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Le scuole occidentali

Armand
di Halfdan Ullmann Tøndel
Norvegia, 2024
Con: Renate Reinsve (Elisabeth), Ellen Dorrit Petersen (Sarah), Endre Hellestveit (Anders)
Trailer del film

I fenomeni sociali, che siano spontanei o che vengano costruiti da una volontà di controllo sui corpi collettivi, alla fine si incontrano e scontrano con le strutture antropologiche, con ciò che l’umano è per natura al di là del costruzionismo politico che pure molta influenza esercita sulla vita degli individui e delle collettività.
Un ambito nel quale tale dinamica è particolarmente evidente, delicata e quindi anche distruttiva, è la formazione, è la scuola. Da alcuni decenni, e in modo sempre più accelerato, la scuola permeata dai principi pedagogici dell’occidente anglosassone – e quindi sostanzialmente dal behaviorismo coniugato con il moralismo – vede al centro alcuni fenomeni, quali:
-la presenza sempre più ossessiva dei genitori nelle scuole, con il conseguente primato della componente emotiva e privata a danno della componente professionale e oggettiva, vale a dire gli educatori, i maestri, i professori;
-la conseguente perdita di identità e sicurezza da parte dei docenti, ridotti o a burocrati o a domestici delle famiglie, e affetti in modo ormai preoccupante dalla sindrome da burnout;
-una ossessione iperprotettiva rivolta ai bambini e agli adolescenti, che si presume dover salvaguardare da ogni più piccola difficoltà, dispiacere e soprattutto conflitto. Risultano evidenti non soltanto l’impossibilità empirica di un simile programma – l’esistenza è attrito e conflitto – ma anche la distruttiva conseguenza del non far crescere le persone, lasciandole in una condizione di infantilismo e di perenne dipendenza che chi insegna all’università – e dunque si occupa della formazione in una fase nella quale le persone dovrebbero essere ormai autonome e adulte – percepisce in modo evidente (a volte anche con sgomento).

Questo è lo sfondo educativo nel quale prende corpo la vicenda di Armand. Che accade in una scuola  norvegese, vale a dire in quella Scandinavia che ha accolto da tempo e in modo acritico i dogmi della pedagogia anglosassone e della società del controllo nella quale l’individuo è seguito in modo occhiuto e alla fine tirannico ‘dalla culla alla tomba’.
Accade quindi che un bambino di sei anni – Jong – venga trovato piangente in bagno e risponda che il suo compagno – Armand,  anche lui di sei anni – ha cercato di violentarlo nell’ano. La implausibilità di una simile eventualità, a sei anni il pene umano non è capace di una erezione tanto potente, viene quasi scartata. Vengono convocati i genitori dei bambini. Elisabeth, la madre di Armand, è presto sottoposta a un processo che attinge alla sua vita privata e che nulla ha a che fare con l’episodio oggetto della convocazione. Di fronte ai genitori stanno una maestra giovane, onesta e volenterosa ma la cui presenza viene annullata da quella di un preside tanto vigliacco quanto instabile e incompetente (tre caratteristiche che descrivono ottimamente la più parte dei ‘dirigenti scolastici’ italiani) e da una psicologa del tutto inconcludente e afflitta da continue perdite di sangue dal naso.

Ma il significato e il valore di questo film stanno nello scarto rispetto a una trama che così raccontata sembra quella di un film sociologico. No, si tratta si un’opera antropologico-simbolica nella quale alcuni eventi, la loro collocazione spaziotemporale, i diversi colori delle stanze acquisiscono una funzione primaria. Una funzione particolarmente e densamente fisica. Il film si allontana infatti da ogni semplice verosimiglianza almeno in tre scene: il sorridere e ridere di Elisabeth durante il colloquio con i genitori e i docenti; il danzare di questa madre insieme a un inserviente della scuola; il passaggio dell’odio degli altri genitori verso Elisabeth da una dimensione interiore e psicologica a una del tutto fisica nella quale i molti si avventano a poco a poco contro uno. Tranne poi capovolgere l’esito quando i fatti vengono chiariti nel loro reale accadere.
Ogni elemento di questo film è pensato e meditato con attenzione. Il significato del racconto è reso evidente sin dall’inizio mediante un elemento che non descrivo qui per lasciare a chi vedrà Armand di scoprirlo da sé, ma è un elemento ‘tecnico’ assai chiaro.

