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Sul tempo della fisica

I MISTERI DEL TEMPO
L’universo dopo Einstein
(About Time, Orion Productions 1995)
di Paul Davies
Trad. di Elisabetta Del Castillo
Mondadori, 2011 (1996)
Pagine IX-345

Un enigma, certo, una questione tanto fondamentale quanto intricata. Ma il tempo è alla nostra portata. Ne possiamo comprendere in gran parte natura, strutture, fondamenti e conseguenze. Ci sono però alcune condizioni per riuscirvi. Una di esse è riconoscere che il tempo non è unitario ma molteplice. Nessuna scienza da sola, nessun sapere isolato, nessuna metodologia esclusiva ed escludente possono comprendere la ricchezza dell’ontologia plurale di cui il tempo è fatto.
Davies si muove tra il riconoscimento, seppur forzato, di tale molteplicità e la ricaduta costante in un fisicalismo che si preclude il suo stesso oggetto e che -peggio ancora- allude con disprezzo ad altre ermeneutiche del tempo. Da un lato, infatti, ammette che «l’evidente discrepanza tra tempo fisico e tempo soggettivo o psicologico» induce a «concludere che si perde qualcosa di essenziale, che un’ulteriore qualità del tempo rimane esclusa dalle equazioni, o che addirittura esiste più di un tipo di tempo» (pp. 316 e 8). E tuttavia a questa intuizione del tutto corretta si accompagnano giudizi davvero sbrigativi e sprezzanti nei confronti della filosofia, compresa la riflessione originaria che i Greci dedicarono al tempo. Ma è la forza stessa del problema che induce Davies ad ammettere i limiti della fisica: «Mi pare che vi sia un aspetto del tempo di grande rilevanza che abbiamo di gran lunga trascurato nella nostra descrizione del mondo fisico» (307). Tali limiti consistono in primo luogo in una concezione “bloccata” del tempo, la cui natura dinamica viene negata per la ragione che le equazioni di Newton e di Einstein sono indifferenti alla direzione del tempo. Anche la teoria dei quanti, soprattutto la teoria dei quanti, è del tutto atemporale; «infatti, in questa teoria, per uno stato quantistico tipico, il tempo è semplicemente privo di significato» (198). Anche se va detto che questo non è del tutto vero. Infatti, «se diamo credito alla meccanica quantistica, sembra che le leggi microscopiche della fisica non siano necessariamente reversibili. Il collasso della funzione d’onda è un processo che introduce un’intrinseca freccia del tempo nelle leggi della fisica: le funzioni d’onda collassano, ma non de-collassano»; in altri termini, «la misura quantistica è un processo che definisce una freccia del tempo: una volta fatta la misura, non si può tornare indietro. E questo è un mistero»1.

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L’Università (s)valutata

3+2, CFU (Crediti Formativi Universitari pari a 25 ore ciascuno), debiti formativi, GEV (Gruppi Esperti Valutazione), VQR (Valutazione della qualità della ricerca). Le parole sono tutto. E quelle che ho indicato sono alcune delle espressioni dominanti nel linguaggio accademico contemporaneo. Una vera e propria neolingua imposta alle università italiane ed europee da una penosa scimmiottatura delle modalità e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America. Paese, è bene ricordarlo, dove a pochi e costosissimi centri di eccellenza si contrappongono migliaia di università che valgono assai meno di un buon liceo italiano.
Un linguaggio contabile, bancario, aziendalistico che si pone l’esplicito obiettivo di formare non dei cittadini pensanti ma degli impiegati e dei funzionari del pensiero unico mercantile e capitalistico; una realtà che ha danneggiato prima di tutto gli studenti, costretti ad accumulare “crediti formativi” come fossero punti del supermercato, studenti sempre più trafelati nello studio e dunque inevitabilmente superficiali nella preparazione.
Adesso tocca ai docenti. Entro il 25 di questo mese di marzo 2012, infatti, ciascun professore e ricercatore dovrà indicare da uno a tre fra i lavori pubblicati dal 2004 al 2010, i quali saranno sottoposti ai GEV, dalla cui valutazione dipenderanno i futuri finanziamenti di ogni Ateneo. Fuori dall’Università si sa poco o nulla di tali pratiche; ecco perché ne scrivo anche qui.
Non è forse tutto questo un principio di giustizia e di riconoscimento del merito di chi ha ben studiato, scritto, fatto ricerca? Lo sarebbe, certo, se i criteri fossero trasparenti, rispettosi della specificità delle diverse aree del sapere, miranti a incoraggiare gli studi più rigorosi, innovativi, non conformisti. E invece la realtà è esattamente l’opposto. L’obiettivo è discriminare le Università in relazione all’acquiescenza dei loro membri al potere accademico, politico, editoriale.
Lo si può comprendere leggendo alcuni documenti di diversa fonte, dai quali riporto dei brani invitando a una lettura integrale tramite i link. Ripeto quanto scrissi qualche tempo fa: non è questione di studenti, professori, accademie. È questione del futuro e del presente di un pensiero libero, che non riduca il sapere e la ricerca a servi del sistema economico-politico dominante.

