Canova – Thovarldsen
La nascita della scultura moderna
Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 15 marzo 2020
A proposito dei Greci Hegel scrisse che «se fosse permesso avere una nostalgia, questa si volgerebbe a siffatto paese e alla sua civiltà». Ma lo stesso filosofo afferma subito dopo che «al nome Grecia l’uomo colto d’Europa, e specialmente il Tedesco, si trova a casa propria» e che «noi ci troviamo tra i Greci come a casa nostra per il fatto soprattutto che essi ci appaiono come a casa loro». Questo abitare è, per Hegel e per noi, la filosofia: «Allo stesso modo come i Greci si trovavano a casa loro, anche la filosofia consiste appunto in questo trovarsi a casa propria, nel fatto che l’uomo nello spirito si trova a casa propria, è indigeno presso di sé» (Lezioni sulla storia della filosofia, «Introduzione alla filosofia greca», trad. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia 1981, vol. I, pp. 167-168 e 170).
Se la Grecia non è la terra della nostalgia è perché si può nutrire nostalgia solo per il luogo in cui non si vive, per qualcosa che più non è. La Grecia, invece, è sempre. Lo testimonia anche l’opera di Thorvaldsen e Canova.
I due autoritratti in marmo che aprono la mostra dicono già l’identità e la differenza. Sono molto simili infatti, entrambi in tonalità eroica, e però dinamico e sentimentale è Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822); immobile e oggettivo è Bertel Thorvaldsen (Copenaghen 1770–1844). E questo nonostante il fatto che Canova fosse più riservato dello scandinavo ma gioviale Thorvaldsen. Vissero negli stessi anni a Roma. I papi visitarono i loro studi; uno di loro -Pio VII- si fece anche ritrarre. Segno e prova, questa, della grandezza artistica del cattolicesimo romano rispetto alla miseria dell’iconoclastia luterana.
Soggetto politico primario della loro opera fu naturalmente Bonaparte. Che appare antico e malinconico in Canova; splende in tutta la sua gloria in Thorvaldsen. Ma in entrambi Napoleone è la distanza del potere. I busti di Thorvaldsen vivono nel silenzio del pensiero, nella densità della storia. Il suo Trionfo di Alessandro Magno a Babilonia è un fregio che racconta l’incontro tra la Grecità e l’Oriente, la metamorfosi di entrambi, il dinamismo che vibra in tutta l’esistenza di Alessandro. La Venere vincitrice è una danza che ammira nel pomo se stessa, il capriccio della seduzione, la solitudine della vittoria.
Nello splendido Nemesi recita a Giove i fatti della storia umana (qui sopra) Thorvaldsen trasforma il marmo in molto più che una filosofia della storia, lo trasforma in un mito. La dea invincibile poggia il piede destro sulla Ruota, simbolo di Giove, il quale la ascolta con estrema attenzione, con l’altro suo simbolo -l’Aquila– accucciato sotto di lui, con l’inutile fulmine nella mano destra e la sinistra sotto il mento. Zeus ascolta con la concentrazione di chi vuole apprendere, consapevole che la potenza del suo agire si ferma davanti alle Parche, alle Erinni, ad Ἀνάγκη, all’inevitabile, a Nέμεσις dunque.
Uno dei momenti fondamentali della mostra è la compresenza nello stesso spazio, l’una accanto all’altra, delle Tre Grazie scolpite dagli artisti. Osservarle, girare loro intorno, confrontare gli sguardi delle dee, i loro gesti, le carezze e il vortice nel quale sguardi, gesti e carezze si muovono, significa entrare nella materia come forma, nella pietra che si fa pensiero. Nelle Grazie la Bellezza è sempre relazione, prospettiva, misura che si dissolve nella gloria della sostanza di cui è fatta, che sia carne, fuoco, bronzo, marmo, luce.
In Canova e Thorvaldsen la scultura testimonia la propria natura aristotelica, mostrando nella possanza della pietra l’inseparabilità di forma e di materia. Pezzi di marmo provenienti da Carrara, dalle Alpi Apuane, diventano nelle mani di un umano simboli, racconti, archetipi, incanti. La potenza silenziosa della roccia si apre al divenire e fa di se stessa un atto molteplice e sacro.
Questo accade anche al bronzo, al ferro, ad altri minerali. Per quanto lontane possano sembrare, le forme che Ivan Theimer, Nag Arnoldi, Arnaldo Pomodoro hanno dato alla materia possiedono la stessa misura di quelle di Canova e di Thorvaldsen. Declinate in un altro tempo della storia che però rimane il medesimo tempo diveniente e immobile del mito.
Nessuno tuttavia potrebbe confondere le opere di Thorvaldsen e Canova con la statuaria greca. Essa rimane l’altrove e la differenza, come ogni altra espressione dei Greci. In tutto ciò che è venuto dopo di loro vince l’individuo, la soggettività, il tormento. Nelle statue dei Greci abitano invece l’intero, il mondo, la tragedia più fonda e più serena. E però nessuno si è accostato alla misura greca, al suo gelo e al suo fuoco, come i due artisti che a Milano sono tornati ad abitare insieme nello spazio.