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Epicuro / La materia

Epicuro
Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica
Prefazione di Francesco Adorno
Introduzione, traduzione e note di Nicoletta Russello
Rizzoli, 2021
Pagine 197

Lettera a Erodoto (sulla fisica): §§ 35-83
Lettera a Pitocle (sull’astronomia/cielo): §§ 84-116
Lettera a Meneceo (sull’etica/felicità): §§ 122-135

La materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo. E dunque l’ambito che studia la materia – la Fisica – è il sapere fondamentale, dal quale gli altri ricevono chiarimento e senso. Anche per questo delle tre lettere nelle quali Epicuro (341-270) riassunse il proprio pensare, il testo chiave è la Lettera a Erodoto, nella quale il filosofo fornisce anche alcune indicazioni di metodo che sono preziose per affrontare qualsiasi tema.

La prima indicazione va la di là della contrapposizione tra induzione e deduzione, in quanto «si dedurrà una puntuale conoscenza dei dettagli, se lo schema generale della teoria è stato ben compreso e fatto proprio dalla memoria» (§ 36, p. 69), se dunque ogni osservazione fisica è resa sensata e feconda da una prospettiva metafisica generale che non si limiti a osservare ma che osservi comprendendo, cercando di articolare il più ampio quadro epistemologico e materico nel quale qualunque osservazione empirica prende avvio, accade, perviene a dei risultati di natura generale.
L’osservazione metafisico-fisica del mondo ci dà le informazioni essenziali su di esso, prima delle quali è la sua infinità nello spazio e nel tempo: «Non c’è dubbio che il tutto è infinito [το πάν άπειρον εστί]» (§ 41; p. 73).
L’intero si compone di mondi infiniti che mai hanno avuto nascita e mai avranno fine poiché «nulla ha origine da ciò che non è […] E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente» (§§ 38-39, p. 71).
La materia, il tutto – τὸ πᾶν – si compone di corpi/enti e di spazi locali nei quali tali corpi si muovono: σῶματα καὶ κενόν (§ 39; p. 73).
Il risultato è che termini come ‘vuoto’ e ‘nulla’ sono delle semplici parole di confine, le quali indicano la pura astrazione negativa del concetto rispetto alla pienezza eternovunque che il mondo è.
Esigenza logica e ontologica è dunque che nella divisibilità dei corpi non si possa arrivare alla loro dissoluzione nel niente e per questo è necessario postulare un confine ultimo della differenza che sono gli ἄτομα, le componenti prime e indivisibili della materia. Gli aggregati di atomi si compongono e si dissolvono ma le loro parti costitutive prime e indivisibili rimangono eterne. Le tre caratteristiche intrinseche alla struttura atomica sono σχήματος, la forma; βάρους, il peso assoluto, non relativo ad altri corpi, vale a dire la massa; μεγέθους, la grandezza.
Il corpomente umano è composto anch’esso di tali elementi. La ψυχή è l’energia della materia diffusa in tutto l’organismo e capace di vivere sino a che l’organismo rimane unitario e composto. Quando si dissolve, con esso si separa ogni altra struttura di identità del corpomente, tornando σῶμα e ψυχή al tutto indistinto dal quale si formeranno altri aggregati, «non è infatti possibile pensare che l’anima sia senziente  fuori da questo complesso di anima e corpo» (§ 66, p. 97). 

