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Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

Oligarchie

Un càveat, un avviso, la necessità di stare attenti e scrutare con cura il presente.
Apprezzo molto chi lo fa, permettendoci di riflettere ed eventualmente anche di dissentire. E non mi interessano il nome, la qualifica, la posizione politica, le preferenze ideologiche di chi avverte di un rischio che si avvicina. Mi interessa che il rischio sia reale. In questo caso lo è. E dunque consiglio la lettura integrale del breve testo di Roberto Pecchioli uscito su «Ide&Azione» il 13 gennaio 2023. Si intitola Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
Ne trascrivo qui alcuni brani (i link sono aggiunti da me e si riferiscono a pagine di questo sito nelle quali ho discusso di alcuni degli argomenti trattati da Pecchioli).

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Nell’intero corso del tempo sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Inizia così un libro nel libro, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, inserito da George Orwell nel suo capolavoro, 1984. Il testo è vietatissimo in quanto sarebbe l’opera ideologica di Emmanuel Goldstein, l’arcinemico del partito unico. Tuttavia Goldstein non esiste, è una creazione del potere, quindi Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è un falso, una psyop (operazione psicologica) contro il popolo, una modalità per attirare, riconoscere e colpire i dissidenti. Non siamo distanti dal mondo di 1984. Siamo entrati davvero nel triste mondo del collettivismo oligarchico.

Il titolo del primo capitolo di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è “l’ignoranza è forza”, uno dei tre slogan che campeggiano sulla facciata del Ministero della Verità. Niente di più essenziale per il potere: maggiori sono le conoscenze tanto più si è preda di dubbi e contraddizioni.

Chi comanda conosce bene una riflessione di Arthur Schopenhauer: «ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare». Siamo lieti di non avere/essere nulla, purché il Signore getti qualche briciola attraverso vassalli, valvassori e valvassini.

Presto verrà spalancata la finestra di Overton dello stravolgimento delle abitudini alimentari: pancia mia fatti capanna di larve, blatte e farine di insetti. I ragazzi reclameranno la pizza con i grilli e le cavallette. Non solo lo chiede il Grande Fratello con incessante propaganda, ma è per la solita, ottima causa: l’ambiente.

Sì, l’ignoranza è forza, specie se accompagnata da un’impressionante capacità di assorbire come spugne – senza mai porsi domande – tutto ciò che viene propagandato dal potere.

Lezioni di sostenibilità da chi ha ammorbato il mondo e sfruttato sfacciatamente popoli e risorse naturali; richiami di moralità da parte di oligarchie corrotte sino al midollo, nel corpo e nell’anima.

Un monito dell’autore di Arcipelago Gulag: «se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: a che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione, sono il giogo con i bubboli e la frusta».

Il collettivismo è per noi, l’oligarchia sono loro. Vogliono la fine della proprietà privata diffusa, a cominciare dalle case d’abitazione. Infatti l’UE – uno dei cagnolini fedeli del Forum – impone ristrutturazioni costosissime per scopi energetici (l’ossessione green degli inquinatori globali) che metteranno in crisi il mercato e costringeranno molti a vendere a prezzi stracciati il bene più prezioso. Chissà chi comprerà.

Nel paradiso della libertà è obbligatorio il linguaggio “inclusivo”. In Canada, laboratorio privilegiato della perfezione, si può essere costretti alla “rieducazione” (l’evidenza totalitaria sfugge per mancanza di neuroni) se si utilizzano pronomi personali errati. La legge C-16 protegge l’identità di genere punendo le violazioni con il carcere sino a due anni. Un celebre psicologo, Jordan Peterson, è stato condannato a seguire un corso di rieducazione verbale e mentale.

Quella che viviamo è una fulminea transizione neofeudale.

A che servono le elezioni, se una serie sterminata di vincoli esterni (BCE, UE, MES, FMI, NATO, OMS, ONU, WEF, infernali acronimi del Dominio) impediscono alla volontà popolare – se mai si manifestasse in termini antagonisti – di diventare norma? E, in Europa, come si possono cambiare le cose se gran parte delle leggi che scandiscono la nostra esistenza derivano da regolamenti (eufemismo da vita condominiale) emessi da una Commissione, un sinedrio non eletto, ratificati senza discussione – sono migliaia ogni anno – da un parlamento privo di potestà legislativa?

