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Pilato

Pilato, il Sacro
in Vita pensata
n. 31, ottobre 2024
pagine 32-42

Indice
-Pilato, le fonti
-Pilato, lo scettico
-Pilato, il prigioniero
-Pilato, il filosofo
-Pilato, il disvelatore

Abstract

La figura e il nome del Procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, sono stati sempre oggetto di una lettura che cerca di coglierne l’enigma. E questo a partire dal fatto assai singolare che quello di Pilato è l’unico nome umano che appaia nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano, vale a dire nel Credo dei cristiano-cattolici. In questo saggio ho cercato di cogliere la profondità e la centralità di Pilato a partire dalle fonti storiche e da alcune delle principali interpretazioni letterarie. Ciò che emerge con chiarezza è che il nome di Pilato è intriso di una plurale e profonda dimensione sacrale.

The figure and name of the Procurator of Judea, Pontius Pilate, have always been the object of a reading that seeks to grasp its enigma. And this starting from the very singular fact that Pilate is the only human name that appears in the Nicene-Constantinopolitan Creed. In this paper I have tried to grasp the depth and centrality of Pilate, starting from historical sources and some of the main literary interpretations. What emerges clearly is that the name of Pilate is imbued with a plural and profound sacred dimension.

Berthold Werner – Caesarea maritima, Stein mit dem Namen des Pontius Pilatus

DissacrArte

Domenica 17 novembre 2024 alle 11.00 nella sede della Galleria Carta Bianca di Catania presenterò il numero 20 della rivista Antarès (Bietti Editore), dedicato ai rapporti tra Avanguardia e sacro nell’arte contemporanea. Insieme a me Luca Siniscalco, curatore della rivista, e Fulvia Toscano.

Antarès tocca, saggia, attraversa i territori sempre plurali del sacro: il sacro dei Greci, il sacro alchemico, il sacro cattolico, il sacro ortodosso (non può esserci sacro protestante), il sacro induista, il sacro di altre culture e popoli dell’Asia centrale. E questo anche, come scrive Luca Siniscalco nell’editoriale,  con l’obiettivo di «scoprire le tracce degli antichi dèi, edificando templi al deus adveniens».
Le condizioni per tentare con successo questa scoperta sono rigorose: anzitutto lasciare al loro destino  quelle forme estetiche che sono soltanto espressione, tipicamente moderna, di «un ego narcisistico alle prese con una superficiale interiorità». Un’espressione che Siniscalco mette coerentemente in relazione con il sistema dell’arte, vale a dire con quell’insieme di strutture, azioni, manufatti e informazione che secondo Giuseppe Frazzetto rappresenta il Terzo stato dell’arte.
Per i teorici, gli artisti, i narratori che hanno dato vita a questo numero della rivista, l’arte non è soltanto – è certamente anche – la vita di tale sistema, l’arte non è «mero divertissement, né uno strumento al servizio delle ideologie, bensì una topologia della libertà». Una definizione non soltanto molto bella ma anche e soprattutto molto vera. In questo l’arte è proprio un’espressione filosofica, dato che la filosofia è quasi impossibile dove non si respiri liberamente.
Per non risultare soltanto un divertimento, un ornamento, o l’ennesima espressione della forza delle autorità costituite, l’arte non può ricondursi e ridursi – come giustamente scriveva nel 1994 Alberto Abate – alla Linguistica o alla Psiconalisi, vale a dire al solo significante ma deve sempre puntare al disvelamento di significati. Non di un solo Significato, unico, dominante ed esclusivo, come neppure della «sterile confezione sterminata dei significanti», pronti a dissolversi al primo soffio delle mode del sistema dell’arte o, per dirla in altro modo, dello Zeitgeist, ma di una una molteplicità di significati, i quali emergono dal vedere il mondo e dal comunicare ciò che si è visto. L’arte come ontologia e l’arte come espressione.
Le analisi teoriche, le testimonianze prassiche, le proposte operative di Antarès possono essere ben riassunte in una formula di Luca Siniscalco il quale, riprendendo le affermazioni di alcuni artisti, parla di «un Antico Futuro […] ossia un richiamo all’Origine come ricerca d’Avanguardia, una conservazione estetica capace d’innovare».
Al di là di ogni progressismo e di tutti i conservatorismi il futuro sta nell’origine, sempre.