L’impersonalità della materia – sostenuta contro il Timeo e gli Stoici – costituisce uno degli elementi centrali di continuità tra la fisica e ciò che chiamiamo etica. La materia e gli dèi, che sono la stessa cosa, sono infatti del tutto impersonali, privi di passioni, impossibilitati ad agire per favorire o per danneggiare i loro composti: «In una natura incorruttibile e beata non può esistere nulla che possa provocare conflitto o turbamento; μη είναι εν άφθάρτω και μακαριά φύσει των διάκριση/ ύποβαλλόντων ή τάραχον μηθέ» (§ 78, p. 107). Proprio questa indifferenza è parte fondamentale dell’essere ‘immortale e beato’ αφθαρτον και μακάριον, che è la vera natura del divino (§ 123; p. 143).
La consapevolezza che tale è la struttura del mondo ci libera dalla paure più grandi, da quei terrori che avvelenano l’esistenza, come il terrore della volontà divina e della morte. Anche lo studio dei cieli, l’astronomia, serve a conseguire tale e tanta serenità. Infatti «nella conoscenza dei fenomeni celesti, connessa ad altre dottrine o fine a se stessa, non vi [è] altro scopo che il conseguimento di imperturbabilità [άταραξίαν] e solide convinzioni, proprio come nelle altre ricerche» (§ 85; p.113).
La serenità è uno dei frutti di tutto questo. Una serenità che conduce a gustare quanto la vita offre di bello, a godere dei piaceri ma – condizione fondamentale – senza essere subordinati ai desideri. La felicità umana coincide piuttosto anche con la libertà dai desideri, oltre che con la libertà dai timori. Epicuro afferma anzi che «l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande; Και την αύτάρκειαν δε αγαθόν μέγα νομίζομεν» (§ 130; p. 149). Evidentemente errate, per non dire insensate, sono dunque le interpretazioni dell’etica epicurea come un atteggiamento di abbandono a ogni e qualsiasi forma del piacere, quando invece è la φρόνησις – la saggezza, la prudenza, la misura – a caratterizzarla, è il «non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima; αλλά το μήτε άλγεΐν κατά σώμα μήτε ταράττεσθαι κατά ψυχή» (§ 131; p. 151).

La felicità della persona/filosofo è pari alla beatitudine degli dèi, è pari alla forza della materia stessa. Sarà dunque possibile vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητψ ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις άγαθοΐς (§ 135; p. 155).
Così si chiude la lettera di argomento etico a Meneceo, fondata – come abbiamo visto – su quelle dedicate alla fisica e all’astronomia. Poiché la materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo.

[Esattamente 424 anni fa, il 17 febbraio del 1600, veniva arso vivo dall’Inquisizione cattolica un altro filosofo che aveva posto al centro dell’ontologia e dell’etica la materia cosmica, Giordano Bruno. In tempi nei quali le inquisizioni politicamente corrette stanno drammaticamente restringendo le libertà di pensiero e di espressione, ricordo i due Dialoghi (entrambi del 1584) nei quali la riflessione bruniana coniuga in modo come sempre complesso e splendido la questione della materia e la necessità della libera parola: De l’infinito, universo e mondi  ;  De la causa, principio e uno ]

ANGELICA ROCCA SU CHRONOS

Angelica Rocca
Esercizi di decentramento
Recensione a Chronos. Scritti di storia della filosofia 

in Fata Morgana
11 dicembre 2023
Pagine 1-4

«Il leitmotiv è la critica all’umanismo che non si traduce, però, nel suo rovescio, cioè in un anti-umanismo, in un disprezzo dell’umano e in un suo superamento ascetico in vista di un orizzonte trascendente. Tutt’altro: si tratta semmai di ritracciare i confini, di ricollocare l’uomo, spostarlo dal centro, di soffiare via tutte quelle nuvole di onnipotenza divina cui si è aggrappato per riancorarlo alla terra, a quel piano immanente di cui è solo una piccola parte. Una critica all’umanismo parte innanzitutto da un tributo alla filosofia greca, cosciente del limite (πέρας) invalicabile dell’umano, che è figlio di Chronos, del tempo. […]
Il bersaglio dell’idealismo, a cui la lettura di Biuso contrappone l’alternativa lucreziana di un materialismo ontologico, è l’oggettivismo greco che l’avvento del Cristianesimo, al pari di quanto fa con le religioni naturalistiche, scalza dalla storia del pensiero.  Non è forse la figura di Cristo, ancor prima dell’uomo vitruviano, a spostare l’uomo al centro del cerchio, a renderlo padrone della natura, misura di tutte le cose, ad estendere la sua area fino al punto in cui in essa si dispiega l’intero? […]
In un percorso che parte dal mondo greco sino ad avventurarsi lungo vie più recenti  e spesso poco esplorate – del pensiero contemporaneo, Chronos attraversa più di mille anni di storia della filosofia occidentale, restituendo un’immagine di quest’ultima forse più affine alla saggezza orientale intesa come esercizio».