Il regista, trentenne, è stato un maestro elementare. Una condizione forse necessaria per pensare, progettare e realizzare un film così corrispondente a quanto di assurdo accade oggi nelle scuole dell’occidente anglosassone e che era stato con la consueta lucidità prefigurato da Ivan Illich in Tools for Conviviality (in italiano Convivialità, 1973): «The inevitable catastrophic event could be either a crisis in  end: end by annihilation or end in B. F. Skinner’s world – wide concentration camp run by a T. E. Frazier» (p.120 dell’edizione Fontana del 1975).
Illich aveva ben compreso, ma non era difficile per gli spiriti liberi, che di fronte alla dismisura della crescita infinita postulata dal capitalismo, una delle possibili conseguenze sarebbe stata la società del controllo. Controllo che già Hannah Arendt aveva intuito che sarebbe stato totalitario, portando al collasso le società liberali, che erano nate come ‘open society’. Illich analizza dunque e critica la «Skinner Box», una società guidata da algoritmi mediante l’utilizzo sistematico del protocollo stimolo/risposta che per Skinner – rispetto a Watson – non deve essere passivo ma richiede l’attiva e positiva adesione del controllato. In questo modo il comportamentismo appare per quello che è sempre stato: una pratica rivolta all’obbedienza interiore e a un pervasivo controllo. È ovviamente emblematico che uno dei libri più importanti dello psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner si intitoli Beyond Freedom and Dignity (1971). Tale è la tendenza dell’occidente contemporaneo e dunque delle sue scuole e università. Armand parla anche di questo.

Federico Nicolosi su Ždanov

Federico Nicolosi
Pensare criticamente il presente: sul politicamente corretto
Dialoghi Mediterranei
n. 70, novembre-dicembre 2024
pagine 651-655

«Fare del dilagante problema politico-economico un problema etico-psicologico significa convogliare il nucleo della questione in un orizzonte che lascia spazio all’arbitrio del singolo, all’interpretazione acritica, all’operare sulle parole con la convinzione di star operando sul reale. Deve allora avere gran ragione Nietzsche nel dire: “La morale è nient’altro che questo. – ‘Tu non devi conoscere’ – da ciò deriva tutto il resto”. Da qui, la mossa di Biuso di architettare un intero capitolo Contro l’etica».

Sine ira et studio. Per Dario Generali

Giovedì 12 dicembre 2024 a Milano (ore 18.00 – Istituto ‘Severi-Correnti’) presenteremo il volume Sine ira et studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica. Scritti offerti a Dario Generali, a cura di Francesco Luzzini (Mimesis, 2024).


Nella sua introduzione al libro Francesco Luzzini scrive:
«Quello che ha fatto lo ha fatto per tutti, che non significa per accontentare tutti. Lo ha fatto per lo stato di diritto, per una scuola davvero capace di valorizzare il merito e di migliorare le prospettive di vita dei suoi studenti, per l’autonomia e la qualità dell’insegnamento ad ogni livello, per una cultura non asservita agli interessi politici e alle logiche di consorteria, per l’eccellenza della ricerca, per il superamento delle ottusità di confine tra i diversi campi del sapere, per un’università finalmente libera dalla cancrena delle mafie clientelari e dalle ingerenze del mercato: in una parola, per la res publica».
Dario Generali ha sempre lavorato a una storia «critica» della scienza, la quale non deve essere né apologetica né dissolutrice e  deve fondarsi sugli strumenti rigorosi della filologia e dell’erudizione, «spesso tanto ingiustamente disconosciuti quanto assolutamente indispensabili a penetrare opere, documenti, avvenimenti e ramificazioni di idee e teorie», come ha scritto in uno dei suoi libri (Storia e storiografia della scienza. Il caso della sistematica, Franco Angeli Editore 2002, p. 43).
Filologia ed erudizione debbono porsi al servizio di una capacità ermeneutica ed epistemologica in grado di cogliere l’intero di un’epoca o di un problema; da sole sono quindi insufficienti ma rimangono indispensabili.
Un altro elemento dell’epistemologia di Generali è il superamento del pregiudizio, tanto radicato quanto sterile, delle due culture – scientifica e umanistica – fra di loro separate. Una dicotomia che tuttora permane in entrambi i campi, e che ha delle ricadute didattiche assai negative, ma si tratta di un pregiudizio il quale secondo Generali non potrà durare ancora molto di fronte ai tanti e preziosi risultati della ricerca storiografica.
La scienza è dunque, deve essere, una  comprensione del sapere umano nella sua totalità.