 

 

Tempo storico e molteplicità del tempo

Come ben sanno molti lettori di questo spazio, sono contrario a qualunque forma di lezione ‘a distanza’. Faccio un’eccezione per un evento che non è una lezione ma è un intervento nell’ambito di un PRIN (Progetto di Rilevante Interesse Nazionale) del quale sono membro.
Il PRIN ha come denominazione Synchronized with Nature. Measuring time in ancient Egypt and Mesopotamia: archaeological and textual evidence e ne fanno parte soprattutto professori e ricercatori di area archeologica e storica. Mi è stato proposto di parteciparvi in quanto studioso della struttura e dello statuto del tempo.
Giovedì 31 ottobre 2024 alle 17.00 terrò un seminario dal titolo COMPUTUS. Tempo storico e molteplicità del tempo.
Il link per partecipare è: https://meet.google.com/bwb-rjyn-vmh
In questa locandina si può leggere il programma completo dei seminari, che sono pubblici.

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Ci crediamo avanzati, colti, disincantati, razionali, esperti.
Eppure cadiamo nell’ingenuità di credere che il modo nel quale pensiamo e computiamo il tempo – noi, adesso – sia stato uguale da sempre o che almeno sia assai antico.
Non è così. Nelle società arcaiche, nei grandi imperi orientali, in Grecia, a Roma, nel Medioevo e sin nel cuore del XIX secolo ciò che a noi sembra naturale quanto il sole e il respiro – la conoscenza esatta dell’ora sino ai minuti e ai secondi – era sconosciuto o secondario. E questo semplicemente perché non era necessario e perché il tempo riguardava altre dimensioni rispetto a quelle del lavoro e delle relazioni umane, a cominciare dalla dimensione del sacro.

Sacro – Teologie II

È uscito il numero 31 (anno XIV, ottobre 2024) di Vita pensata.
Copio qui l’editoriale, che si può leggere anche a questo indirizzo: Sacro – Teologie II

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Il tema monografico del numero 30 (maggio 2024) della rivista ha riscosso un interesse che ci ha indotti a dedicare anche il numero 31 alla tematica antica, fondamentale e sempre rinnovata del sacro e delle teologie. I saggi che presentiamo costituiscono un ulteriore percorso che conferma la molteplicità delle prospettive con le quali si può pensare il sacro e praticare le teologie. E questo in modo del tutto indipendente da qualunque questione di fede. Quest’ultima riguarda infatti un atteggiamento personale, interiore e privato. Le religioni costituiscono l’espressione collettiva delle fedi, richiedono almeno un minimo di credenze relative ai miti fondativi delle religioni stesse e implicano dei riti pubblici e condivisi da parte di una data comunità, più o meno ampia. Le teologie nascono dal tentativo di trovare o attribuire un fondamento razionale alle fedi religiose. Il sacro si pone invece su un altro livello sia epistemologico sia ontologico.
Il sacro non implica infatti nessuna fede, pur non escludendola; non si struttura in organizzazioni ben definite, anche se può benissimo farlo; non si esprime necessariamente in dei riti storicamente stratificati, pur manifestandosi spesso anche attraverso di essi. Il sacro è il vero oggetto delle teologie, le quali dunque non hanno a che fare con le persone divine (una o molte che siano) bensì con l’esigenza e la capacità umana di pensare sino in fondo le questioni relative alla struttura e al significato del cosmo; alla presenza in esso della vita in generale e di quella umana in particolare; alla possibilità di dare un fondamento razionale alle credenze sulle origini, il senso e il destino dell’esserci individuale e collettivo. Come si vede, teologie e filosofie esprimono di fatto la medesima esigenza di comprensione e di giustificazione del compreso. Non è quindi per caso, ma per ragioni intrinseche e fondate, che in questo numero di Vita pensata compaiano nomi quali Sofia Vanni Rovighi, Giorgio Agamben, Augusto Del Noce, Proclo, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Friedrich Dürrenmatt, Lev Tolstoj, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Karl Jaspers, Winfried Georg Sebald, Rudolf Otto e altri ancora. Si tratta di una costellazione di filosofi, artisti, storici, narratori, teologi la cui opera è, in modi naturalmente diversi e rizomatici, dedicata al sacro, al suo significato, all’enigma e alla potenza che lo costituiscono.
Siamo inoltre molto soddisfatti di poter pubblicare una recente e assai chiara riflessione da Giuseppe Savoca dedicata alle molte, delicate e urgenti questioni relative al rapporto tra l’umano e le intelligenze artificiali, testo presentato dall’autore inaugurando un recente convegno dell’Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale. A questo contributo si aggiunge un’analisi, come sempre limpida e radicale, di Stefano Isola sugli effetti del Covid-19 in ambiti poco discussi ma significativi come quelli dell’ascolto musicale, questione che l’autore intreccia anch’egli con il tema delle intelligenze artificiali.
Si tratta, come si vede, di pensare la vita e di fare dell’esistenza un’occasione quotidiana di apprendimento critico. Di quest’ultimo aggettivo e atteggiamento le società contemporanee mostrano di avere un particolare bisogno.