[Foto di Bryan Goff su Unsplash; l’immagine raffigura la Nebulosa di Orione]

Siddharta

Hermann Hesse
Siddhartha
(1922)
Traduzione di Massimo Mila
Adelphi, 1987
Pagine 169

Siddharta, figlio di un brahmino, conosce e pratica la preghiera e il culto verso gli dèi, ma non se ne accontenta. Diventa un Samana, pellegrino, povero, mendicante. Impara il saper pensare, aspettare e digiunare, ma non se ne accontenta. Incontra e ascolta il Buddha e da lui riceve l’indicazione fondamentale: la santità non sta nelle idee ma nell’essere. Per questo non rimane fra i discepoli del Sublime e s’immerge tra la gente, nei commerci, nella ricchezza. Conosce l’amore di una donna, pratica il gioco e ogni godimento, ma non se ne accontenta. Diventa amico e discepolo di un barcaiolo che sa sentire la voce saggia e senza fine del fiume. Da lui impara l’ascoltare e apprende una serenità senza macchia. Per la prima volta ama e soffre per un essere umano: il figlio, verso il quale «il suo amore, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo» si rivelano più forti di ogni meditazione e di ogni sapere (p. 141).
Alla fine di questo itinerario tra le forme molteplici del vivere, Siddharta è diventato ciò che è: un sorriso del mondo, la sapienza dell’unità, la perfezione dell’essere.

E così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell’unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddhartha era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così – questo Govinda lo sapeva –  così sorridono i Perfetti (168).

Su tutto domina una dimensione di totale interiorizzazione. Nella solitudine di colui che cerca, nella sua anima, si svolgono la vicenda, la fatica, la gioia del mondo. A lui si apre lo spettacolo iridescente e sempre uguale della forme e degli umani. Quegli umani che Siddharta insieme ama e disprezza, uomini-bambini (così li chiama) afferrati da passioni, dolori, soddisfazioni per enti ed eventi che agli occhi del saggio rappresentano un gioco.
Gli uomini, i molti, «sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (93).
A Siddharta, stella variabile e insieme ferma, gli eventi e il divenire rivelano alla fine la loro cifra più nascosta: il senso delle cose non è oltre e dietro di loro ma nelle cose stesse, nel loro tutto, nell’intero del quale è parte anche il tempo come increspatura dell’immobile infinità dell’essere. Ogni cosa è dunque perfetta:

In quell’ora, Siddhartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità (156).

Il mondo è perfetto, la Necessità lo governa. Sapienza è benedire la vita al di là di ogni passione, pensiero o dottrina. Ciò che va non può andare diversamente, ciò che accade non può in altro modo accadere. Il sorriso del Perfetto è l’ironia stessa di una sapienza senza trascendenze, riscatti, salvezze, senza senso alcuno. Sapienza del vuoto e del nulla che è l’altra parola per l’essere.
Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso di Spinoza. Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso dei Greci.