Nell’introduzione al volume che gli abbiamo dedicato, Luzzini nota inoltre e con grande esattezza che una caratteristica peculiare della personalità di Generali è «quella capacità di far fronte con distacco critico alle questioni intellettuali così come ai casi della vita, di agire sempre in maniera razionale e mai sulla spinta dell’emotività – sine ira ac studio, appunto – che è uno dei tratti più distintivi di Dario, assieme alla sua immensa sensibilità umana».
Come amico da tanti anni di questo filosofo e di questa persona, non posso che pienamente concordare.

Sul metodo

Sul metodo. Epistemologia e cosmologie
in Sine ira et studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica
Scritti offerti a Dario Generali

a cura di Francesco Luzzini
Mimesis, Milano-Udine 2024
Pagine 351-371

Indice
-Epistemologia
-Feyerabend, contro il metodo
-Il caso dell’etere
-Cosmologie
-Per un’epistemologia realistica

Dario Generali è uno dei più importanti storici della scienza contemporanei. In occasione dei suoi settanta anni, allievi e amici gli hanno offerto un imponente volume di 1128 pagine, al quale sono stato felice di collaborare con un contributo dedicato al concetto di metodo. Se infatti le scienze hanno certamente a che fare con la verità e con la realtà, bisogna aggiungere  che verità e realtà non costituiscono i loro ambiti specifici poiché il cuore delle scienze è il metodo, sono le procedure, è il come, prima del che.
La ricca, complessa, intricata vicenda delle scienze occidentali, delle loro filosofie, della loro storia, va dunque letta sotto la luce di un criterio di demarcazione non ‘tra ciò che è vero e ciò che è falso’ ma ‘tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è’, intendendo per scientifico un linguaggio, una modalità, una procedura. Un metodo, appunto. Alla luce di questa semplice ma fondamentale consapevolezza si spiegano anche la varietà di teorie e metodi che caratterizza la vicenda scientifica.
Quello scientifico è soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere.
La verità, in ogni sua forma ed espressione, è un punto di vista nomade e non un edificio costruito per sempre. Non esiste dunque la scienza, esistono una ricchezza di ricerche sulla materia, sul cosmo, sulla realtà. Ricerche la cui fecondità si basa sulla varietà di approcci, sul rifiuto del dogma (principio di auctoritas), sul confronto quanto più libero possibile tra i ricercatori, sul rigore del metodo, sulla curiosità che spinge a porre domande sempre nuove a se stessi e al reale.
Metto qui a disposizione il mio saggio, il frontespizio, l’ampio indice delle sezioni e dei capitoli che compongono il volume e l’introduzione del curatore Francesco Luzzini, dal titolo Perché un maestro è raro. È un testo assai bello, che racconta e descrive in modo esplicito, appassionato e rigoroso la storia e la condizione degli studi e della formazione in Italia (e non solo), sul cui sfondo si stagliano la figura e l’opera di Dario Generali, che di questa decadenza rappresentano esattamente l’opposto.