Pio Colonnello su Chronos

Pio Colonnello
Tra αἰών e καιρός
Rileggendo
Chronos di Alberto Giovanni Biuso
in Vita pensata
n. 30, maggio 2024
pagine 24-29


Abstract
 

La presente nota ripercorre alcune piste riflessive di un volume complesso che, abbracciando l’intera storia della nostra tradizione filosofica, presenta affascinanti proposte riflessive. Nella mia lettura volgo una particolare attenzione all’incrocio del concetto di tempo con l’orizzonte del tragico e la dimensione del sacro, interpellando cinque figure emblematiche: Euripide, Leopardi, Nietzsche, Heidegger, Canetti. 

This note retraces some reflective paths of a complex volume which, spanning the entire history of our philosophical tradition, presents fascinating reflective proposals. In my reading I pay particular attention to the intersection of the concept of time with the horizon of the tragic and the dimension of the sacred, questioning five emblematic figures: Euripides, Leopardi, Nietzsche, Heidegger, Canetti. 

Poiesis / Techne

Hangar Bicocca– Milano

Chiara Camoni
Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e Fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentasse

A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 21 luglio 2024

Nari Ward  – Ground Break
A cura di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi
Sino al 28 luglio 2024

Chiara Camoni cerca, raccoglie, plasma, inventa, progetta e costruisce la materia vegetale e minerale. La materia bella. La materia – rami, marmo, sassi, fiori – trasformata in forme religiose, mitologiche, sacre.

Il religioso è un sentimento che si esprime anche in forme istituzionali, in dottrine più o meno rigorose e dogmatiche, in rivelazioni che il fedele può interpretare ma non respingere. Il mitologico è la potenza del racconto che spiega in forme molteplici, contraddittorie, ironiche e violente l’origine del cosmo, il derularsi della materia, l’incarnazione del divino, l’identità con esso dell’umano. Il sacro è l’enigma di un significato assoluto, perduto, sempre tenacemente ricercato e a volte trovato sia in interiore homini  sia nel cosmo, nella tonalità panteistica della sapienza.
Camoni esprime soprattutto quest’ultima dimensione attraverso il fiorire di alberi antropomorfici che diventano idoli ai quali anche accendere candele; attraverso il gioco simbolico di pavimenti a mosaico che sembrano resti di antiche basiliche dove si adora il cielo; 

attraverso marmi, argille, terrecotte che assumono forme zoomorfe come serpenti di pietra sinuosi tra le dee e i pavimenti; assumono soprattutto le forme di leonesse, di cani e di una bellissima, fiera, ieratica lupa.

