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La Nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza

Ilya Prigogine – Isabelle Stengers
[La Nouvelle Alliance, Métamorphose de la science, 1981]

Einaudi 2006
Pagine XIV-297

L’epistemologia corre veloce. La riflessione sul sapere scientifico è parte integrante e fondamentale della filosofia. Al di là delle vecchie polemiche sulla preminenza delle scienze o della teoresi filosofica -rapporto e conflitto che tanta parte costituisce della stessa storia della cultura europea- l’epistemologia è uno dei settori in cui il sapere tende a unificarsi. Questo celebre libro del premio Nobel per la chimica Prigogine e di I. Stengers ha dato in tal senso un notevole contributo.

Il suo obiettivo è riunificare, appunto, in una nuova alleanza non solo le scienze e la filosofia tra di loro ma entrambe -e soprattutto la prima che ne ha più bisogno- con l’esperienza quotidiana degli uomini, con il loro tempo vissuto, con gli eventi che appaiono naturali allo sguardo. Lo strumento per superare tante antiche e radicate dicotomie viene individuato in una rivisitazione del concetto di tempo. I due temi centrali del libro sono infatti il tempo e la complessità. Nella prima parte si analizzano la genesi e il significato della scienza classica. Si descrive il miraggio della fisica newtoniana, il progetto di unificare la conoscenza e l’essere della natura in poche, semplici leggi valide per sempre e indipendenti dall’osservatore. In questa fisica la reversibilità è la norma e la freccia del tempo una semplice per quanto radicata illusione. Tutti i processi possono essere ripetuti all’inverso, la metafora classica è il tempo dell’orologio. Ma poi è accaduto qualcosa, il riduzionismo è fallito, «le scienze della natura ci descrivono ora un Universo frammentato, ricco di differenze qualitative e sorprese potenziali» (pag. 11). Il pericolo e l’incertezza sono penetrate in quello che si credeva il santuario della legge di natura. Il merito, per così dire, è della termodinamica.

Il suo secondo principio, infatti, introduce l’entropia e cioè una perdita irreversibile di energia, dovuta alla trasformazione dell’energia stessa in calore. Non può esistere sistema naturale o macchina che compia il proprio ciclo energetico senza perdite. Le cose, l’Universo, sono destinate a una inevitabile morte termica. È la chimica ad aver quindi introdotto nella fisica il concetto di processo irreversibile. Le leggi della dinamica descrivono un essere stabile, fuori dal tempo. Quelle della termodinamica descrivono il divenire incessante delle cose fino alla loro lenta ma progressiva diradazione. Dall’essere al divenire.

Le conseguenze sono enormi. Sulla fisica come sull’epistemologia, sulla chimica come sulla filosofia. L’idea di un eterno ritorno di natura fisico-meccanica sembra definitivamente affondata. Vengono recuperate le intuizioni antinewtoniane di Hegel e la causa formale di Aristotele. Il tutto si riappropria del suo valore rispetto alla somma delle parti. La Natura si reincanta nell’enigma del tempo. L’essere si mostra e si fa intuire in tutta la sua complessità non riducibile a schemi troppo semplici e univoci. «Noi pensiamo che la scienza oggi abbia rotto con il mito newtoniano perché ha teoricamente concluso che è impossibile ridurre la natura alla nascosta semplicità di una realtà governata da leggi universali. La scienza dei nostri giorni ha riscoperto il tempo e il pluralismo» (56).

Fra formule intricate, schemi e reazioni chimiche, citazioni da Lucrezio, nella costante vivacità della scrittura, questo libro è un’ottima introduzione al lavoro scientifico più avanzato e più critico.