Il giurista nazionalsocialista Ernst Forsthoff spiegò il significato che per i dominanti ha la legalità «Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta. Egli stabilisce che cosa è legale. La legalità è qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un partito è diventata disposizione di legge. La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale». Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
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Una volta, nel 1929, a Davos si riunivano i filosofi (Cassirer e Heidegger) per dialogare e discutere con passione sulle modalità e gli scopi della conoscenza e su altre tematiche filosofiche. Dopo un secolo quella città è preda del World Economic Forum (WEF) di Klaus Schwab e di altri visionari e ingegneri delle distopie totalitarie, di coloro che dettano le regole e le forme ai parlamenti e ai governi di un Occidente diventato terra della tristezza.

 

Police

Wrong Cops
di Quentin Dupieux
USA, 2013
Con: Mark Burnham (Duke), Eric Judor (Rough), Alexis Dziena (Emma), Steve Little (Sunshine), Arden Myrin (Shirley), Daniel Quinn (il vicino), Marilyn Manson (David Delores Frank)
Trailer del film

Uno dei personaggi di Wrong era il poliziotto Duke, che ora diventa quasi il protagonista intorno al quale ruota una banda di poliziotti soltanto apparentemente surreali e invece credo vicini alla realtà delle ‘forze dell’ordine’ statunitensi e non soltanto statunitensi. Si vede benissimo, nel senso che lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo anche nelle nostre contrade, che appena a qualcuno metti una divisa si scatenano in costui gli impulsi più sopiti alla sopraffazione, alla violenza, al delirio di onnipotenza.
Sono questi i sentimenti e le emozioni che muovono il corpo di polizia dell’anonima e paradigmatica cittadina  (o quartiere di Los Angeles) USA nella quale si svolgono i fatti. Poliziotti che spacciano droga, poliziotti che tentano stupri, poliziotti che sparano e colpiscono a caso, poliziotti avidissimi, poliziotti dall’apparenza molto maschile e dalle tendenze fortemente omosessuali (un dispositivo classico della psicoanalisi), poliziotti -soprattutto- molto stupidi. Ne esce una baraonda divertente, amara e dissacrante verso le divise e coloro che le indossano, verso le loro pratiche, i sogni, la corruttela.
Il film prende quota mano a mano che procede, mostrando di essere qualcosa di più di una commedia demenziale. Il culmine arriva nella scena finale, che è un classico di film e telefilm USA. Si tratta infatti del solenne funerale di uno dei poliziotti, che si è ucciso infiggendosi una cazzuola nel collo. È a questo punto che il più depravato dei suoi colleghi e in parte responsabile della morte del defunto -Duke, appunto- enuncia il solenne, ironico ma in ogni caso realistico significato di questo film. Duke afferma infatti che «Raggio di sole» (Sunshine era il soprannome del collega) è uscito adesso dall’inferno, poiché «l’inferno è qui, l’inferno è questa vita qui, non ne esiste un altro».
Il corrottissimo, rozzo, perverso poliziotto (che alla parola book fa smorfie di disgusto) non sa di stare citando uno dei più lucidi filosofi di ogni tempo, per il quale è questo mondo il vero «giudizio universale», è questo mondo «l’inferno» (Arthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, trad. di M. Montinari ed E. Amendola Kuhn, Adelphi 1983, pp. 288, 302 e 392).

«Pensieri da Quarantena»

Pensieri da Quarantena è il titolo di una mail che ho ricevuto da un mio allievo. L’ho ricevuta con lo stupore che ogni docente prova quando vede che le proprie parole sono diventate vita di un essere umano.
Nelle riflessioni che Ivan D’Urso mi ha rivolto c’è una saggezza antica, la saggezza di chi è stato forgiato dalla sofferenza, dal rischio, dalla differenza. Unite all’intelligenza, queste forme contribuiscono a fare di Ivan una persona libera, nonostante una situazione esistenziale non facile. Lo ringrazio per aver autorizzato la pubblicazione della sua testimonianza insieme filosofica e civile.
Ho scelto come immagine una tra le più famose e potenti incisioni di Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo (1513). Nietzsche si riferì a quest’opera nella Nascita della tragedia, dove scrisse: «Ein solcher Dürerscher Ritter war unser Schopenhauer: ihm fehlte jede Hoffnung, aber er wollte die Wahrheit. Es giebt nicht Seinesgleichen», ‘Un tale cavaliere di Dürer fu il nostro Schopenhauer; gli mancò ogni speranza, ma volle la verità. Non esiste il suo pari’ (trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. III/1, Adelphi 1972, § 20, p. 136). Anche Husserl teneva nel suo studio una riproduzione dell’incisione, vedendo nel cavaliere un simbolo della fenomenologia e quindi della filosofia.
Mi sembra dunque che questa immagine possa ben sintetizzare il senso delle parole di Ivan e aiutarci ad attraversare il tempo che siamo