Lo spazio di Chiara Camoni è tutto alla luce del giorno. Quello di Nara Ward è invece immerso in un buio dal quale emergono anche in questo caso forme e figure simboliche e apotropaiche. Sembrano quindi due mostre in apparente e in parte reale continuità. Ma rispetto alla freschezza materica di Camoni, Ward ripete di continuo il gesto di Duchamp, raccogliendo oggetti di uso quotidiano, elevandoli e trasformandoli in forme archetipiche. E quindi vediamo e osserviamo l’ennesima raccolta di rifiuti, di elettrodomestici, di sanitari. È una discarica plasmata in forme a volte anche pretenziose.
Pretesa che raggiunge il culmine della furbizia con la Home Smiles, una macchinetta per scatolette attraverso la quale – a dire del catalogo – «l’artista raccoglie e vende i sorrisi, offerti dai passanti che si specchiano all’interno di scatolette di latta che vengono poi sigillate» (pp. 23-24). Il fatto che poi questi ‘sorrisi inscatolati’ vengano venduti (a 15 € l’uno) a sostegno dell’organizzazione «Save the Children» aggiunge a questa banale imitazione della Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) un’insopportabile patina di compassionevole conformismo.
L’insieme delle due mostre in corso allo Hangar potrebbe essere sintetizzato come un itinerario dalla sacralità della Terra alla ὕβρις della tecnologia, dalla ποίησις alla τέχνη.

In generale, e con riferimento all’opera di Ward ma anche di moltissimi altri artisti e performer viventi, si assiste sempre più all’inevitabile manierismo del contemporaneo. Forse sarebbe da auspicare un’avanguardia che compia opera di rottura con gli epigoni del XX secolo (il plagio di Ward da Manzoni fa anche tenerezza nella sua esplicita mancanza di creatività) ed esprima in forme riconoscibili, in forme altre, in forme distanti, una bellezza pura, metafisica. Senza però indulgere in classicismi e in nostalgie. È difficile, certo, ma ormai è necessario per evitare l’eterno ritorno dell’identico in numerose mostre, in troppi artisti. Una piccola traccia di questa possibilità è un’opera dello stesso Ward che si intitola Wishing Arena (2023); opera che viene presentata in questo modo: «l’artista si misura con l’architettura del sacro» (p. 14) e che nella sua struttura circolare e armonica permette di meditare mentre la si osserva. Torniamo così all’inizio, torniamo all’essenziale.

Mysterium iniquitatis

Recensione a:
Mysterium iniquitatis. Le encicliche dell’ultimo papa
di Sergio Quinzio
in Vita pensata
n. 30, maggio 2024
pagine 161-165

Per comprendere quale sia nel nostro tempo, e al di là di esso, lo statuto del sacro questo libro di Sergio Quinzio è indispensabile. In esso infatti l’autore rifiuta esplicitamente la primalità del sacro a favore invece della fede intesa come una ben precisa fede, quella biblica così come è stata costruita, proposta, imposta e infine ritirata dalla Chiesa romana.
Alla fine della sua lunga attività di esegeta biblico e di teologo, del tutto consapevole della «deludente vicenda bimillenaria del sempre più vago, timido, incerto, reticente annuncio cristiano nel mondo» e del suo sostanziale «fallimento», Quinzio immagina, seguendo una controversa profezia del monaco Malachia, che l’ultimo papa prenda il nome del primo, chiamandosi Pietro II e che questo papa di fronte alla «proliferazione di tanti cristianesimi dai contenuti sempre più vaghi e contraddittori» scriva due encicliche, la prima dedicata alla resurrezione dei morti, la seconda al Mysterium iniquitatis del quale parla Paolo di Tarso nella II Lettera ai Tessalonicesi. 

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