«Che cosa sta succedendo in questi giorni nell’Università italiana? In base alla “riforma” Gelmini (assunta in toto dal governo Monti) si è aperto, nel sacro nome del Merito, il capitolo della Valutazione, pomposamente denominato Vqr (“Valutazione sulla qualità della ricerca”). […]
Aree e linee di studio, in taluni casi intere discipline, saranno discriminate, con gravi limitazioni, di fatto, della libertà e del pluralismo. Non solo. Siccome la Valutazione si muove sulla base di sistemi a numero chiuso (per esempio, si stabilisce in partenza il rapporto percentuale tra le riviste di fascia A e quelle collocate nelle fasce inferiori), si produrrà un esito di frustrazione, non di stimolo: poiché è materialmente (e “politicamente”) impossibile che tutti pubblichino su riviste A, agli altri (spesso esclusi perché estranei al mainstream o per ragioni di non-appartenenza a forti cordate accademiche) si trasmetterà un messaggio molto chiaro: “non vale la pena che vi affatichiate, tanto…”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di puro autolesionismo, cioè di stupidità: alle università e al governo dovrebbe interessare stimolare l’attività, non già deprimerla. Ma sarebbe – temiamo – un’obiezione ingenua. Come dicevamo, la Valutazione è un’arma; il proposito è (anche) quello di neutralizzare voci scomode (o soltanto periferiche), concentrando risorse e poteri nelle mani di ristrette cerchie di “ricercatori eccellenti”. Da questo punto di vista, svalutare (e scoraggiare) è utile quanto premiare. Tanto più che l’Università pubblica è costosa e deve “dimagrire” – sappiamo a vantaggio di chi. […]
Aggiungiamo qualche osservazione in merito alle conseguenze micidiali (e di dubbia legittimità) che questo sistema genererà a danno della piccola e media editoria. Far valere (di diritto o di fatto: come dicevamo, una caratteristica di tutta questa faccenda è la scarsissima trasparenza proprio in merito ai criteri di giudizio) una graduatoria tra le case editrici significa, in sostanza, impoverire il panorama culturale dell’intero Paese e renderne agevole la colonizzazione da parte di poche imprese private (e dei potentati accademici). […]
In sostanza, alcuni rispettabili imprenditori privati potrebbero presto diventare i Signori della ricerca scientifica italiana, poiché dalle loro insindacabili decisioni dipenderà la sanzione della qualità delle pubblicazioni, con tutte le conseguenze che da ciò discendono. E se a loro la Valutazione conferirà il tocco di Creso (qualsiasi schifezza avranno deciso di pubblicare potrà miracolosamente trasformarsi in una pietra miliare del progresso scientifico), una pietra tombale verrà invece posta sugli “sfigati” editori piccoli e medi, ridotti al rango di diffusori di merce di scarto.
Questi sono, ci pare, alcuni prevedibili – e già, in parte, attuali – effetti perversi della Valutazione. Su di essi (nonché sui gravi conflitti d’interesse inerenti a giudizi formulati da soggetti inclusi nella platea valutata) varrebbe la pena di confrontarsi prima che un sistema varato con il pretesto della meritocrazia sancisca definitivamente l’emarginazione di posizioni eterodosse e lo strapotere di grandi editori e lobbies accademiche».
(Alberto Burgio – Maria Rosaria Marella, Università, la Valutazione sbagliata, il manifesto, 21.3.2012 )