Tucidide

[Data l’ampiezza un poco inusuale del testo, e per una lettura più comoda, ne ho preparato anche una versione in pdf]

Le ragioni per le quali l’opera di Tucidide ateniese «è un possesso che vale per l’eternità»1 sono numerose e assai chiare allo stesso Tucidide. Motivi che si riassumono nella conoscenza dell’umanità, in una antropologia lucida, disincantata, amara. Lo scrittore sa che gli eventi futuri somiglieranno a quelli passati, saranno simili agli eventi che lui stesso ha visto e che appunto intende narrare. E lo saranno perché tutti gli umani, sia nella vita pubblica sia nelle esistenze private, «son portati a far male» (III, 45; p. 1112); perché «in genere l’uomo è portato dalla sua natura a disprezzare chi lo rispetta e ad aver timore di chi non cede» (III, 39; p. 1108); perché le sciagure avvengono «e sempre avverranno finché la natura umana sarà sempre la stessa, ma più gravi o più miti e differenti nell’aspetto a seconda del mutare delle circostanze» (III, 82; p. 1137). Sciagure che si moltiplicano in qualità e quantità poiché «giudicando più secondo i loro incerti desideri che secondo una sicura preveggenza […] gli uomini sono soliti affidare a una speranza sconsiderata ciò che desiderano e a respingere con incontrastabili ragioni ciò che aborrono» (IV, 108; p. 1238).

Fu anche questo diffuso wishful thinking a far transitare i Greci dal comune trionfo ‘contro il Medo’, contro i Persiani invasori, all’autodistruzione in una guerra interna, una guerra civile di Greci contro altri Greci le cui ragioni erano già implicite nella vittoria sui Persiani e che crebbero a poco a poco quando la potenza di Atene non seppe più frenare e fermare le sue sempre più evidenti tendenze imperiali. Iniziò allora un conflitto esteso di isola in isola, di terra in terra, di città in città. Conflitto nel quale le ragioni  di dissidio interne a ogni πόλις si univano al timore di essere resi schiavi da altre città o alla speranza di rendere altre città sottomesse. Uno stato di guerra feroce come sono tutte le guerre civili; scontri che «devastarono la terra» (III, 79; p. 1135) e che condussero a «ogni forma di strage; piombati su una scuola di fanciulli, la più grande del luogo, in cui i fanciulli erano entrati da poco, li fecero a pezzi tutti quanti» (VII, 29; p. 1427). Chi siano gli autori di questa specifica strage, in questo caso i Traci alleati degli Ateniesi, e chi siano le vittime, in questo caso gli abitanti di Micaleso in Beozia, ora – nel XXI secolo – non ha molta importanza. Ma cambiando i nomi e i luoghi dei massacratori e dei massacrati emerge con evidenza la costanza nel tempo del male umano.

La guerra infatti, ogni guerra, «non procede affatto secondo norme stabilite, ma da sé escogita per lo più i mezzi adatti all’occasione» (I, 122; p. 978). Guerre scatenate per conquistare città e denaro e dunque non adducendo giusti motivi dei quali non c’è bisogno ma prevedendo sicure utilità; guerre dichiarate per antichi torti subiti e vendette da ottenere; guerre spesso iniziate per impedire attacchi ritenuti sicuri, guerre dunque ‘preventive’, e guerre decise perché semplicemente ed esplicitamente si sa di essere più forti degli avversari.
Questo è il significato del celebre colloquio intercorso tra gli Ateniesi e i Meli, durante il quale i primi dichiarano con una sincerità che le potenze contemporanee non hanno (e anche questo le rende peggiori), «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).