Il senso e la narrazione

Giuseppe O. Longo
Springer-Verlag Italia, 2008
Pagine XVIII-214

Condensare molto di ciò che si è imparato e che si è vissuto. E farlo non soltanto esponendo dei contenuti ma anche e soprattutto trasformando la propria scrittura in una dimostrazione di ciò che si sostiene, della tesi per la quale «sopprimere la narrazione non è possibile», poiché «gli umani sono creature della comunicazione» (pp. 164 e 1). L’impresa teoretica e letteraria di coniugare in modo rigoroso e appassionato il dire e i suoi modi è a Longo perfettamente riuscita.  In questo libro si intersecano, infatti, «matematica e poesia (…) estremi opposti della possibilità linguistiche» (p. 45), si uniscono competenze scientifiche di prim’ordine con una critica dura ma sempre argomentata alle pretese del linguaggio scientifico di esaurire l’ambito del dicibile, si trae il meglio dal monoteismo logico e matematizzante del metodo occamista e galileiano ma si punta decisamente al politeismo dei segni, a quell’impero di varianti, di molteplicità, di disseminazioni che è il reale. Un regno che noi stessi -dispositivi semantici- costruiamo respirando, vivendo, immergendo i corpi che siamo nel mare del senso, che è anche il luogo nel quale il presente scaturisce dai ricordi passati e dalle intenzioni future.
La nostra mente non si limita a registrare eventi, a incamerare dati, a collezionare percezioni ma partecipa attivamente alla costruzione del mondo. La dicotomia tra il soggetto e la realtà è uno degli ostacoli più persistenti e più gravi che si oppongono alla comprensione di quel sistema complesso di segni e processi dentro il quale esistiamo. Il limite forse più consistente delle scienze -quello dal quale scaturiscono anche gli altri- sembra abitare proprio qui: nell’approccio paradossalmente acritico con il quale esse pensano il vero. In realtà, anche le scienze sono forme dell’interpretazione. Il luogo da cui esse germinano è il soggetto nelle sue relazioni storiche, concettuali, professionali, economiche. La “libertà di ricerca”, ad esempio, trova il suo limite e le sue condizioni nei finanziamenti del capitale, nella capacità dei ricercatori di ottenere consenso e collaborazione, negli specifici modelli dentro i quali nascono i progetti e le ipotesi, negli scopi operativi e commerciali ai quali la ricerca serve, nell’utilizzo ideologico -e cioè esterno al proprio specifico ambito- della “scienza” come visione generale del mondo, nella stratificazione millenaria dei saperi. Anche di quelli che il metodo scientifico reputa oggi falsi -origini che tenta di nascondere come fanno i parvenu con i parenti più prossimi…- ma dai quali esso stesso è scaturito poiché «la scienza quantitativa e matematizzata oggi vincente si è distillata in un crogiolo ribollente di scorie, passioni e credenze, dalla quali ha tratto la sua forza creativa» (p. 11). Invece di ammettere con spirito davvero scientifico queste proprie origini, i ricercatori erigono spesso tribunali e barriere, costringendo chi voglia praticare le scienze ad abiure, ad autocensure, a forme di pensiero unico, poiché «la scienza seria è, per definizione, dei riduzionisti, quella dei riduzionisti» (p. 155).
Longo non dubita della fecondità di risultati e della potenza euristica del metodo galileiano ma sostiene che al di là degli ambiti e degli enti che le scienze quantitative sono in grado di cogliere e spiegare, c’è il mondo qualitativo dei soggetti, delle sensazioni, delle passioni e delle storie. Un mondo che il linguaggio matematico è per sua stessa definizione impossibilitato a indagare e sul quale quindi sono altri i linguaggi che possono far luce, mondi che vivono di tempo e che solo il narrare può dunque spiegare: «Norbert Wiener osservò che l’impoverimento associato alla formalizzazione sarebbe devastante per discipline che, come l’antropologia, la sociologia e la psicologia, si occupano di entità (umane) complesse, immerse in una rete di relazioni essenziali, molteplici e stratificate e in una storia imprescindibile. Per molte discipline (psicologia, sociologia, antropologia) è molto più adeguata un’impostazione di tipo “narrativo”, basata sui casi particolari, sugli eventi, anche sugli aneddoti, che non un’impostazione formalistica che ne ridurrebbe l’oggetto, complesso e sfaccettato, a una caricatura per difetto» (p. 69). La necessità del narrare non è una questione di stile o di comunicazione. È una necessità intrinseca alla scienza stessa, se intende comprendere la realtà. Perché la realtà è fatta di tempo. Alla staticità eleatica, al pensiero che reputa impura ogni contaminazione con il tempo, va opposta la verità mobile e cangiante che intride di sé ogni ente, evento e processo.