«Contro l’ERIH e la “valutazione dei tecnocrati” che secondo alcuni esso incarna, si assiste in questi giorni al capitolo forse più qualificato della continua, esasperata e taciuta serie di contestazioni che serpeggia da anni in Europa nella ricerca e nella formazione superiore. Dopo l’“onda” italiana e le rivolte sociali in Grecia, di cui l’università è stata ancora una volta epicentro, ecco in Gran Bretagna l’“Independent” del 22 gennaio dedicare una pagina indignata ad accusare i meccanismi bibliometrici del RAE di favorire tra l’altro “miopia intellettuale […], guasta convenzionalità […], e disonestà generalizzata”. Negli stessi giorni l’ERIH è stato costretto a ritirare la sua classificazione delle riviste, dopo che i direttori di 61 riviste internazionali di storia della scienza e di filosofia hanno dichiarato che avrebbero aperto il prossimo numero con un editoriale contenente la richiesta di non indicizzarle: “Non vogliamo avere parte in quest’attività pericolosa e sbagliata” (in “un universo in cui tutto” è destinato a “dar luogo a […] hit-parades”, come si legge nell’editoriale dell’ultimo fascicolo della “Revue philosophique”). Ancora, è di questi giorni in Francia una rivolta profonda –di cui qui non giunge notizia– contro le nuove leggi Sarkozy sull’università, incentrate sulla valutazione. Il “Nouvel Observateur” del 14 febbraio intitola: Une période de glaciation intellectuelle commence»
(Valeria Pinto, Sulla valutazione, dagli Atti di un Convegno svoltosi a Napoli nel 2009)

«Quanto tale immagine sia “realistica” lo si può constatare osservando le liste prodotte per Filosofia teoretica (ricavabili dalle attribuzioni tra parentesi nella lista unificata), che confermano tutte le precedenti riserve espresse dalla SIFIT [Società italiana di filosofia teoretica] sulla possibilità di produrre ranking sensati nei termini imposti alle Società. Si tratta di una selezione ampiamente arbitraria, dove si segnalano presenze incongrue e nella quale, viceversa, non sono neppure presenti riviste che ospitano una ampia percentuale della produzione dei docenti del settore. Il risultato, oggettivo, è l’assenza di rispetto per le pratiche riconosciute in una comunità scientifica. […]
Di fronte a questo stato di cose, la SIFIT non riconosce validità, anche solo orientativa, a quanto indicato nel documento GEV e respinge come una grave distorsione l’uso degli strumenti proposti, del tutto inidonei a favorire una valutazione fondata».
(Comunicato della SIFIT sui “Criteri” del GEV area 11, 29.2.2012)

E già

di Battisti-Velezia
da E già (1982)

 

Una delle canzoni più prospettivistiche ed ermeneutiche della storia della musica.

«E già che la verità
è solo un’immaginazione
che una certezza propria non ha,
ti puoi avvicinar e questo servirà
ma è sempre un’interpretazione
finché il contrario non accadrà»

Un testo certamente nietzscheano e quasi popperiano: «usando il metodo scientifico: osservazione-analisi-esperimento» si perviene a una verità che è tale solo sino a prova contraria.
Tutto questo su una base musicale synthpop che utilizza sintetizzatori elettronici capaci di creare un effetto di gaia scienza.