Il sapere dei Greci

«Uno strabiliante desiderio di conoscere»1 è il fondamento della cultura greca e della sua filosofia. Il fondamento dunque dell’Europa. Conoscere, non credere. Conoscere, non sperare. Conoscere, non un fare privo di consapevolezza. Credenze, speranze e azioni hanno senso soltanto se intessute della consapevolezza di ciò in cui si crede, di quanto si spera, di come si agisce.
È anche per questo che il sapere greco è ben diverso dalle visioni non argomentate delle culture soltanto religiose e dalle argomentazioni senza visioni delle culture soltanto razionalistiche. È anche per questo che il sapere greco non si strutturò, se non in rari casi, nella forma delle autoritarie ortodossie che caratterizzano molte delle esperienze culturali europee dall’avvento del cristianesimo in poi, comprese le ortodossie dei regimi totalitari del Novecento e delle tentazioni scientiste che percorrono il sapere contemporaneo e rischiano di distruggere il suo fondamento critico, dovuto anch’esso ai Greci.
Nessuna «ortodossia alla quale i suoi membri [dell’Accademia platonica] fossero obbligati a sottomettersi» (Pellegrin, 41); in essa vigeva piuttosto tutta «la libertà creatrice che contraddistingue il pensiero greco» (Lévy, 359). Lo stesso accadeva nel Liceo di Aristotele, «nel quale il maestro incorporava alcune delle critiche e dei commenti degli astanti, che di fatto più che allievi erano colleghi» (Pellegrin, 43) e dove sollevare obiezioni, questioni, critiche, era il normale modo di apprendere, come emerge anche dal «carattere problematico ed esplorativo di buona parte dell’opera aristotelica giunta sino a noi» (Sharples, 389).
La continuità e la distanza tra Platone e il suo migliore allievo non è che l’esempio più famoso e paradigmatico di «una sorprendente diversità, nella quale l’innovazione non appare inconciliabile con un’autentica fedeltà» (Brisson, 497).
È dalla filosofia «forse più originale che sia mai esistita» (Annas, 232), quella di Platone, che la struttura critica e la dimensione rivoluzionaria del pensiero greco emergono in tutta la loro evidenza. Già nelle sue scelte private Platone mostra un coraggio inaudito, rifiutando di sposarsi e di procreare figli, cosa che era vista come un dato semplicemente naturale e del tutto vincolante nei confronti della famiglia, del clan, della città. Nel modo del suo filosofare Platone rifiuta ogni autorità che non si fondi sulla plausibilità e sul rigore dell’argomentazione; elabora prospettive anche molto diverse tra i vari suoi Dialoghi (basti pensare alle tesi della Repubblica e delle Leggi, che sembrano quasi avere autori diversi); coniuga lo sguardo rivolto alla perfezione delle Forme ideali con una chiara legittimazione della ricerca dei piaceri esistenziali, come si nota non soltanto nel Filebo – dialogo che appunto ai piaceri è dedicato – ma anche nella Repubblica e nell’opera conclusiva, le Leggi, dove il fatto «che tutti cerchiamo la felicità […] necessariamente implica che in un modo o nell’altro cerchiamo una qualche forma di piacere» (Annas, 224). Il divieto posto a chi governa di possedere alcunché – compresa la famiglia, dei figli, qualunque bene economico – rimane probabilmente la richiesta più radicale che un progetto politico abbia mai rivolto a chi desidera il potere. È anche la complessità di tali cammini di pensiero a far sì che «non esista un modo incontestabile di presentare il pensiero di Platone» (Annas, 211) e a rendere la questione platonica un motore sempre acceso del pensiero.
Colui che di tale coraggio assorbì per intero profondità e sostanza, Aristotele, applicò ai campi più diversi la critica platonica a ogni dogma, fondando alcune delle scienze che tuttora costituiscono l’orizzonte del nostro sapere. Tra di esse è particolarmente feconda la biologia, che Aristotele coniuga sempre alla vita collettiva, presentando tesi che potremmo definire sociobiologiche, fondate sulla struttura corpomentale degli enti che hanno consapevolezza d’esserci in quanto individui posti sempre in relazione con altri individui e con il mondo:

Aristotele aveva definito l’anima come la forma dell’essere vivente. Ai suoi occhi dunque essa non era un’entità separabile e immateriale (come voleva Platone), né un particolare ingrediente materiale della creatura intera (come sosterrà, ad esempio, Epicuro). Tuttavia, sempre secondo Aristotele, l’anima non è semplicemente un prodotto dell’organizzazione delle parti del corpo, e quindi non è riducibile a esse: il corpo è spiegato dall’anima e, in generale, i composti di materia e forma debbano essere spiegati dalla forma (Sharples, 402).

In questa unità si fonda la natura di animale teoretico dell’uomo.
Dell’inesauribile ricchezza del sapere greco sono parte: il nesso indissolubile tra ciò che si conosce e il modo in cui si vive, il fatto che chi sa vive meglio di chi ignora; la lucidità con la quale Tucidide vede «nella paura, nel prestigio e nell’interesse le fonti principali delle azioni umane, iscritte da una necessità assoluta (anankē) in seno alla natura dell’uomo» (Ostwald, 337); la disincantata antropologia stoica, per la quale la figura del σοφός, sapiente e insieme saggio, costituisce un progetto asintotico e tuttavia da perseguire in ogni modo, nonostante gli umani siano «tutti ugualmente ‘nulli’ (phauloi, ‘senza alcun valore’, ‘ignoranti’ e ‘folli’ al tempo stesso)» (Brunschwig, 583).
Tra le questioni fondamentali dell’essere e del vivere, i Greci furono maestri del linguaggio, sia nel suo utilizzo pressoché perfetto tra i Sofisti sia nel tentativo eracliteo «di andare oltre i limiti del linguaggio ordinario» (Hussey, 119). Un tentativo del quale Heidegger ha colto per intero significato e fecondità, praticando nei suoi corsi e seminari una lettura di Eraclito che risponde ai criteri di rigore elencati qui da Edward Hussey:

