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Educazione e dissoluzione

La sala professori
(Das Lehrerzimmer)
di Ilker Çatak
Germania, 2023
Con: Leonie Benesch (Carla Nowak), Leonard Stettnisch (Oskar Kuhn), Anne-Kathrin Gummich (Bettina Böhm)
Trailer del film

Una scuola tedesca organizzata molto bene e con la regola della ‘tolleranza zero’ verso le infrazioni più o meno gravi delle regole. Ma è una norma che si rivela un alibi, un’apparenza. Si verificano dei furti e a essere accusato è un ragazzino delle medie che in realtà non c’entra nulla e viene presto scagionato. Una giovane insegnante di matematica e di educazione fisica, Carla, comincia a sospettare di qualche collega e lascia in sala professori la propria giacca, con il portafoglio, e il computer acceso per inquadrare la scena. Rientrata dalla lezione, constata che effettivamente le mancano delle banconote e la telecamera ha ripreso un braccio. Da qui risale alla colpevole, che però nega decisamente ogni responsabilità. Nella scuola si insinua il sospetto di tutti contro tutti. Dirigente, personale tecnico-amministrativo, docenti, genitori, studenti hanno tutti voce in capitolo e questo moltiplica le tensioni, accentuate da un  articolo sul giornalino della scuola nel quale i giornalisti in erba dimostrano di avere già la vocazione verso questa professione, attribuendo con cinismo e spregiudicatezza a Carla parole che la professoressa non ha mai pronunciato.
Un film tragico nel raccontare l’implacabile piano inclinato della fine dell’educazione in Europa. È infatti la Germania ma potrebbe essere, con piccole e secondarie modifiche, l’Italia o peggio ancora la Francia o qualunque altro Paese dell’Europa yankee, sottoposta alla pedagogia e alle tecniche didattiche importate/imposte dagli USA. Assai diverse sono le azioni e i principi educativi in India, in Russia, in Cina e in molte altre zone del pianeta.
So per testimonianza diretta, ad esempio, che dei ragazzini di origine egiziana quando trascorrono qualche settimana nelle scuole del loro Paese sono impazienti di rientrare in quelle italiane, perché nella scuole islamiche la disciplina è ferrea e comprende l’utilizzo di pene corporali. Quando tornano in Italia, invece, quegli stessi alunni diventano i bulli padroni delle classi poiché psicologi, dirigenti, genitori e altre figure sciorinano tutto l’armamentario delle giustificazioni psico-pedagogiche-ambientali che non permettono ai bambini e agli adolescenti di incontrare ostacoli alla loro aggressività esplorativa. Aggressività che è fisiologica e naturale proprio perché rivolta a trovare un freno, una barriera, un limite, e in questo modo permettere al cucciolo di crescere. Quando tali limiti non esistono, il fatto educativo è fallito, interamente fallito.

«διδάσκαλός τε ἐν τῷ τοιούτῳ φοιτητὰς φοβεῖται καὶ θωπεύει, φοιτηταί τε διδασκάλων ὀλιγωροῦσιν, οὕτω δὲ καὶ παιδαγωγῶν: καὶ ὅλως οἱ μὲν νέοι πρεσβυτέροις ἀπεικάζονται καὶ διαμιλλῶνται καὶ ἐν λόγοις καὶ ἐν ἔργοις, οἱ δὲ γέροντες συγκαθιέντες τοῖς νέοις εὐτραπελίας τε καὶ χαριεντισμοῦ ἐμπίμπλανται, μιμούμενοι τοὺς νέους, ἵνα δὴ μὴ δοκῶσιν ἀηδεῖς εἶναι μηδὲ δεσποτικοί»
«In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Da parte loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e han sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari»
(Platone, Repubblica, VIII libro, 563a, trad. di Roberto Radice).

Così Platone descrive la pedagogia occidentale contemporanea, le nostre scuole e i nostri luoghi di formazione. Una società che confonde il ruolo del docente con quello dell’amico; la figura dei genitori con quella di avvocati dei figli; l’educatore con il «facilitatore» del quale – sulla scorta delle tesi del pedagogista statunitense Carl Rogers – parlano i documenti ministeriali italiani contemporanei (e quelli dei singoli istituti, compresa Unict), una società siffatta è una società finita, senza futuro. Sta qui una delle radici e delle forme della dissoluzione dell’Europa.
Ne ho discusso ampiamente in Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia e in vari contributi successivi, ad esempio: Per la παιδεία (2018). Di quelle analisi La sala professori costituisce un’efficace conferma narrativa.

