che «lo Stato islamico è stato creato dagli Stati Uniti» (Ivi, p. 16). E così si spiegano sia i finti ‘respingimenti’ stabiliti dai governi sottomessi alla grande industria -la quale ha invece tutto l’interesse ad accogliere l’esercito industriale di riserva costituito dai migranti africani e asiatici- sia la miope accoglienza indiscriminata mediante la quale la sinistra non più marxiana ha sostituito la lotta di classe con l’adesione all’universalismo globalista.
Il risultato di tali dinamiche non ha nulla a che fare con forme di libertà e di giustizia tra i popoli ma rappresenta sostanzialmente «l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti. Un ben triste scenario» (M.Tarchi, p. 3).

Medea / Münchausen

Mente & cervello 125 – maggio 2015

Amphora with Medea Ixion PainterIl cognitivismo ha rappresentato una spiegazione della mente condivisa da molti studiosi. Ma ormai mostra crepe sempre più evidenti e lo fa in una miriade di campi. Uno dei più importanti è il linguaggio, un tempo roccaforte dei cognitivisti. E invece si scopre che nell’apprendimento di una lingua «ciò che è cruciale è che alla capacità computazionale di tipo statistico sia affiancato un ambiente sociale, che è naturalmente il contesto primario e la ragion d’essere per lo sviluppo del linguaggio» (S.Gozzano, p. 9). Parlare è un’attività olistica, insomma, come tutte le funzioni umane, comprese quelle più specificatamente mentalistiche. La memoria, ad esempio, non è fatta di un accumulo cognitivo di dati ma di una complessa dinamica di «dimenticanza adattativa», di ricordo e di oblio (M.Semiglia, 20). L’apprendimento, poi, è una struttura insieme unitaria e costituita da molteplici componenti, tanto da risultare impoverita dall’utilizzo di strumenti veloci ma passivi -come i computer- rispetto a strumenti più lenti che però permettono di selezionare, riflettere, ricreare l’appreso. Il titolo dell’articolo di Cindi May –In aula meglio la penna del pc (102)- è persino irridente nei confronti dei molti pedagogisti e didatticisti, tutti presi da un patetico entusiasmo nei confronti delle macchine per imparare. In realtà, «anche quando consente di fare di più in meno tempo non sempre la tecnologia serve a imparare. Nell’apprendimento c’è qualcosa di più che ricevere e ingurgitare informazioni- […] Per prendere appunti, agli studenti servono meno gigabyte e più cervello» (103).
Un ambito tanto delicato quanto colmo di pregiudizi è quello della maternità. La figura della madre ‘buona’ per definizione è del tutto falsa. Una miriade di esperienze lo dimostra. Medea è davvero una metafora efficace di quanto di oscuro si muove nella maternità. Clamorosi e drammatici sono i casi di Münchausen Syndrome by Proxy (MSbP), la sindrome di Münchausen per procura, nella quale le mamme attribuiscono ai figli malattie inesistenti, allo scopo di concentrare l’attenzione su se stesse. Nei casi più gravi, tali madri mettono a rischio la vita stessa dei figli, sino a ucciderli. Non si tratta di semplice ipocondria per procura -quando la madre è davvero convinta che il figlio sia malato, anche se non è vero-, «le mamme Münchausen sanno perfettamente che il bambino non ha niente, e cercano deliberatamente il dramma, nel quale sono protagoniste […] in una sarabanda di bugie che sempre più spesso oggi si avvale di Internet e dei social media per amplificare l’attenzione coinvolgendo più persone. E senza preoccuparsi delle possibili conseguenze sul bambino» (P.E.Cicerone, 92). Forse non è balzana la richiesta «che i genitori siano dotati di una sorta di patentino prima di essere autorizzati a procreare» (D.Ovadia, 55). In tutto questo c’è una magnifica ironia: si tratta infatti di un’antica proposta platonica, che oggi viene ripresa nell’ambito dei diritti umani, in questo caso il diritto del bambino ad avere dei genitori decenti.

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