Qualsiasi serio tentativo di interpretare il pensiero eracliteo deve soddisfare le quattro condizioni seguenti:
1 Tener conto del contesto intellettuale nel quale visse Eraclito […]
2 Rispettare l’unità sistematica del pensiero eracliteo celata dalla forma aforistica e implicita nelle corrispondenze tra espressione e significato che legano l’una all’altra le sentenze […]
3 Saper rilevare le indicazioni linguistiche fornite dai frammenti […]
4 Tener conto di ciò che dice o fa capire lo stesso Eraclito sulla natura del lavoro di interpretazione delle frasi difficili, e dell’identificazione che opera tra comprensione e interpretazione (121).

Tra le questioni fondamentali dell’essere e del vivere, i Greci furono maestri della metafisica. Non soltanto di quella dispiegata a partire da Platone e Aristotele sino al neoplatonismo ma anche di quella che li precede, quella dei pensatori arcaici, dell’ἀρχή, del principio, dell’inizio, i quali tutti intesero la φύσις come la condizione dalla quale e dentro la quale sorgono e splendono l’energia e la potenza delle cose che sono e che divengono, degli enti, degli eventi, dei processi, del movimento inteso nella varietà del suo darsi nello spazio e nel tempo.
È il tempo/temporalità che il sapere greco sa, conosce, esperisce e dice. Ancora una volta non soltanto nei fondatori ma in tutti. Epicuro, ad esempio, per il quale «mentre le affezioni del corpo sono limitate al presente, l’anima, che abbraccia il passato e il futuro, ne moltiplica l’intensità» (Laks, 111). O Stratone di Lampsaco, convinto che «il movimento e il tempo sono continui, mentre il numero è fatto di unità discrete; egli quindi definisce il tempo come quantità, o misura, sia del movimento sia del riposo, facendolo esistere così indipendentemente dal movimento» (Sharples, 396), tesi fondamentale che va oltre il limite aristotelico del tempo/movimento. O il maggiore dei commentatori dello Stagirita, Alessandro di Afrodisia, che affranca la temporalità dall’elemento numerante della mente, confermando la natura ontologica e non soltanto epistemologica del tempo:

Aristotele aveva ritenuto inoltre che non vi potesse essere tempo senza un’anima che eseguisse la numerazione (Fisica,  223 a 21 sgg.). Alessandro invece sostiene che il tempo è, per sua natura, un’unità, e che solo nel nostro pensiero esso viene suddiviso dall’istante presente. Ai suoi occhi dunque il tempo in se stesso potrebbe esistere al di fuori di ogni numerazione; ed egli sembra identificare il tempo così concepito col movimento continuo numerabile della sfera celeste più esterna (Sharples, 397). 

Anche per questo, se un anacronismo è concesso, la scienza contemporanea nella quale il sapere greco meglio e più si manifesta è la termodinamica, il cui nome è interamente ellenico, nel suo riferimento al movimento e al divenire del calore. Uno dei primi affrancatori da ogni superstizione, Anassagora, ritiene infatti che «le ‘cose che sono’ non nascono né muoiono, ma si ‘riuniscono’ (synkrisis) e si separano (diakrisis). Anassagora così potè concepire la storia del mondo non come l’immagine impoverita del discorso ontologico, ma come il luogo stesso del suo dispiegamento» (Laks, 6). Uno dei più radicali liberatori dalle paure, Epicuro, così sintetizza gli elementi del mondo:

La stoicheiōsis fisica comporta dieci proposizioni […] che comportano l’armatura indistruttibile della disciplina […]: 1) niente nasce da ciò che non esiste; 2) niente si dissolve in ciò che non esiste; 3) l’universo è sempre stato come è ora e lo rimarrà sempre; 4) l’universo è fatto di corpi e di vuoto; 5) i corpi sono di due tipi: atomi e composti di atomi (gli aggregati); 6) l’universo è infinito; 7) gli atomi sono infiniti di numero e il vuoto infinito per estensione; 8) gli atomi di forma identica sono di numero infinito, ma il numero delle loro forme è indefinito, non infinito; 9) il movimento degli atomi è incessante; 10) gli atomi hanno solo tre proprietà in comune con le cose sensibili: la forma, il volume e il peso (Laks, 104).

La fisica atomistica, la fisica termodinamica, la fisica della materia/struttura e della materiatempo, affondano  le radici in questo sapere. Non a caso non ci è rimasto alcun libro di uno dei più profondi filosofi di ogni tempo, Democrito. E questo perché «la tradizione atomista, rappresentata da Democrito e poi da Epicuro, cozzava brutalmente con gli interessi di coloro che ci hanno trasmesso la loro selezione dell’eredità classica, in particolare i letterati cristiani» (Furley, 68).
A Democrito vorrei dedicare il tentativo di metafisica che ho cercato di attuare in Tempo e materia. Che un platonico, quale in gran parte sono, possa fare una simile dedica è una piccola conferma della profonda libertà che i Greci hanno regalato a chiunque voglia coglierne i saperi.

Nota

1.P. Pellegrin, in Il sapere greco. Dizionario critico (Le savoir grec, Flammarion 1996), a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd; edizione italiana a cura di M.L. Chiesara, Einaudi 2007, vol. II, pp. 54-55. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

[Del primo volume di quest’opera coinvolgente ed enciclopedica ho parlato qui: La totalità dell’esistenza]

Adriano

Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini di appunti
(Mémoires d’Hadrien, suivi de Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien, 1951)
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, 1988
Pagine 330

È uno dei libri che restituiscono alla lettura il suo senso più proprio, il suo significato proustiano, il suo essere prima di ogni altra cosa un molteplice dialogo con se stessi e dunque un confronto pieno con l’esistere. La scrittura splendida e semplice di Marguerite Yourcenar mostra quanto vivo sia il mondo dei Greci, il mondo dei pagani.
Tra il 117 e il 138 dell’e.v. un uomo a tutto interessato, viaggiatore instancabile, soldato abilissimo, lettore e scrittore, amante della bellezza in ogni sua forma, politico accorto e lungimirante, prende il potere e fa della pax romana molto più che un’aspirazione o una formula. Con Adriano l’integrazione dei popoli, la molteplicità religiosa, lo sviluppo economico, la pace alle frontiere, l’incremento urbanistico, culturale, artistico, costituiscono delle realtà tangibili.
Yourcenar ha disegnato di quest’uomo un ritratto compiuto e di grande bellezza. Ha lavorato con acume su moltissime fonti ma non ha scritto un saggio storico. E tuttavia sono pochi gli episodi frutto di sola invenzione. L’autrice afferma di aver voluto «rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno» (p. 285). Ne scaturisce un’opera sintesi, nella quale i temi e i caratteri più propri dell’epoca imperiale al suo apogeo si intrecciano con motivi e pensieri universali, di profonda qualità filosofica.
Adriano vuole comprendere l’esistenza e gli enti; sa di disporre a questo scopo di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi […], l’osservazione degli uomini […] e i libri» (21-22). Questi ultimi sono stati la sua «prima patria» perché è tramite loro che per la prima volta ha «posato uno sguardo consapevole su se stesso» (32). Da allora ha compreso sempre più lo splendore e l’assurdità del vivere. La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni amorose, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (155).
Adriano molto ha sperimentato, da tante cose si è allontanato, senza però mai aver rinunciato a nulla che promettesse una sia pur piccola pienezza. Per lui il potere è stato soltanto un modo di essere libero: «Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà» (41). Il suo sguardo sugli umani è disincantato senza essere arido, è anzi colmo di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (205), fino a disperarsi per la morte dell’amato ed elevare a lui un vero e proprio culto: la religione di Antinoo. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella feconda tolleranza di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (253). Ha amato la Grecia e ha fatto di essa la vera padrona del mondo poiché da lei proviene «tutto quello che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico. Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «d’entrare nella morte a occhi aperti…» (276).
Ma Yourcenar non ha voluto proporre un’immagine ideale e dunque artificiosa di Adriano; lei stessa scrive con arguzia di essersi divertita «a fare e rifare questo ritratto d’un uomo quasi saggio» (286). Adriano non nasconde infatti a se stesso nessuna della proprie viltà, debolezze, limiti, e in questo modo mostra di essere -nonostante tutto– un nostro contemporaneo più che un imperatore del II secolo.
Forse il significato del libro consiste proprio nell’aver coniugato le epoche, nell’aver delineato l’umano nella sua espressione migliore e fatto di Adriano un contemporaneo lasciandolo essere un antico. A quale età appartengono parole come queste: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (184)? Appartengono a quel tempo lontano, al presente, al sempre.