[audio:Battisti_E_gia.mp3]

L'Università che vogliamo

Due docenti universitari hanno redatto un appello -rivolto al ministro Profumo e a Monti- che sta ricevendo adesioni molto numerose. L’ho sottoscritto anch’io poiché mi sembra che descriva con realismo la situazione in cui ci siamo cacciati e proponga delle vie d’uscita. Vi si stigmatizza, infatti, la progressiva burocratizzazione: «Si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo le Università europee sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà –docenti, studenti, personale amministrativo– è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici». Un fenomeno che gli studenti dell’Ateneo dove insegno ben conoscono, dato che ogni anno vengono loro imposte modifiche anche radicali ai piani di studio, le quali creano una confusione enorme che sono i ragazzi a scontare, prima e assai più che i docenti.
Si condanna il cosiddetto «processo di Bologna», voluto nel 1999 dall’allora ministro Luigi Berlinguer (di infausta memoria) e sostenuto poi dai suoi successori. Tale modello ha infatti «rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l’autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società».
Un fallimento che l’appello giustamente riconduce al modello statunitense: «Ma a dispetto dell’immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte  strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande  ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. […] Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l’erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto».
Per avviare la «fuoriuscita dal modello liberistico di un’Europa ormai sull’orlo del collasso» il testo formula proposte molto concrete e di buon senso, tra le quali:
«Abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall’organizzazione degli studi e ripristinare  i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli».
«Abolire i crediti (i famigerati CFU) come  criteri di valutazione degli esami».
«Noi crediamo giusto che l’Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. […] L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano».
«Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori […] Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d’Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà», compresa quella in cui insegno, i cui studenti hanno visto la cancellazione da un giorno all’altro di materie da loro scelte al momento dell’iscrizione.
«È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università», poiché il senso della docenza universitaria affonda nella ricerca e nello studio quotidiano (“da mattina a sera”), aggiornato e scientifico e non nella burocratizzazione e nella quantificazione espressa da un lessico non a caso mercantile (debiti e crediti).
Consiglio di leggere con attenzione e per intero il Documento. La questione universitaria non riguarda i docenti e neppure soltanto gli studenti che frequentano per alcuni anni gli Atenei, ma è un ambito la cui struttura e il cui funzionamento ricadono sull’intero corpo sociale, su tutti.

[Invito a leggere anche un successivo intervento e i relativi commenti: L’università (s)valutata]

Kuhn

Thomas Kuhn
La struttura delle rivoluzioni scientifiche
Come mutano le idee della scienza
(The Structure of Scientific Revolutions, 1962 e 1970 by The University of Chicago).
Trad. di Adriano Carugo
Einaudi, Torino 1969-1978
Pagine 251