Democrazie pedagogiche

Democrazie pedagogiche
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 dicembre 2023
pagine 1-7

In questo articolo ho cercato di seguire la genesi di ciò che Jacob Talmon definisce «democrazia totalitaria», a partire dal pensiero di Jean-Jacques Rousseau e dall’azione politica dei giacobini.
A fare da fondamento alla politica degli ultimi due secoli sono un’antropologia e una teoria educativa interamente rinnovate e (rispetto al passato) capovolte. Dalla ὕβρις greca al peccato cristiano, dai miti orientali al fatum latino, la realtà della vita umana era sempre stata vista come intrisa di limite, intessuta di dolore, destinata in pochi a una faticosa felicità e nei molti a una pena senza senso, lenita dalle periodiche pause della festa e dalla speranza escatologica in un incerto, enigmatico altrove. Con l’Emilio e con il Contratto sociale la natura umana diventa invece una sostanza plasmabile in tutte le forme, indirizzabile a qualunque obiettivo, docile alle riforme più ardite e pronta quindi alla felicità degli dèi.
Le istituzioni purificate e l’educazione onnipotente divennero quindi lo strumento che avrebbe dovuto sradicare gli impulsi aggressivi per far emergere al loro posto l’innocente bontà della natura umana. Un’antropologia e una teoria dell’educazione alle quali verrebbe da rivolgere la domanda che nel recente film di David Fincher il protagonista a un certo punto pone: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’» (The Killer, USA 2023).
Non la democrazia intesa empiricamente come dialogo, rispetto delle differenze, continuo, faticoso e non garantito miglioramento per prove ed errori, ma la democrazia concepita come necessaria condivisione di una verità salvifica, di valori assoluti in nome dei quali privare della libertà di parola, di movimento, di lavoro chi non li condivide (state pensando anche al Covid19 e alla cancel culture? state pensando bene).
Il testo cerca di indicare la presenza dello spirito totalitario nelle pedagogie che dominano il presente, vale a dire in quelle che determinano la vita quotidiana, il lavoro scientifico, la pratica didattica nelle scuole e nelle università anche italiane.

[Foto di Edwin Andrade su Unsplash]

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

Qualità e libertà dell’insegnamento

Segnalo un sintetico documento pubblicato sul sito della Casa della cultura di Milano. Vi si discutono le nuove modalità di ingresso dei docenti nelle scuole secondarie e il DPR 13 giugno 2023 n. 81, relativo al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Il primo punto interessa direttamente e immediatamente gli studenti, i laureati, i dottorandi che aspirano a insegnare nei Licei. Il secondo riguarda semplicemente le libertà costituzionali, ancora una volta sotto attacco anche da parte dell’attuale Governo italiano, come dei precedenti.

Riporto qui ampi brani del documento:

«Continua peraltro la pressione sui docenti, che non si sono ancora arresi a un modello di scuola sempre più impostata, da una parte, secondo un modello organizzativo interno di carattere aziendalistico, totalmente estraneo a quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi culturali e civili, così come sanciti dalla Costituzione repubblicana; dall’altra, sempre più simile a una struttura terapeutica velleitaria e fallimentare piuttosto che a un’istituzione con finalità di formazione culturale e civile. Tale pressione è progressivamente aumentata, con una serie di norme volte a limitare la libertà d’insegnamento e a dissolvere l’alto profilo professionale del docente come esperto di una disciplina, in una funzione impiegatizia di “operatore” o “facilitatore”, come recitano molti documenti ministeriali.
Lungo questa direzione si collocano una bozza relativa alla nuova organizzazione dei concorsi per futuri docenti e il DPR del 13 giugno 2023, n. 81.
Le Disposizioni in materia di reclutamento del personale scolastico e acceleratorie dei concorsi PNRR prevederanno infatti una prova scritta, per accedere agli orali, totalmente non disciplinare, ‘con più quesiti a risposta multipla volta all’accertamento delle conoscenze e competenze del candidato in ambito pedagogico, psicopedagogico e didattico-metodologico, nonché sull’informatica e sulla lingua inglese’. Un filtro, dunque, con le solite sminuenti modalità dei quiz, per impedire l’accesso alla funzione docente a chi non si sia adeguato al pensiero pedagogico unico ministeriale, che autopresuppone una propria inesistente scientificità, non suffragata da nulla al di fuori dell’arroganza e dell’autoreferenzialità di chi la sostiene. Come più volte notato in questi anni, il linguaggio tecnocratico del pedagogismo oggi egemone non è altro che un assemblaggio retorico di concetti, di varia provenienza, volti per lo più a impressionare l’interlocutore poco esperto, anche per il corrivo e superficiale uso di anglicismi; come se questo fosse in grado di dare credibilità a un apparato teorico di evidente inconsistenza epistemologica e decisamente banale in merito ai contenuti che vorrebbe sostenere.
[…]
A questo tentativo di selezionare solo docenti allineati con il pensiero pedagogico unico, si aggiunge un attacco maldestro alla stessa libertà d’espressione dei dipendenti pubblici e, per quanto ci concerne, dei docenti. Il DPR 13 giugno 2023, n. 81, relativo al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, all’art. 11-ter, comma 2, recita che ‘In ogni caso il dipendente [pubblico] è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale’. Una norma agghiacciante, in pieno contrasto con la libertà d’opinione e d’espressione tipica di uno stato democratico e sancita dalla nostra Costituzione: finalizzata a ridurre al silenzio chi sta combattendo da decenni una battaglia di civiltà, difesa e rilancio della centralità della cultura nella scuola e nell’università. Un tentativo di negazione autoritaria delle libertà inalienabili del cittadino».