La totalità dell’esistenza

Come europei ci sentiamo a casa quando entriamo in contatto con le strutture, le opere, i concetti degli Elleni. E nello stesso tempo sappiamo di essere in un paese straniero. Il modo greco di esistere e di conoscere è infatti incomparabile rispetto a ciò che è venuto dopo.
All’abbandono e all’insensatezza che accompagnano la desacralizzazione della materia cosmica e della materia umana, i Greci contrappongono la potenza e la persistenza del mito.
Rispetto alll’attuale dominio dell’etica in ogni aspetto della vicenda umana e naturale (bioetica, deontologie, proliferare di etiche normative), i Greci ritengono che sia la filosofia stessa la più efficace guida dei comportamenti, delle esistenze, dei conflitti.
Per i Greci la saggezza della vita (φρόνησις) è inseparabile dalla sapienza teorica (σοφία) e dove non si dà la seconda difficilmente può esserci la prima. La loro è 

una morale senza legge astratta né imperativo categorico. Il problema morale fondamentale è sapere che tipo di vita condurre e come formare il proprio carattere. […] È una morale senza dio e senza regole astratte, perché le norme non sono mai separate dal problema di sapere che genere di vita condurre. D’altra parte, non si trovano nemmeno l’idea dell’universalità delle obbligazioni, né la concezione di compagine umana, né la consapevolezza delle dimensione propria della storia. […] Per concludere, il pensiero greco è perfettamente integrato nella vita dell’uomo. La concezione greca della moralità può accogliere il destino, o il caso e le vicissitudini che caratterizzano la vita dell’uomo. È per questo che difende una concezione di uomo morale, razionalmente autosufficiente, libero, al riparo dalle contingenze. Nella certezza della precarietà della realizzazione morale […] il pensiero etico greco ritrova un legame essenziale con le opere degli autori tragici1.

Per i Greci che la praticavano, la filosofia non è affatto un mestiere –neppure per i Sofisti–, una eccentricità, un lusso, una parte del sistema delle scienze. La filosofia è –e non può che essere questo, non soltanto per i Greci ma per chiunque sia veramente filosofo– la totalità dell’esistenza, del tempo, dello sguardo, dell’agire. La filosofia è significato, strada, senso e redenzione: «Per riuscire a condurre una vita buona, per diventare un uomo che persegue il bene, per essere salvato, si debba essere filosofi. Su questo punto, da Socrate in poi, i filosofi concordano» (M. Frede, 8).
Guida di ogni momento, forma della totalità, strumento di salvezza, la filosofia è ontologia dalla quale deriva poi ogni altra questione, ambito, contesto. Prima di affrontare qualsiasi aspetto particolare e specifico, vanno infatti indagate, comprese e praticate tutte le possibilità, le alternative e le risposte alla questione dell’essere. La centralità del pensare platonico e aristotelico, anche rispetto alla profondità senza misura dei pensatori delle origini, consiste proprio nello sguardo ontologico che questi filosofi rivolgono a ogni frammento del mondo.
Anche da tale sguardo deriva l’antropodecentrismo della filosofia greca, così diverso dalla centralità dell’umano e persino della soggettività che caratterizza invece il pensiero cristiano, cartesiano e moderno. Proprio perché del tutto antropodecentrica, la filosofia più greca dell’età moderna è quella di Spinoza, giustamente richiamato da Jacques Brunschwig nell’affrontare la questione dello slancio del sapere greco, il quale si alza su 