Pubblicato per la prima volta nel 1962, questo libro ha rappresentato una svolta radicale nella percezione del lavoro scientifico e ha suscitato un dibattito intenso e costante che dura ormai da cinquant’anni, dibattito al quale lo stesso autore ha portato il suo contributo attraverso un Poscritto del 1969 inserito nella quarta edizione italiana. Il concetto base da cui si dirama la riflessione di Kuhn è quello di paradigma: con tale termine vengono indicate «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca» (pag.10).
Intorno ai paradigmi ruotano la nascita, il consolidarsi, le crisi della forma di sapere che chiamiamo “scienza”. Paradigmi accettati, utilizzati e praticati universalmente caratterizzano i periodi di scienza normale, finché non avviene un salto, una rottura, un radicale mutamento, una rivoluzione scientifica. Le più note sono l’eliocentrismo copernicano, il rinnovamento della chimica operato da Lavoisier, le diverse dinamiche e prospettive cosmologiche di Galileo, Newton, Einstein, ciascuna tendente a sostituire la precedente.
Come e perché avvengono in determinati momenti tali cambiamenti, queste rivoluzioni? Secondo Kuhn esse sono determinate anche da crisi culturali e storiche più ampie del campo scientifico propriamente detto. E fa l’esempio dell’eliocentrismo che, storicamente marginale al tempo di Aristarco (III sec. a.C.), in quello di Copernico si inserì in un più generale moto di rinnovamento culturale. È l’analisi delle modalità del cambiamento a costituire la maggiore originalità di Kuhn. Egli rifiuta totalmente le prospettive cumulative secondo cui «la transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale» si attuerebbe «attraverso un’articolazione o una estensione del vecchio paradigma» (111).
Si tratta piuttosto -ribadisce più volte Kuhn- di «una ricostruzione del campo su nuove basi» (ibidem), di un «passaggio tra incommensurabili» (182), di un cambiamento del modo di vedere il mondo e persino del mondo stesso. In pratica, «i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti» (182). Da ciò deriva la concreta impossibilità della comunicazione, la quale fa sì che -come scrisse Max Planck- una nuova verità scientifica non si affermi attraverso la persuasione degli avversari ma a causa della loro morte e della crescita di nuove generazioni a essa abituate e disponibili.
Kuhn osserva che nei manuali scientifici -e nella complessiva formazione dello scienziato- non rimane praticamente traccia di tali drammatici percorsi. L’autorità scientifica tende a nascondere sistematicamente «in parte per importanti ragioni funzionali, l’esistenza e il significato delle rivoluzioni scientifiche» (166), offrendo quanto più possibile l’impressione di un processo continuo e cumulativo «muoventesi in linea retta verso lo stato attuale» (201), in un indefinito cammino verso il progresso. Ciò avviene anche attraverso la rimozione di ogni seria prospettiva storica, con l’abbandono dello studio dei classici della propria disciplina, con un tipo di formazione «rigido e limitato» che somiglia a quello della «teologia ortodossa» (199). Tutto ciò è possibile anche per la natura esoterica del sapere scientifico il quale può rimanere chiuso e distante nei confronti del mondo dei profani e della vita quotidiana.
Nel Poscritto Kuhn rifiuta le accuse di irrazionalismo e relativismo che gli furono mosse, affermando la sua convinzione che le teorie scientifiche posteriori siano migliori di quelle anteriori ma solo in quanto strumenti più perfezionati per la soluzione dei rompicapo da cui scaturisce il primo stimolo alle rivoluzioni, e non in quanto le nuove teorie -i nuovi paradigmi- fornirebbero una migliore rappresentazione di ciò che la natura realmente è.
La natura rimane in ogni caso al di là, le analisi fisiche, chimiche, biologiche sono solo un nostro modo di indagarla. La conoscenza scientifica, in definitiva, è un particolare linguaggio adottato da un certo gruppo umano (251). Delle scienze è possibile un’analisi semantica e sociale. La pretesa di raggiungere la verità sulla natura rimane per esse troppo grande.

Ipazia

Teatro Libero – Milano
Il sogno di Ipazia
di Massimo Vincenzi
Con Francesca Bianco
Voce fuori campo di Stefano Molinari
Musiche di Francesco Verdinelli
Regia di Carlo Emilio Lerici
Sino al 31 ottobre 2011

Una donna sola sulla scena. In mezzo ai libri. I libri che vorrebbe salvare dalla furia di coloro che parlano in nome di un dio ignorante, che riducono il divino a temere le parole degli umani e quindi a perseguitarle, ferirle, bruciarle. Ma «il pensiero non brucia» ripete Ipazia. E a distanza di sedici secoli la voce di questa donna è viva. Sono vive, certo, anche le parole dei discendenti di coloro che la linciarono con delle conchiglie affilate, che fecero scorrere il suo sangue e ridussero a brandelli la sua carne mentre risuonavano «le grida, le grida che mi investono. Le grida della loro sconfitta». E qui il climax della solitudine e della violenza subìta si capovolge nel disprezzo verso coloro, i cristiani, che hanno creato un dio a immagine e somiglianza del loro rancore, della loro miseria, delle loro paure.
Ipazia entra invece in scena con un sorriso di fiducia nella vita, di curiosità verso il suo enigma, di serenità per l’ordine nascosto del mondo. Le sue parole raccontano dell’ultimo giorno che visse, del suo sogno di proteggere i libri della grande biblioteca che i seguaci di Cristo invece bruceranno, della progressiva angoscia per il male che arrivava, della sua morte e della sua rinascita in quanti non hanno dimenticato l’intelligenza e la determinazione di questa donna antica.
Il racconto viene accompagnato dalle parole -del tutto reali- degli editti imperiali che in un crescendo di violenta intolleranza proibiscono ogni culto e azione ai pagani. E dalle parole di San Cirillo, il vescovo di Alessandria che fu il mandante del massacro. Devono essere ben miserabili questi cristiani se hanno avuto così tanta paura di una donna sola. Una donna che afferma sin dall’inizio «lo studio è tutto». Perché  cercare di comprendere l’essere è il senso stesso dell’animale umano, come volare alla ricerca di cibo è il senso stesso dell’esserci di un’aquila.
Francesca Bianco dà voce e corpo a questo sogno che diventa incubo di sangue per tornare a essere il calmo profilo di Ipazia che alla fine si staglia sulla scena. Lei viva, i suoi massacratori morti ancor prima d’essere nati.