I frutti di questa convinzione imperialista non tarderanno ad arrivare e saranno la rovina di Atene. I pericoli di ogni atteggiamento e pratica imperialisti sono infatti piuttosto evidenti. Atene si rese sempre più nemica dei Lacedemoni/Spartani, e di altri meno attrezzati avversari, già con il suo stesso diventare una potenza politica, strategica, militare, economica. Tale crescita mise infatti sull’avviso tutti coloro che non intendevano sottomettersi senza resistere a una potenza egemone. Si aggiungeva un disprezzo verso i non ateniesi che diventava sempre più palese e soprattutto di una ὕβρις, una tracotanza per la quale «gli Ateniesi pensavano che niente avrebbe dovuto opporsi ai loro piani, ma che avrebbero dovuto compiere le imprese possibili come quelle difficili, con preparativi sia grandi che insufficienti» (IV, 65; p. 1207). Neppure la peste ferma Atene. Una peste terribile, descritta da Tucidide con un’efficacia che fa da modello alle pagine di Lucrezio, di Boccaccio, di Manzoni: «L’aspetto della pestilenza era al di là di ogni descrizione: in tutti i casi il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana» (II, 50; p. 1038), tanto che «piombati in una tale sciagura, gli Ateniesi ne erano schiacciati, mentre gli uomini morivano dentro la città e fuori di essa la terra veniva devastata» (II, 54; p. 1041).

Ma neppure da tale sciagura gli Ateniesi vennero dissuasi ad aprire un nuovo fronte, che risulterà per loro fatale. Al conflitto continentale contro Sparta aggiunsero infatti una spedizione contro Siracusa e contro la Sicilia , impresa che sarà rovinosa. Nel racconto della guerra nell’Isola credo che Tucidide abbia toccato il culmine della propria sapienza antropologico-politica e dell’arte di scrittore.
«Questo esercito fu celebre non meno per lo stupore che suscitava la sua audacia e per lo splendore che suscitava alla vista, che per la superiorità delle sue forze rispetto a quelle del nemico che andava ad attaccare, e per il fatto che intraprendeva una traversata a grandissima distanza dalla patria, con la speranza di un potentissimo futuro rispetto alla condizione presente» (VI, 31; p. 1355). E però il risultato di tanta potenza, di un simile splendore politico e militare fu una serie di disastrose sconfitte, di «gemiti e grida»  mentre i soldati «ormai badavano a se stessi e a come salvarsi» (VII, 371; p. 1459), ben lontani dagli auguri e dai peana con i quali erano partiti e invece «vinti completamente in tutto, senza subire nessuna sventura di scarso rilievo in nessun campo, in una distruzione completa» (VII, 87; p. 1472).

A spingere i cittadini di Atene a tale catastrofe fu anche e specialmente il giovane Alcibiade, assai ricco e ambizioso. Venne sconfitta la saggia prudenza di Nicia che si era invece pronunciato contro l’estensione della guerra in Sicilia. Essendo stratego, Nicia partì comunque per la Sicilia, dove trovò la morte, mentre Alcibiade, partito anche lui, venne richiamato in patria con gravi accuse che non avevano a che fare con la guerra. Alcibiade passò dalla parte degli Spartani per poi tentare di rientrare incolume ad Atene. Invece di riconoscere che erano stati loro a prestar fede a un ricco e nobile avventuriero, i cittadini di Atene «si adirarono con quegli oratori che avevano consigliato di fare la spedizione, come se non l’avessero decisa loro stessi» (VIII, 1; p. 1473).

Alcibiade aveva di fatto sostituito Pericle, morto durante la peste e la cui assenza fu tra le cause del tramonto politico della città. Pericle del quale Tucidide riporta il discorso che di Atene è la descrizione più luminosa (libro II, §§ 35-46). Nel commemorare i soldati morti per la città, Pericle afferma che Atene è il luogo nel quale ciascuno emerge «non per la provenienza da una classe sociale ma più per quello che vale» (II, 37; p. 1029), un luogo nel quale la bellezza è un’esperienza quotidiana e diffusa, dove la parola e la discussione sono sempre benvenute «senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire» (II, 40; p. 1031), dove felicità, libertà e coraggio sono i punti di riferimento dell’esistenza, suscitando anche per questo l’ammirazione degli «uomini di ora e dei posteri» (II, 41; p. 1032). Per queste e per altre ragioni «tutta la città è la scuola della Grecia» (ibidem).

