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Parthenope

Il tempo scorre accanto al dolore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
7 novembre 2024
pagine 1-4

L’epigrafe è tratta anche stavolta da Céline, come accaduto per La grande bellezza: «Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto».
In questo film, come nell’esistenza, non ci si può che perdere poiché la poetica di Sorrentino è fatta di primi piani e insieme di immagini che si aprono al cielo e alla terra sconfinati, è fatta di fotogrammi tra di loro irrelati ma intensissimi, è fatta di salti onirici e di accadimenti grotteschi e surreali. Una poetica che qui vuole raccontare ciò che non è possibile dire.
Parthenope è infatti un film impossibile poiché ha l’intenzione e l’ambizione di svelare l’essenza della donna e l’essenza di Napoli. Due entità non svelabili, incomprensibili sempre, avvolgenti e tremende, tenere e cupe, carnali e astratte. Barocche.

Sempre su Il Pensiero Storico è uscita ieri (10.11.2024) una sapiente riflessione del suo direttore, Danilo Breschi, la quale affonda nel mito e restituisce il film nel profondo: Napoli si mostra anfibia allo sguardo di Sorrentino. Alcuni amici napoletani hanno invece stroncato l’opera pur riconoscendone il valore formale.
Per chi, come me, ritiene che l’arte cinematografica sia pura forma, questo film la incarna perfettamente ma comprendo che possa anche apparire da altre prospettive un film insostenibile. Come scrive Giuseppe Frazzetto, in un articolo che coglie per intero la dimensione teorica di Parthenope, «molti ne sono affascinati, mentre altri lo giudicano arrogante, perfino repellente. Ma non è il destino di ogni teoria, di ogni sequenza di sguardi punti vista trasalimenti intuizioni, neutre o discorsive, costruite o irrazionali?» (Sequenza per Parthenope, in segnonline, 29.10.2024).

Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

Oligarchie

Un càveat, un avviso, la necessità di stare attenti e scrutare con cura il presente.
Apprezzo molto chi lo fa, permettendoci di riflettere ed eventualmente anche di dissentire. E non mi interessano il nome, la qualifica, la posizione politica, le preferenze ideologiche di chi avverte di un rischio che si avvicina. Mi interessa che il rischio sia reale. In questo caso lo è. E dunque consiglio la lettura integrale del breve testo di Roberto Pecchioli uscito su «Ide&Azione» il 13 gennaio 2023. Si intitola Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
Ne trascrivo qui alcuni brani (i link sono aggiunti da me e si riferiscono a pagine di questo sito nelle quali ho discusso di alcuni degli argomenti trattati da Pecchioli).

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Nell’intero corso del tempo sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Inizia così un libro nel libro, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, inserito da George Orwell nel suo capolavoro, 1984. Il testo è vietatissimo in quanto sarebbe l’opera ideologica di Emmanuel Goldstein, l’arcinemico del partito unico. Tuttavia Goldstein non esiste, è una creazione del potere, quindi Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è un falso, una psyop (operazione psicologica) contro il popolo, una modalità per attirare, riconoscere e colpire i dissidenti. Non siamo distanti dal mondo di 1984. Siamo entrati davvero nel triste mondo del collettivismo oligarchico.

Il titolo del primo capitolo di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è “l’ignoranza è forza”, uno dei tre slogan che campeggiano sulla facciata del Ministero della Verità. Niente di più essenziale per il potere: maggiori sono le conoscenze tanto più si è preda di dubbi e contraddizioni.

Chi comanda conosce bene una riflessione di Arthur Schopenhauer: «ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare». Siamo lieti di non avere/essere nulla, purché il Signore getti qualche briciola attraverso vassalli, valvassori e valvassini.

Presto verrà spalancata la finestra di Overton dello stravolgimento delle abitudini alimentari: pancia mia fatti capanna di larve, blatte e farine di insetti. I ragazzi reclameranno la pizza con i grilli e le cavallette. Non solo lo chiede il Grande Fratello con incessante propaganda, ma è per la solita, ottima causa: l’ambiente.

Sì, l’ignoranza è forza, specie se accompagnata da un’impressionante capacità di assorbire come spugne – senza mai porsi domande – tutto ciò che viene propagandato dal potere.

Lezioni di sostenibilità da chi ha ammorbato il mondo e sfruttato sfacciatamente popoli e risorse naturali; richiami di moralità da parte di oligarchie corrotte sino al midollo, nel corpo e nell’anima.

Un monito dell’autore di Arcipelago Gulag: «se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: a che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione, sono il giogo con i bubboli e la frusta».