un iniziale fondo di tristezza epistemologica: rispetto al sapere divino, le facoltà umane sono severamente limitate, per non dire inesistenti […] Ma accanto a questo pessimismo, che del resto non scomparirà mai, si riscontrano espressioni di vero entusiasmo epistemologico, che nasce e trae forza […] anche e soprattutto dall’idea tacitamente e quasi universalmente ammessa che l’uomo non sta nel mondo come un impero in un impero (per citare Spinoza), come un’isola imprigionata in rappresentazioni che schermano il reale; al contrario, l’uomo sta nel mondo come a casa propria, ne è parte integrante, è fatto della stessa stoffa (89).

Della stessa sostanza del mondo è fatta la parte di materia che si conosce e indaga anche se stessa partendo dall’ammissione che esiste una natura umana, senza la quale non è possibile spiegare la persistenza della lotta, del desiderio e della socialità pur nella miriade di forme mediante le quali lotta, desiderio e socialità si esprimono nel tempo e nello spazio.
Lotta, desiderio, socialità e limite. Nulla bisogna temere come la ὕβρις, la dismisura che ci illude sulle nostre capacità e soprattutto sul valore e il senso delle nostre vite, infime agli occhi degli dèi, vale a dire dell’intero che non conosce pianto. È anche questo lutto del valore a produrre la varietà di strategie che i Greci inventano e adottano per conoscere il mondo del quale siamo parte. È anche per questo che la scienza greca visse una feconda «tensione tra due concezioni molto diverse. La prima esige una scienza esatta, che dia risultati certi, apporti dimostrazioni che procedono da premesse evidenti per se stesse per arrivare attraverso deduzioni valide a conclusioni inconfutabili; la seconda fa spazio al probabile, alla congettura, all’esperienza» (G.E.R. Lloyd, 310).
La metafisica nata con Platone e Aristotele rimane una prospettiva fondante e insieme inattuale anche perché costituisce lo sforzo più radicale e più compiuto di non separare teoria e prassi, immersione nel flusso del tempo e comprensione del tempo come un’interezza non divisa in parti contrapposte e artificiose.
Se «la più grande vittoria di Parmenide» consiste nel fatto che «nessuno contesterà più che l’intelligibilità appartiene a ciò che è eterno e immutabile, e che ciò che è perituro o in movimento è tutt’al più oggetto di opinione» (P. Pellegrin, 379), la fisica eleatica si mostra la migliore alleata della modernità antimetafisica e sofistica, la quale giustamente respinge una concezione così lontana da ogni possibile esperienza fenomenologica ma ne deduce (sbagliando) che tutto sia opinione e che dunque una metafisica non ha legittimità euristica nel mondo.
E invece con Platone, con Aristotele, con gli Stoici va ribadito che il mondo è fatto di parti –Differenza e, insieme, che l’intero –Identità– è oltre la semplice somma aritmetica e quantitativa delle parti di cui è composto; va ripetuto «che esiste una differenza tra un essere identificabile e una massa informe di materia. In un essere vivente questo è del tutto ovvio, naturalmente; ma anche un lago, o una roccia, possiedono un principio di unità che li differenzia da una semplice massa d’acqua, o da un semplice sedimento minerale» (D.J. Furley, 368).
Anche questo gioco di identità e differenza fa l’unicità dei Greci, del loro pensare come del loro essere stati ed essere ancora. Anche per merito di tale equilibrio sempre diveniente, di questa mai statica e mai dispersa unità, va riconosciuto «all’esperienza greca, e in particolare ateniese, un valore unico nella storia delle società umane» (C. Mossé, 189).

1. M. Canto-Sperber, in Il sapere greco. Dizionario critico (Le savoir grec, Flammarion 1996), a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd; edizione italiana a cura di M.L. Chiesara, Einaudi 2007, vol. I, p. 142. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.

 
[Il secondo volume dell’opera è stato da me presentato e discusso qui: Il sapere dei Greci]

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