Sono tra i ‘primi firmatari’ del documento, che può essere sottoscritto da qualunque cittadino.
Questo il link: A difesa della qualità e della libertà d’insegnamento

Segnalo anche un sintetico ma assai chiaro documento redatto da altri colleghi a proposito delle università telematiche e delle modalità di formazione dei docenti, ulteriore tassello di un degrado della scuola, delle università e del sapere che in Italia sembra non avere fine:
Formazione docenti e università telematiche private: l’anomalia italiana
di Federico Bertoni, Riccardo Castellana, Pietro Cataldi, Attilio Scuderi, Massimiliano Tortora, Emanuele Zinato
In La letteratura e noi, 12 settembre 2023

Ignoranza

Il trionfo dell’ignorante è l’estasi del potere
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 dicembre 2022
pagine 1-7

I decisori politici, i loro consulenti ai ministeri dell’istruzione e dell’università, favoriscono nelle scuole il familismo cognitivo e nelle università la notte in cui tutti gli studenti sono uguali. Il familismo cognitivo reclama – con aggressioni, intimidazioni e ricorsi – che i propri figli siano sempre premiati, promossi, sostenuti, anche e soprattutto quando non studiano, non capiscono, non si impegnano, disprezzano gli insegnanti e i libri.
Ma l’eliminazione di ogni filtro a scuola e nelle università ha prodotto un filtro feroce e implacabile nei dottorati di ricerca. Si offrono a chiunque, in cambio delle tasse di iscrizione, lauree svalutate e voti inflazionati – il 110 per tutti, Todos caballeros – ma poi ad accedere a quello che è ormai il vero titolo di studio superiore sono pochissimi, dato il numero sempre assai ridotto di posti di dottorato di ricerca e ancora meno di quelli che prevedono una borsa di studio. È facile dedurne che a entrare nei dottorati sono di solito e per fortuna delle persone tenaci, intelligenti e competenti, ma non mancano altre che vi accedono per meriti di diversa natura: familiari, di protezione politica, di raccomandazione di casta. Perché un filtro, prima o poi, si crea. E questa diventa una selezione particolarmente iniqua e dannosa poiché senza un titolo di dottore di ricerca non è più possibile aspirare a entrare nei ruoli dell’insegnamento universitario.
Davide Miccione, al cui Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (2022) questo articolo è dedicato, sull’Avanti! del 22.1.2023 ha aggiunto sul tema altre lucide riflessioni:
«Eppure pensare l’ignoranza ci disturba. È il nostro grande non detto. Tuttavia chi ha insegnato nei licei e nelle università contemporanee sa, a meno che non sia lui stesso ignorante, che una grossa fetta della popolazione scolastica e accademica non raggiunge i livelli minimi che ci si aspetterebbe dal possesso della loro laurea o del loro diploma. […]
Il potere, per evitare il virus della politica come luogo dove si raggiunge una decisione di cui si debba poi avere una responsabilità, si traveste da decenni da tecnica. Vuole sottofinanziare le università meridionali senza che sia una decisione politica ma solo tecnica e costruisce algoritmi per classifiche che gli permettano “tecnicamente” di tagliare finanziamenti come mero fatto tecnico e così via. Questo goffo travestimento funziona solo in presenza di un folto numero di soggetti per cui una riflessione politica e filosofica sia ormai oltre le proprie possibilità. […]
Chi pensa, da politico, di stare “sbrigando” un atto tecnico invece che un atto politico dimostra solo la propria triste condizione culturale (e del resto tanto Platone che Croce, per citare due classici, sul tema si sono già abbondantemente espressi) o la propria amorale furbizia. […]
L’ignoranza vigila su di noi: il dibattito, se proprio deve esserci, sia simulato, ripetitivo e asimmetrico. E mai si alzi in volo».

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