Il collettivismo è per noi, l’oligarchia sono loro. Vogliono la fine della proprietà privata diffusa, a cominciare dalle case d’abitazione. Infatti l’UE – uno dei cagnolini fedeli del Forum – impone ristrutturazioni costosissime per scopi energetici (l’ossessione green degli inquinatori globali) che metteranno in crisi il mercato e costringeranno molti a vendere a prezzi stracciati il bene più prezioso. Chissà chi comprerà.

Nel paradiso della libertà è obbligatorio il linguaggio “inclusivo”. In Canada, laboratorio privilegiato della perfezione, si può essere costretti alla “rieducazione” (l’evidenza totalitaria sfugge per mancanza di neuroni) se si utilizzano pronomi personali errati. La legge C-16 protegge l’identità di genere punendo le violazioni con il carcere sino a due anni. Un celebre psicologo, Jordan Peterson, è stato condannato a seguire un corso di rieducazione verbale e mentale.

Quella che viviamo è una fulminea transizione neofeudale.

A che servono le elezioni, se una serie sterminata di vincoli esterni (BCE, UE, MES, FMI, NATO, OMS, ONU, WEF, infernali acronimi del Dominio) impediscono alla volontà popolare – se mai si manifestasse in termini antagonisti – di diventare norma? E, in Europa, come si possono cambiare le cose se gran parte delle leggi che scandiscono la nostra esistenza derivano da regolamenti (eufemismo da vita condominiale) emessi da una Commissione, un sinedrio non eletto, ratificati senza discussione – sono migliaia ogni anno – da un parlamento privo di potestà legislativa?

Il giurista nazionalsocialista Ernst Forsthoff spiegò il significato che per i dominanti ha la legalità «Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta. Egli stabilisce che cosa è legale. La legalità è qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un partito è diventata disposizione di legge. La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale». Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
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Una volta, nel 1929, a Davos si riunivano i filosofi (Cassirer e Heidegger) per dialogare e discutere con passione sulle modalità e gli scopi della conoscenza e su altre tematiche filosofiche. Dopo un secolo quella città è preda del World Economic Forum (WEF) di Klaus Schwab e di altri visionari e ingegneri delle distopie totalitarie, di coloro che dettano le regole e le forme ai parlamenti e ai governi di un Occidente diventato terra della tristezza.

 

Police

Wrong Cops
di Quentin Dupieux
USA, 2013
Con: Mark Burnham (Duke), Eric Judor (Rough), Alexis Dziena (Emma), Steve Little (Sunshine), Arden Myrin (Shirley), Daniel Quinn (il vicino), Marilyn Manson (David Delores Frank)
Trailer del film

Uno dei personaggi di Wrong era il poliziotto Duke, che ora diventa quasi il protagonista intorno al quale ruota una banda di poliziotti soltanto apparentemente surreali e invece credo vicini alla realtà delle ‘forze dell’ordine’ statunitensi e non soltanto statunitensi. Si vede benissimo, nel senso che lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo anche nelle nostre contrade, che appena a qualcuno metti una divisa si scatenano in costui gli impulsi più sopiti alla sopraffazione, alla violenza, al delirio di onnipotenza.
Sono questi i sentimenti e le emozioni che muovono il corpo di polizia dell’anonima e paradigmatica cittadina  (o quartiere di Los Angeles) USA nella quale si svolgono i fatti. Poliziotti che spacciano droga, poliziotti che tentano stupri, poliziotti che sparano e colpiscono a caso, poliziotti avidissimi, poliziotti dall’apparenza molto maschile e dalle tendenze fortemente omosessuali (un dispositivo classico della psicoanalisi), poliziotti -soprattutto- molto stupidi. Ne esce una baraonda divertente, amara e dissacrante verso le divise e coloro che le indossano, verso le loro pratiche, i sogni, la corruttela.
Il film prende quota mano a mano che procede, mostrando di essere qualcosa di più di una commedia demenziale. Il culmine arriva nella scena finale, che è un classico di film e telefilm USA. Si tratta infatti del solenne funerale di uno dei poliziotti, che si è ucciso infiggendosi una cazzuola nel collo. È a questo punto che il più depravato dei suoi colleghi e in parte responsabile della morte del defunto -Duke, appunto- enuncia il solenne, ironico ma in ogni caso realistico significato di questo film. Duke afferma infatti che «Raggio di sole» (Sunshine era il soprannome del collega) è uscito adesso dall’inferno, poiché «l’inferno è qui, l’inferno è questa vita qui, non ne esiste un altro».
Il corrottissimo, rozzo, perverso poliziotto (che alla parola book fa smorfie di disgusto) non sa di stare citando uno dei più lucidi filosofi di ogni tempo, per il quale è questo mondo il vero «giudizio universale», è questo mondo «l’inferno» (Arthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, trad. di M. Montinari ed E. Amendola Kuhn, Adelphi 1983, pp. 288, 302 e 392).