Questo di Pericle è il più famoso dei discorsi che intramano l’opera di Tucidide, scandita appunto in discorsi riportati tra virgolette – degli strateghi, dei capi politici, degli ambasciatori delle diverse città in lotta tra loro – e scandita da descrizioni estremamente particolareggiate degli eventi bellici, degli scontri navali, delle battaglie, delle sconfitte e vittorie, delle fughe e trionfi. Descrizioni che lo storico ateniese fonda sui racconti di tanti e sulle proprie personali esperienze. Discorsi che sono costruiti in base alla verosimiglianza, vale a dire in base a ciò che si presume quel certo oratore abbia dovuto e potuto dire in quella determinata circostanza. Tucidide lo ammette con onestà e con chiarezza: «mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati» (I, 22; p. 910).

Tutto questo, lo splendore e la sventura, venne vissuto da umani davvero simili a ciò che gli esemplari della nostra specie sono da sempre. Una specie aggressiva, astuta, capace di riflessione e tuttavia spesso vittima di passioni che distruggono gli altri e se stessi. Una natura che i luoghi, i popoli, le credenze, le civiltà cercano di educare nei modi più vari. I Greci vennero in generale educati così: «Non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri, ma che è più forte chi è stato educato nelle più dure difficoltà» (I, 84; p. 951). Molti popoli e culture condividono nel nostro tempo tale criterio e pratica pedagogica. Più non lo fa l’Occidente dominato dal modo di vivere anglosassone, in mano a pedagogisti e a psicologi che impongono nelle scuole e nelle università i criteri compassionevoli, ‘inclusivi’ e irrealistici che plasmano giovani e adulti irresponsabili, incapaci, distrutti da ogni piccola e grande difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. Scuole e università per handicappati.
Saremo spazzati via da civiltà e popoli ancora adulti. Meriteremo questa fine e allora forse la parola di Tucidide e degli altri Greci risuonerà come un avvertimento che non abbiamo ascoltato.

Nota
Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, revisione di Franco Ferrari, note di Giovanna Daverio Rocchi, saggio introduttivo di Domenico Musti. In: Erodoto, Storie – Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 2021, I, 22; p. 910.

Storia

La Longue durée
Sulla storiografia di Fernand Braudel e delle Annales

in Dialoghi Mediterranei
n. 69, settembre-ottobre 2024
pagine 30-39

Indice
-Les Annales
-Braudel
-Weber
-Civiltà
-La storia e il presente: il capitalismo come economia-mondo
-Liberismo e colonialismo

Se i cittadini di una società che si ritiene libera e democratica ignorano la storia, quella loro pretesa e credenza è di fatto un’illusione. È infatti un grande vantaggio che coloro sui quali si comanda non conoscano le strutture sociali del passato e gli sviluppi che hanno condotto alla situazione politica del presente. In questo modo essi penseranno che il presente sia tutto, che esso sia inevitabile e che non ci siano alternative alle condizioni dell’oggi.
Questa è la vera ragione per la quale nelle scuole italiane ed europee si studia sempre meno la storia dell’Europa e del mondo.
Questa è la vera ragione della spaventosa ignoranza che i cittadini italiani – anche i più istruiti – mostrano in media verso il passato della loro società, anche verso il passato recente.
Questa è la vera ragione che sostituisce allo studio dei documenti del passato il luccichio degli strumenti virtuali del presente, completamente ignari di quanto accaduto nelle epoche trascorse, dalle quali l’oggi è germinato.
La ragione sta come sempre nel dominio, sta nella volontà di dominio. Un cittadino che conosce le complesse strade che hanno portato al mondo in cui vive si farà ingannare più difficilmente di un cittadino che le ignora.
Nelle scuole, dalle elementari ai licei, lo studio della storia è sempre più tragicamente marginale. E so anche di Dipartimenti universitari nei quali lo studio della storia si limita a microproblemi, a programmi che comprendono lo studio di famiglie più o meno insignificanti, a questioni di carattere iperlocalistico e frammentario, ignorando del tutto (nel senso letterale che i professori non ne parlano ai loro studenti) le grandi strutture epistemologiche della storiografia del Novecento, la storiografia che ha creato opere fondamentali e illuminanti come quelle di Marc Bloch, di Max Weber, di Fernand Braudel, delle Annales; una storiografia che ha compreso le dinamiche profonde della storia umana come storia della Lunga Durata.
È quindi con l’intenzione di offrire un servizio rivolto particolarmente agli studenti, e a chiunque fosse interessato, che ho cercato in questo breve saggio di presentare la storiografia del Novecento, poiché senza una conoscenza attenta, rigorosa e scientifica del passato non è possibile comprendere il presente, non possiamo sapere chi siamo e che cosa ci sta accadendo.
Senza una conoscenza attenta, rigorosa e scientifica del passato rimaniamo dei servi.