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Gentile Professore,
tra qualche giorno i miei account social mi ricorderanno del giorno della mia laurea, dei festeggiamenti, del traguardo ed inevitabilmente di ciò che è cambiato da allora.
Le scrivo perché, anche se a livello formale non sono più un suo studente, mi sento nel profondo ancora un suo allievo.
Oggi, come succede dal mio ventiduesimo mese di vita, ho ricevuto la terapia che mi tiene in vita.
Quella che fa di me un Cyborg-Freak come ho avuto modo di scrivere altrove.
Ho ricevuto tre sacche di sangue, e tanto basterà se il cielo lo desidera, per tenere la mia “batteria” carica per altri venti giorni.
[…]
Le confesso che è un periodo incerto ed anche un po’ pauroso per essere un malato cronico, forse, avendo dentro le mie vene centinaia di vite mescolate insieme, avverto in modo più acuto il timore collettivo.
Eppure non mi riesce proprio di comprendere la rassegnazione.
Una volta lei disse che la Filosofia:
 “è ciò che ci permette di affrontare lo sguardo di Medusa: PER RENDERE LEI una statua di pietra”
Di affrontare dunque le nostre paure con determinazione, curiosità, amore per la conoscenza.
Gentile Professore, temo che nei prossimi mesi vedremo compiere delle scelte che ci faranno sperimentare in modo diretto “La banalità del male” ed i limiti (aimè) della democrazia.
Allo stesso tempo sento che fino a quando potrò scegliere di capire, sino a quando avrò la forza di porre delle domande, non importa in quale condizione: sarò vivo.
Sarò tempo pulsante che si interroga sulla propria natura.
Questo momento storico ha mietuto molte più vittime di quelle che risultano nei conteggi ufficiali.
Poiché ho visto brillanti studenti, aspiranti ribelli, cedere con tanta, troppa, velocità al loro diritto di libertà e di porre domande.
Ed essi  vivono il tempo subendolo, come se la vita si limitasse a una serie di azioni da apprendere nei decreti mentre i libri di Filosofia e di Sociologia prendono polvere su di un comodino.
La mia parte logica comprende. Il mio lato umano in questo si dispera.
Solo nella Filosofia trovo conforto.
Soltanto in essa (e nei visi dei miei cari) trovo un senso.
Ed è in questi giorni di grande incertezza che l’Essere Per La Morte del maestro Heidegger assume un significato sublime.
E sento il dovere di vivere pienamente, sento che posso farlo davvero.
Perché ho visto la Medusa divenire di pietra.
E questo grazie anche a lei, caro Professore, e mi sembrava il minimo condividere queste righe e questi pensieri perché, nonostante tutto, ci siamo ancora.
E siamo liberi.
Con affetto e devozione
Ivan D’Urso

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

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Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
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Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

Tenebrae responsoria

The Place
di Paolo Genovese
Italia, 2017
Con: Valerio Mastandrea (l’uomo), Giulia Lazzarini (la signora Marcella), Sabina Ferilli (Angela), Marco Giallini (Ettore), Rocco Papaleo (Odoacre), Alba Rohrwacher (Suor Chiara), Vinicio Marchioni (Luigi), Silvia D’Amico (Martina), Vittoria Puccini (Azzurra), Alessandro Borghi (Fulvio), Silvio Muccino (Alex)
Trailer del film