«Pensieri da Quarantena»

Pensieri da Quarantena è il titolo di una mail che ho ricevuto da un mio allievo. L’ho ricevuta con lo stupore che ogni docente prova quando vede che le proprie parole sono diventate vita di un essere umano.
Nelle riflessioni che Ivan D’Urso mi ha rivolto c’è una saggezza antica, la saggezza di chi è stato forgiato dalla sofferenza, dal rischio, dalla differenza. Unite all’intelligenza, queste forme contribuiscono a fare di Ivan una persona libera, nonostante una situazione esistenziale non facile. Lo ringrazio per aver autorizzato la pubblicazione della sua testimonianza insieme filosofica e civile.
Ho scelto come immagine una tra le più famose e potenti incisioni di Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo (1513). Nietzsche si riferì a quest’opera nella Nascita della tragedia, dove scrisse: «Ein solcher Dürerscher Ritter war unser Schopenhauer: ihm fehlte jede Hoffnung, aber er wollte die Wahrheit. Es giebt nicht Seinesgleichen», ‘Un tale cavaliere di Dürer fu il nostro Schopenhauer; gli mancò ogni speranza, ma volle la verità. Non esiste il suo pari’ (trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. III/1, Adelphi 1972, § 20, p. 136). Anche Husserl teneva nel suo studio una riproduzione dell’incisione, vedendo nel cavaliere un simbolo della fenomenologia e quindi della filosofia.
Mi sembra dunque che questa immagine possa ben sintetizzare il senso delle parole di Ivan e aiutarci ad attraversare il tempo che siamo

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Gentile Professore,
tra qualche giorno i miei account social mi ricorderanno del giorno della mia laurea, dei festeggiamenti, del traguardo ed inevitabilmente di ciò che è cambiato da allora.
Le scrivo perché, anche se a livello formale non sono più un suo studente, mi sento nel profondo ancora un suo allievo.
Oggi, come succede dal mio ventiduesimo mese di vita, ho ricevuto la terapia che mi tiene in vita.
Quella che fa di me un Cyborg-Freak come ho avuto modo di scrivere altrove.
Ho ricevuto tre sacche di sangue, e tanto basterà se il cielo lo desidera, per tenere la mia “batteria” carica per altri venti giorni.
[…]
Le confesso che è un periodo incerto ed anche un po’ pauroso per essere un malato cronico, forse, avendo dentro le mie vene centinaia di vite mescolate insieme, avverto in modo più acuto il timore collettivo.
Eppure non mi riesce proprio di comprendere la rassegnazione.
Una volta lei disse che la Filosofia:
 “è ciò che ci permette di affrontare lo sguardo di Medusa: PER RENDERE LEI una statua di pietra”
Di affrontare dunque le nostre paure con determinazione, curiosità, amore per la conoscenza.
Gentile Professore, temo che nei prossimi mesi vedremo compiere delle scelte che ci faranno sperimentare in modo diretto “La banalità del male” ed i limiti (aimè) della democrazia.
Allo stesso tempo sento che fino a quando potrò scegliere di capire, sino a quando avrò la forza di porre delle domande, non importa in quale condizione: sarò vivo.
Sarò tempo pulsante che si interroga sulla propria natura.
Questo momento storico ha mietuto molte più vittime di quelle che risultano nei conteggi ufficiali.
Poiché ho visto brillanti studenti, aspiranti ribelli, cedere con tanta, troppa, velocità al loro diritto di libertà e di porre domande.
Ed essi  vivono il tempo subendolo, come se la vita si limitasse a una serie di azioni da apprendere nei decreti mentre i libri di Filosofia e di Sociologia prendono polvere su di un comodino.
La mia parte logica comprende. Il mio lato umano in questo si dispera.
Solo nella Filosofia trovo conforto.
Soltanto in essa (e nei visi dei miei cari) trovo un senso.
Ed è in questi giorni di grande incertezza che l’Essere Per La Morte del maestro Heidegger assume un significato sublime.
E sento il dovere di vivere pienamente, sento che posso farlo davvero.
Perché ho visto la Medusa divenire di pietra.
E questo grazie anche a lei, caro Professore, e mi sembrava il minimo condividere queste righe e questi pensieri perché, nonostante tutto, ci siamo ancora.
E siamo liberi.
Con affetto e devozione
Ivan D’Urso

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

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Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
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Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

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