Lo sguardo umano

Abdel Kechiche
Venere nera
(Venus noire)
Con: Yahima Torrès (Saartjie), Andre Jacobs (Caezar), Olivier Gourmet (Réaux)
Francia-Italia-Belgio, 2011
Trailer del film

Nel 1810 a Londra una donna del Sudafrica viene esposta come fenomeno da baraccone. Il suo guardiano domatore la mostra al pubblico in una gabbia da cui la tira fuori come fosse una selvaggia, suscitando un’esitazione eccitante. È la Venere ottentotta. Pochi anni dopo, a Parigi, la donna viene presentata in feste aristocratiche più o meno licenziose. L’eco dello spettacolo arriva ai naturalisti dell’Università che pagano i suoi padroni per studiarne il corpo e misurarne ogni dettaglio, soprattutto le grandi natiche e la particolarissima estensione delle piccole labbra della vulva. Quando la donna rifiuta di mostrarsi completamente nuda agli scienziati viene picchiata dai suoi sfruttatori. La degradazione subita la conduce a un bordello e poi per le strade, sino a che sifilide e tubercolosi non la uccidono. Questa la vicenda di Saartjie Baartman. Il corpo venne venduto dopo la morte agli stessi naturalisti che non erano riusciti a studiarla in vita come pretendevano. Un calco dell’intera persona a grandezza naturale, gli organi genitali e il cervello conservati nella formalina costituirono oggetto di lezione di anatomia razziale da parte di insigni studiosi, tra i quali Georges Cuvier. Costoro affermarono con sicurezza che la conformazione del cranio, del volto e del sedere di questa “femmina” la avvicinava assai più all’orangotango che all’Homo sapiens sapiens. Soltanto nel 2002 i resti e lo scheletro di Saartjie vennero restituiti al Sudafrica e trovarono finalmente sepoltura.

Il film si chiude proprio sulle immagini reali dell’arrivo delle spoglie di Saartjie Baartman in Africa. Si apre, invece, su una lezione tenuta da Cuvier, nella quale lo scienziato espone le proprie opinioni razziste come un dato del tutto evidente, empiricamente e razionalmente evidente. Merito non piccolo di questo film è dunque contribuire a smascherare ancora una volta la presunta neutralità delle scienze dure, le quali in realtà -come tra gli altri Foucault e Kuhn hanno dimostrato- costituiscono uno dei più formidabili strumenti al servizio del potere degli Stati e dei pregiudizi diffusi nelle società. Ma non è questo a dare senso e valore al film. Neppure lo è la critica al razzismo che intride la storia europea come quella di tutti gli altri continenti e civiltà. La magia di Venus noire sta nell’essere una descrizione dello sguardo umano. Non succede infatti nulla in questo film. Tutto quello che accade è dentro e intorno al corpo di Saartjie, nei suoi occhi. Il suo sguardo rimane sempre colmo di una profonda dignità, qualunque cosa accada, anche quando viene toccata, derisa, violata non soltanto dalle mani degli altri ma anche e soprattutto dai loro sguardi famelici, sprezzanti, curiosi, lascivi, violenti, umilianti, volgari, arroganti, avidi, gelidi. Lo sguardo di Saartjie e quello di tutti gli altri appaiono in un tessuto di primi e primissimi piani scolpiti da una cinepresa in moto perpetuo, che mostra come lo sguardo umano sia uno sguardo di ferocia.

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