Dico subito che The Place è uno dei film più coinvolgenti ed esatti che abbia visto negli ultimi anni. Non vi succede nulla al di là della parola, del narrare che costituisce da sempre una delle ragioni di identità della nostra specie. Qui c’è un uomo che ascolta. Lo fa nell’angolo di un bar, prende appunti su un’agenda mentre persone gli manifestano i propri desideri. Lui è in grado di soddisfarli, purché gli obbediscano. Un patto faustiano che coinvolge un’anziana signora che vorrebbe veder guarire il marito dalla devastazione dell’Alzheimer, un poliziotto recuperare la refurtiva di una rapina, una ragazza diventare più bella, una moglie essere di nuovo voluta dal marito, un cieco riacquistare la vista, una suora ritrovare la fede perduta, un padre salvare il proprio bambino da morte imminente, un meccanico trascorrere la notte con la modella che sorride dai manifesti dell’officina, un figlio liberarsi del padre. A tutti l’uomo garantisce la realizzazione delle loro aspirazioni purché facciano ciò che loro chiede. Che è quasi sempre malvagio o inconsueto o estremo.
Non è lui, naturalmente, a decidere. Sono loro a farlo, in un continuo alternarsi del solista che suggerisce e del coro che risponde. E lo fanno sul crinale della necessità e della pietà, della passione e del calcolo, di un libero arbitrio sempre illusorio e di un demone interiore che li guida, li spinge, li fa volere, li determina. Infatti poiché «ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων» (Eraclito, fr. 119),  «l’uomo fa sempre soltanto ciò che vuole e pure lo fa necessariamente» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 147) perché noi siamo sì in molte azioni liberi di fare ciò che abbiamo voluto ma non di volere proprio ciò che stiamo volendo.
Siamo dispositivi desideranti e sempre lo rimarremo finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore. Il desiderio, infatti, «ci pervade in ogni momento e nelle forme più diverse. Dalla brama verso gli oggetti alle ambizioni sociali, dalla conquista dei corpi altrui al possesso del loro tempo, dall’aspirazione a vivere ancora alla passione del vivere nella pienezza delle nostre soddisfazioni, il desiderio costituisce il motore sempre acceso della vita che pulsa e non si arresta mai. Essere corpo e vivere nel desiderio sono la medesima espressione della Zoé che ci impregna al di là del bìos delle nostre vite individuali, delle nostre specifiche volontà, della particolare modalità in cui il flusso di aspirazioni che siamo si colloca in un luogo e in un istante particolari» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, p. 260).
La radice di tale struttura è anche ambientale, psichica, relazionale, neuronale ma va oltre, molto oltre. E tocca la condizione di gettatezza del corpomente di ciascuno in un mondo labirintico e ferreo, nel quale le spranghe della necessità ci consegnano a un fantasma di libertà, allo spettro del bene, all’inganno della morale.
Ma il demiurgo malinconico, implacabile e potente di questo film si mostra anch’egli rinchiuso nei confini dell’oscuro, dai quali soltanto un angelo arriva a liberarlo quando tutto sembra essersi compiuto. «Credo nei dettagli» risponde quest’uomo a chi gli chiede in che cosa riponga la sua fede. Il dettaglio di uno spazio incomprensibile e geometrico. The Place è il luogo della Geworfenheit, dell’essere gettati in un mondo costituito di tenebra.

L’ascolto del II mottetto della terza giornata («Sabbato Sancto ad Matutinum») di Tenebrae Responsories di Tomás Luis de Victoria (1585) trasmette la malinconia di ciò che abbiamo perduto, della luce che intravediamo.

Αδελφοι

Apollineo e Dionisiaco
di Giorgio Colli
A cura di Enrico Colli
Adelphi, 2010
Pagine 269

Il filologo è un grande amante (p. 34)