[Consiglio di ascoltare una breve e interessantissima intervista radiofonica rilasciata da Longo a proposito dei temi affrontati nel libro. Una versione più ampia di questa recensione si può leggere in Nuova Civiltà delle Macchine, anno XXVI, numero 1/2008, pagine 108-109]

Etologia umana

Irenäus Eibl-Eibesfeldt
ETOLOGIA UMANA
Le basi biologiche e culturali del comportamento

(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554

«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (pag. 4) dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è costitutiva della nostra specie. «La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte delle pedagogia, psicologia e sociologia» (380).
L’unità profonda di corpo e psiche fa sì che la cultura sia «per l’uomo una seconda natura e ciò influisce in maniera determinante sul destino della nostra specie» (441). L’invenzione della cultura ha aperto nuove prospettive nel percorso umano, tanto che Eibl-Eibesfeldt arriva a ritenere probabile «che cambiamenti culturali dello stile di vita possano indurre in futuro anche cambiamenti genetici; a favore di questa ipotesi vi sono già buoni indizi» (12). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la creatività, l’eticità, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (437) a condizione che si riesca a sopravvivere.

La gravità della condizione umana oggi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, contro l’esplosione demografica del Novecento -quando è chiaro che «se proseguirà anche in futuro la crescita esponenziale della popolazione terrestre, che fino ad oggi sembra inarrestabile, si profila per i prossimi decenni una catastrofe generale» (IX)- contro il potere delle immagini televisive -fenomeno evidentemente nuovissimo e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi anche se è possibile fin d’ora coglierne i rischi di omologazione politica e culturale. Vicino alle riflessioni di Nietzsche, l’antropologo indica il compito primario della scienza -oggi- nell’«insegnare a pensare rigorosamente, a giudicare prudentemente e a ragionare conseguentemente», dando spazio alle speranze evolutive della specie «purché lo sviluppo della ragione umana non si arresti!». (Umano, troppo umano I, af. 265 e Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra , af. 183). Anche Eibl-Eibesfeldt, infatti, individua nell’ethos scientifico «l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (477). Non a caso l’autore conclude il suo libro ricordando la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” » (479).

Il metodo utilizzato da Eibl-Eibesfeldt è quello comparativo, reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Verso di loro lo studioso rivolge uno sguardo scientifico e oggettivo ma anche e soprattutto empatico e partecipe: «al loro ricordo provo un forte senso di nostalgia per quella che è stata quasi la mia seconda patria» (459).

A Disappearing Number

di Simon McBurney
Teatro Strehler – Milano
Con: Compagnia Complicite
Scene Michael Levine
Musica Nitin Sawhney
Regia di Simon McBurney

Srinivasa Ramanujan (1887-1920) è stato uno dei più grandi matematici di ogni tempo. Bramino molto povero originario del Tamil, autodidatta, si rivolse ad alcuni professori di Cambridge ricevendo risposta solo da G.H.Hardy, con il quale iniziò una feconda collaborazione. Fra i molti temi sui quali Ramanujan aprì delle prospettive del tutto nuove c’è l’infinito. Ed è su questo concetto che si incentra uno spettacolo bellissimo, percorso da humour britannico e capace di rendere intuibili problemi matematici di grande complessità.
McBurney, autore e regista, riesce con mezzi tecnici di grande semplicità ma di estrema suggestione a far interagire la vita, i luoghi, i tempi di Ramanujan-Hardy con quelli della Londra contemporanea dove vivono Ruth e Alex, lei docente di matematica e lui agente finanziario.
E il risultato è la possibilità di vedere i numeri, di capire che essi costituiscono il tessuto del mondo, la razionalità e insieme l’imprevedibilità dell’essere. E di confermare quanta ragione avesse la saggezza arcaica di Pitagora e di Platone nell’identificare nel numero la vera struttura della materia.

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