Università per censo

Il sintetico documento che segnalo, autorizzato dall’autrice, spiega più di molte e lunghe analisi che cosa sia diventata l’Università italiana. Si tratta di una lettera dolorosa, intrisa di lucida dignità, di capacità di pensare e di capire. Capire che cosa? Alcune caratteristiche di fondo della società italiana contemporanea, così riassumibili.

-Il tramonto dell’Università come ascensore sociale. Il ‘110 e lode’ regalato anche ai tanti che non lo meritano e, in generale, i certificati di laurea diventati la conseguenza del semplice iscriversi a un corso universitario hanno, come è ovvio, tolto valore sostanziale al titolo di studio.
-La tagliola  che immediatamente dopo il regalo avvelenato della laurea scatta e impedisce alla più parte dei laureati di proseguire il loro percorso formativo e/o professionale. Per chi è interessato all’insegnamento, il labirinto normativo ostacola in modo spesso insormontabile la realizzazione delle proprie aspirazioni.
-La tipologia di bando della quale parla questa lettera mostra con evidenza che in Italia è stato reintrodotto il criterio del censo, l’ottocentesco criterio censitario, per il quale soltanto i rampolli delle famiglie agiate possono aspirare a realizzare le proprie passioni e talenti, gli altri devono accontentarsi. La reintroduzione del criterio censitario è voluta e favorita dal decisore politico (di ogni area partitica e ideologica), dai pedagogisti e didatticisti, dalla onnipotente burocrazia ministeriale. Rettori e direttori generali applicano tali norme con più o meno zelo ai loro Atenei; in ogni caso la cifra minima da richiedere è per legge di 1500 € e il numero dei posti messi a bando da ogni Università è irrisorio rispetto a quello dei laureati.
-Il cospicuo denaro che viene chiesto ai giovani cittadini italiani e alle loro famiglie non dà alcuna garanzia sul loro futuro ma serve semplicemente ad accedere ai concorsi per l’insegnamento. Che per accedere a tali concorsi si debbano aggiungere alle competenze acquisite durante gli anni universitari sui contenuti delle proprie discipline ore e ore di indottrinamento sulle tecnologie didattiche – presentate immancabilmente come ‘nuove’ ma in realtà assai vecchie, obsolete e definite con l’asettica formula «60 CFU, Crediti Formativi Universitari» (si noti il linguaggio bancario) – è il risultato più catastrofico dell’occupazione dei ministeri della scuola e dell’università da parte della corporazione dei didatticisti, vale a dire di coloro che per lo più non sanno insegnare ma pretendono di dire agli altri come si fa (ne conosco personalmente numerosi).
-La necessità di aggiungere alle spese per l’abilitazione quelle per l’ottenimento di certificazioni linguistiche di fatto ormai obbligatorie se si vuole racimolare qualche punto in più nelle graduatorie. Il costo medio di tali certificazioni è 500 €, che possono diventare 800/1000 se si accoglie la proposta di alcuni enti certificatori di ‘certificare’ anche senza svolgere le prove previste (pratica ovviamente illegale ma diffusa).
-Il patetico nascondimento di questa sostanziale discriminazione socio-economica mediante una ultrasensibilità linguistica, che nella premessa fa dire: «Laddove in questo documento, unicamente a scopo di semplificazione, è utilizzato il genere grammaticale maschile, la forma è da intendersi riferita in maniera inclusiva a tutte le persone interessate dalla procedura di ammissione». Tipico caso, normale caso, nel quale il politicamente corretto contribuisce a giustificare l’iniquità, ne è complice attivo.