La «filologia non più morta» (p. 181) del giovane Colli è, semplicemente, filosofia. Per lui i filosofi sono gli oltreumani di cui parlano Nietzsche e Schopenhauer. Sono uomini capaci di percorrere i sentieri del dolore e della vita scegliendo sempre il meglio, il dominio su se stessi e quindi sull’intero, l’abbraccio verso il tutto, l’attingimento delle essenze. È questa parola platonica a costituire il nucleo teoretico del pensiero di Colli, per il quale l’obiettivo di ogni attività filologica e quindi filosofica è il mondo delle forme. Un mondo fatto di vita vissuta prima che di concetti, di immersione nelle passioni e nell’enigma dell’esistere.
Schopenhauer e Nietzsche vengono da Colli unificati e trasfigurati in uno schema che vede l’apollineo come rappresentazione ed espressione, il dionisiaco come volontà e interiorità. Uno schema in ogni caso irriducibile alla semplice contrapposizione dualistica poiché la complessità, la ricchezza, l’universalità di apollineo e dionisiaco li rende l’uno sostanza dell’altro.
Il libro che scoprì e inventò questa Grecità -la Geburt der Tragödie– è il risultato di un «lavorio filologico eccezionale» (56), che soltanto una metodologia asservita alle note e all’apparato critico poté svalutare e non capire, proprio perché note e apparati lasciano in esso il posto alla comprensione più radicale ed empatica che i Greci abbiano mai ricevuto. La Nascita della tragedia «rimane senza dubbio il tentativo più notevole di penetrare profondamente la grecità» (123).
Colli rileva naturalmente anche i limiti della Geburt così come dell’intero pensiero di Nietzsche e di quello di Schopenhauer, limiti dovuti in gran parte alle concrete esistenze e passioni dei due filosofi. Ma al di là dell’umana miseria che tutti ci accomuna, Schopenhauer «è l’uomo che ha impostato il problema filosofico, nel suo senso più generale, in modo definitivo ed insuperabile» (75) e in Nietzsche «la teoria del dionisiaco, dal punto di vista sia estetico che morale, è un germe fecondo, una ricchezza inesauribile di pensiero e di sentimento, è in fondo come la formula della sua vita -si può dire che egli non ha che da svilupparla per giungere all’indipendenza assoluta. Questo è il segreto di Nietzsche, che tanto lo accomuna ai Greci, di rifulgere cioè di grandezza più nel suo modo di affrontare la vita che nelle sue opere» (69).
Critico severo anche di se stesso -come si vede nei materiali qui raccolti in Appendice-, le venerazioni di Colli sono inseparabili dalla lucida consapevolezza delle manchevolezze dei filosofi e delle opere che analizza. Si potrebbe fare la stessa cosa con lui e con queste pagine, che rivelano spesso una giovanile e a volte eccessiva immaturità. È però più sensato rilevare le tante intuizioni e argomentazioni che fanno di questo volume una libera introduzione al mondo greco.
Un mondo fatto di uomini che non potevano concepire alcuna separazione tra vita, filosofia e politica poiché la filosofia è per «il popolo ellenico […] la massima attività umana -significativa è la preponderante posizione politica che ottengono nelle loro città molti dei Presocratici, o la lotta inesausta di Platone per realizzare il suo ideale politico» (49). Una posizione alla quale Colli è così vicino da pronunciare parole che nel suo tempo erano già radicali ma che oggi sarebbero proprio indicibili, «comprendendo ad esempio l’immenso valore positivo dell’istituzione della schiavitù, e non accontentandosi di condannarla senz’altro per sentito dire, secondo il punto di vista moderno e cristiano» (50) e attribuendo l’anima «come unitario principio noumenico» soltanto agli «uomini superiori, in quelli mediocri invece si tratta di un centro di relativa stabilità nella connessione causale della rappresentazione» (175).
Meno estreme ma sempre inattuali sono le tesi sul conflitto come istinto dei Greci; sulla «furia schiettamente ellenica di ripagare il male con il male» (93); sul dionisiaco quale «impulso a superare tutto ciò che è umano, come interiorità del grande individuo» (127); sulla scultura greca come perfettamente conclusa in ciò che di essa appare, dietro la quale non si dà alcuna anima né simbolo né ineffabilità; sull’ascetismo ellenico che «non ha nulla a che fare con la patologia dell’ascetismo cristiano [ma] deriva da un sentimento insostenibile del male del mondo, ritrovato nella propria anima, insito nelle fibre più nascoste, che avvelena ogni purezza e risorge immediatamente appena annientato, che deve essere in ogni istante combattuto con tutte le forze perché si possa pronunciare una parola od una verità senza vergogna. Asceti a questo modo furono dopo i Greci soltanto i più grandi e i più diritti tra i mistici ed i conoscitori: Pico della Mirandola, Spinoza, Boehme, Nietzsche» (108); sull’amore come «mezzo ad un odio più grande» (84) e come «movimento -di unione o di creazione- se lo guardiamo nel fenomeno, ma la sua radice è nella cosa in sé, poiché esso è interiorità, come raggiungimento o desiderio di traboccare» (151); sull’Ἀνάγκη quale «principio del mondo come espressione -principio apollineo. La libertà è il principio dionisiaco che non esiste in questo mondo di modi -esiste solo nel cuore della verità e non si può esprimere razionalmente, perché la razionalità vuole la necessità» (211).
Μοῖρα e Ἀνάγκη costituiscono una delle più esplicite manifestazioni del principio dionisiaco, compagne del sonno e della morte, le quali intrecciano «con gesti di diamante le infinite / trame degli eventi a cui non si sfugge / Άτροπος, Κλωθώ e Λάχεσις, / figlie della Notte» (Simonide, Alle dee del destino, vv. 2-3).
Uno dei significati più profondi di questa raccolta di scritti giovanili di Colli si può riassumere nell’affermazione di uno studioso appartenente a tutt’altra tradizione e stile di pensiero: «Una volta afferrata la verità, la dobbiamo dimenticare: la lucidità apollinea deve lasciare il passo all’ebbrezza dionisiaca»1 . Chi non fa questo, chi nella propria vita dà spazio soltanto all’intelligenza cognitiva e non anche a quella emotiva, in realtà non comprende il mondo, nel duplice senso che non lo capisce e non lo porta dentro di sé. Filosofia è anche il non aver paura delle passioni, della loro potenza sulle nostre vite.

Nota

1. Stanley Rosen, La questione dell’essere. Un capovolgimento di Heidegger (The Question of Being. A Reversal of Heidegger, 2002), trad. di G. Frilli, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 212

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