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Il corpo nel rapporto educativo

Il «Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio» dell’Università dell’Insubria (Varese) prevede un corso dedicato a Scienza e fantascienza nei media e nella letteratura, tenuto dal Prof. Paolo Musso, docente di Filosofia teoretica.
Il corso organizza dei seminari che quest’anno sono collegati anche al Congresso mondiale di astronautica, che si tiene a Milano dal 14 al 18 ottobre. Nell’ambito di questo Congresso il 18 ottobre 2024 si svolgerà a Varese una giornata di studi sul «futuro della comunicazione» nella quale terrò una relazione dal titolo Il corpo nel rapporto educativo.
Sosterrò, in sintesi, che il fondamentale legame tra educazione e corporeità rende insostituibile la didattica in presenza. Docenti e studenti non costituiscono infatti dei pixel su un monitor ma sono dei corpimente che soltanto nello spaziotempo fisico possono incontrarsi, dialogare, formarsi e crescere.

 

Babilonia

Babilonia
Aldous
, 3 settembre 2024
Pagine 1-2

La natura profondamente teologica dell’opera narrativa e drammaturgica di Friedrich Dürrenmatt si esprime nei temi, nel lessico, nel significato complessivo dei suoi singoli romanzi, racconti, commedie e drammi. A volte però lo fa in modo palese e diretto, come nel caso di Un angelo è sceso a Babilonia.
Può una commedia scritta nel 1953, i cui protagonisti sono Nabucodonosor, mendicanti babilonesi, angeli e mercanti, può un simile testo parlarci del nostro presente? Può descrivere politici, funzionari, professori, medici, giornalisti, albergatori, bidelli contemporanei? Sì, può. La torre della ὕβρις politico-moralistica nella quale siamo immersi emerge vivida da una commedia che testimonia che cosa sia il grande teatro del Novecento.

I fisici

Friedrich Dürrenmatt
I Fisici
(Die Physiker, 1962-1985)
A cura di Aloisio Rendi
Einaudi, 1988
Pagine 87

Insieme alle matematiche la fisica è espressione di un supremo ordine nelle scienze e nel mondo. E tuttavia l’esistenza è anche e soprattutto una forma di disordine, come la termodinamica (che è parte della fisica) efficacemente mostra. Tale ambiguità interna al mondo e dunque anche alla fisica appare manifesta nella vicenda di tre fisici pazzi chiusi in un manicomio di lusso, dei quali due si credono rispettivamente Newton e Einstein e il terzo dichiara di ricevere le sue formule, conoscenze e leggi dal Re Salomone che sempre gli appare.
Si chiama Möbius, quest’ultimo, e le carte che Salomone gli ispira costituiscono la soluzione nuova e del tutto sconvolgente della teoria del campo come teoria unitaria delle particelle elementari, della legge di gravitazione, del sistema di tutte le invenzioni possibili. I tre fisici uccidono, strangolandole, le infermiere che li hanno in cura. Durante il serrato dialogo che accompagna una cena emergono in realtà le ragioni di questi assassini, il cui «scopo è il progresso della fisica» (p. 68). Nessuno di loro sembra quindi realmente folle. Ai due colleghi che si trovano in quel luogo perché hanno il compito di carpire i segreti di Möbius, quest’ultimo dichiara che ha dovuto fingersi pazzo per evitare che le sue scoperte e teorie offrissero all’umanità, agli Stati, ai governi una potenza distruttiva senza pari. «La nostra scienza», infatti, «è divenuta terribile, la nostra ricerca pericolosa, le nostre scoperte, letali. […] Solo nel manicomio siamo ancora liberi. Solo nel manicomio ci è ancora permesso di pensare. In libertà, i nostri pensieri sono dinamite» (70). Finta è dunque questa follia? Forse. Ma la direttrice del manicomio, la dottoressa Mathilde von Zahnd – una vergine gobba -, appare più folle di loro e si appropria delle conoscenze di Möbius, credendo forse davvero che gliele abbia rivelate il Re Salomone.
Questo vortice di razionalità paradossale e di ordinata follia è sotto il segno del grottesco e del caso ma la sua scrittura da parte di Dürrenmatt è motivata nel sedicesimo dei «21 punti su ‘I fisici’», il quale recita: «Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti» (83). Effetti che nascono dalla follia non dei fisici ma del mondo. È infatti «nel paradosso [che] si rivela la realtà» (punto 19, p. 84).
Ancora una volta scintillante e tragico, Dürrenmatt.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