La lettera è stata spedita il 27 maggio 2024 al rettore e al Direttore generale pro tempore dell’Università di Catania. Il suo oggetto ha come titolo Percorso abilitante su posto comune, tra amarezza e rabbia.
Allego il pdf del bando oggetto della lettera.

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Gentile Professore Priolo,
sono una studentessa dell’Università di Catania che ha conseguito la laurea magistrale. Sono stata una studentessa, dovrei più correttamente dire. Le scrivo però da studente per esprimerle la mia amarezza e, se mi consente un sentimento un poco troppo umano, la mia rabbia. Stamattina ho letto il bando relativo ai Percorsi di formazione e abilitazione docenti su posto comune a.a. 2023/2024 (D.R. 2179 24/05/2024). Provo amarezza e rabbia nel leggere procedure che anziché aiutare e sostenere la formazione dei vostri studenti non fanno altro che ostacolarli, affossarli, scoraggiarli.
Vede Professore, a me che il personale di Unict ponga come premessa che il maschile utilizzato nel bando sia neutro ma che la forma è inclusiva non desta alcun sentimento di rammarico, ma che l’università di Catania – la mia casa – chieda a degli studenti il pagamento di costi così esosi a fronte di un numero di posti praticamente simbolico, ridicolo mi lasci dire, questo sì che mi suscita rammarico.
Procedure e requisiti di ammissione sono in contraddizione con il fine per cui il percorso nasce. Se lo scopo è abilitare dei giovani studenti e/o neo-laureati alla attività didattica, vale a dire a un inserimento rigoroso, serio e maturo nel mondo della scuola e dunque del lavoro, non crede che sia un ossimoro chiedere loro una somma così onerosa in partenza? Non crede che uno studente debba essere messo nelle condizioni di diventare un bravo docente e non debba invece essergli chiesto ciò che, si spera, avrà modo di guadagnare con il frutto del suo lavoro? Le graduatorie non saranno stilate sul punteggio – torno dopo sulla questione – raggiunto, mi lasci dire che la lista avverrà sulla base dei conti correnti disponibili a sostenere simili cifre, e quelli che invece dovranno rinunciarvi. E così l’università, che un tempo poteva essere per molti uno strumento di crescita sociale, diventa un luogo adatto, disponibile e ospitale solo per chi ai piani alti già ci abita.
Tralasciando la tassazione prevista e volendo sottopormi all’ennesima lista di raccolta punti da supermercato, si presenta davanti a me una situazione altrettanto sconfortante. E non soltanto per il numero di posti ma perché il punteggio viene calcolato su una conta numerica che praticamente esclude me e molti dei miei colleghi in partenza. Se, poi, posso contare sulle competenze linguistiche, anche quelle partono da un livello elevato ed escludono quindi le certificazioni ‘inferiori’. E così mi ritroverò forse, e quasi certamente, scavalcata da studenti alcuni dei quali avranno acquistato il loro C1 di inglese, e invece l’impegno e lo studio serio, nient’affatto facile, ma sempre svolto con rigore e passione rimarrà segregato nel mio cassetto o tra i miei libri. Potrebbe a questo punto venirmi in aiuto il voto di laurea ma il 110 e lode è diventato un premio donato in beneficio per il solo fatto di essersi iscritti all’università, ciò significa che avere tutti 110 e lode equivale a non possederlo, nessuno.
Questo è il modo in cui l’Università di Catania sta trattando i suoi studenti. Questa è la voce amareggiata e arrabbiata di una studentessa che si trova a non potere nemmeno pensare di presentare domanda per un percorso che dovrebbe aprire le porte del mio futuro e invece me le sbarra in partenza. Non spero di cambiare le cose, non credo che la mia voce sia sufficiente a cambiare le cose. Ma almeno saprò di non essere rimasta in silenzio e a guardare.

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Questo articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it il 3 giugno 2024.

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