Scienza e Covid

Scienza e Covid
in Vita pensata
n. 28, aprile 2023
pagine 15-20

Indice
-Epistemologie
-Feyerabend
-Scienze e storia
-Miti e razionalità
-In difesa della scienza

In questo saggio ho riassunto alcune delle tesi di Disvelamento. Nella luce di un virus ma ho cercato anche di andare oltre, in particolare nell’analisi del rapporto tra sapere scientifico ed epidemia Covid19.
Le posizioni di vari scienziati, medici, filosofi e storici hanno attinto ai risultati più avanzati dell’epistemologia contemporanea, che è profondamente consapevole della fecondità e dei limiti di ogni approccio al reale, della necessità di avere sempre un atteggiamento critico e prudente ai problemi, ai metodi e ai protocolli, se si vogliono salvaguardare i risultati della conoscenza razionale del mondo. Una conoscenza che non può essere dogmatica, pregiudiziale, superficiale, autoritaria. Vale a dire non deve avere i caratteri del senso comune e delle religioni ma deve mettere in atto una serie di pratiche all’altezza della complessità dei problemi.
Come nel libro del 2022, ho cercato quindi di difendere le scienze e la razionalità dalla loro dissipatio, dal loro svanire nei meandri della politica e dello spettacolo. Paul Feyerabend sostiene che «l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (Contro il metodo, pp. 38-39). E questo anche perché le scienze hanno a fondamento:
-il rifiuto di ogni fanatismo
-la diffidenza verso il principio di autorità
-la necessità di verifiche accurate e pubbliche di tutto ciò che si sostiene
-la ripetibilità delle procedure
-il ragionamento oggettivo su dei dati quanto più possibile accurati, estesi, condivisi.
E invece la vicenda dell’epidemia Sars-Cov2 è un esempio di oscurantismo culturale, che ha cercato di trasformare la scienza in una superstizione, pratica e atteggiamento da sempre utilizzato da parte di chi comanda, capace di trasformare gli scienziati in maghi al servizio dell’autorità politica. Tutto questo costituisce un grave regresso dello spirito scientifico nelle società occidentali, rappresenta la cancellazione o l’oblio delle più raffinate e argomentate tesi dell’epistemologia, alle quali si è sostituito un rozzo positivismo, come se da Auguste Comte al XXI secolo nulla fosse accaduto.
Nei confronti delle scienze (al plurale) non si deve nutrire fede ma argomentazione, critica, falsificazione, superamento, interrogativi. Nei confronti delle scienze si deve esercitare ciò che un dispotico regime ambulatoriale sta cercando di negare. Senza riuscirci, per fortuna, grazie anche all’atteggiamento scientifico di alcuni dei suoi oppositori.
Nello stesso numero 28 di Vita pensata – dedicato appunto alle Scienze con interventi qualificati e rigorosi di filosofi affermati e di giovani studiosi – è stata pubblicata un’analisi assai chiara dell’anarchismo metodologico, formulata da una delle più competenti studiose europee di Feyerabend, Roberta Corvi, professore ordinario di Filosofia teoretica alla Cattolica di Milano. Consiglio senz’altro la lettura del suo testo dal titolo Complessità della conoscenza: spunti da Feyerabend (in rete e alle pagine 21-26 di questo numero della rivista).

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

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