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Il tempo si dice in molti modi

Lo scorso 31.10.2024 tenni un seminario (a distanza) nell’ambito del PRIN  Synchronized with Nature. Measuring time in ancient Egypt and Mesopotamia: archaeological and textual evidence. Il titolo era COMPUTUS. Tempo storico e molteplicità del tempo. In quell’occasione ci soffermammo quasi esclusivamente sulle diverse forme del computus, del calcolo del tempo nelle diverse civiltà, epoche e culture europee.
La seconda parte del seminario si svolgerà il prossimo giovedì, 16 gennaio 2025.
Parleremo di come il tempo si dica appunto in molti modi, costituisca una realtà pervasiva e molteplice.
Presenterò (brevemente) nove forme del tempo: cosmico, fisico, convenzionale, sociale, psicologico, somatico, genetico, antropologico e il tempo/temporalità.
Spero che la definizione di queste forme ci faccia meglio comprendere che l’essere umano è tempo incarnato; il corpomente è la consapevolezza dell’essere noi stessi tempo: «L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo» (Heidegger). Una tesi come questa non esprime un primato coscienzialistico sulla temporalità ma la costitutiva temporalità del nostro essere, che fuori dal tempo è letteralmente incomprensibile, indicibile, inesistente.
Che l’umano sia un grumo temporale non vuol dire che il tempo si risolva in noi ma, al contrario, che siamo noi a risolverci nel tempo, il quale «è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco» (Borges)

Il link per partecipare è: https://meet.google.com/bwb-rjyn-vmh
In questa locandina si può leggere il programma completo dei seminari, che sono pubblici.

[L’immagine di apertura è una fotografia della galassia M104 / NGC 4594, denominata Sombrero, distante dalla Terra 29,5 milioni di anni luce]

Conclave

Conclave
di Edward Berger
USA, 2024
Con: Ralph Fiennes (il cardinal Lawrence), John Lithgow (il cardinal Tremblay), Stanley Tucci (il cardinal Bellini), Lucian Msamati (il cardinal Adeyemi), Sergio Castellitto (il cardinal Tedesco), Isabella Rossellini (Suor Agnes)
Sceneggiatura di Robert Harris (II) e Peter Straughan
Fotografia di James Friend e Stéphane Fontaine
Trailer del film

La Chiesa cattolica romana è un’istituzione millenaria. Come tutte le istituzioni, è animata dalle passioni, dagli interessi, dagli inganni, dalle malvagità, dalle generosità e dagli ideali degli esseri umani.
Un momento fondamentale nell’esistenza di questa struttura teologico-politica è il passaggio dalla dichiarazione di «sede vacante», quando il Papa regnante muore, al proclama: «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!», allorquando il suo successore è stato eletto. È in quel momento, che può durare giorni o settimane, che converge a Roma il più antico ed esclusivo gruppo di potere del mondo, quello dei prelati che costituiscono il cardine della Chiesa romana. È del tutto ovvio e naturale che nei giorni del conclave si manifestino e confliggano visioni assai diverse dell’umano e della storia. E dunque visioni assai diverse della Chiesa. 

Il romanzo di Robert Harris Conclave racconta questo evento in un momento indefinito ma assai delicato, intriso di tensioni politiche e belliche internazionali. Il Papa è morto all’improvviso e a guidare i cardinali è chiamato il Decano del Sacro Collegio, il cardinale britannico Thomas Lawrence. Un uomo sensibile, profondo, poco incline alla politica ma molto attento a uomini e circostanze. Dovrà guidare un Collegio ideologicamente diviso nel quale le ambizioni personali esprimono modelli assai diversi di Chiesa.
Molti sono i colpi di scena ma sono secondari rispetto allo splendore dei luoghi, all’eleganza degli abiti, alla antichità delle formule, alla solennità del latino nei momenti decisivi. Il cuore della Chiesa romana è la Cappella Sistina, sede del Conclave, perché il cuore luminoso della Chiesa romana è la bellezza, è l’arte, è il sapere, è il rito. È quella dimensione profonda e sacra che le chiese e le sette riformate hanno perduto perché a essa hanno esplicitamente rinunciato, stoltamente convinte che il luogo della fede sia ‘il cuore e l’interiorità’ degli umani, vale a dire quanto di più aleatorio e miserabile ci sia. 

Il pericolo reale, non inventato o narrativo, che la Chiesa Romana corre da tempo è la tentazione di diventare come i riformati, vale a dire di morire in quanto Chiesa e continuare a vivacchiare come insieme di associazioni filantropiche. Una tendenza ben presente nell’attuale pontificato, che sembra guidato più da un sociologo che da un uomo sacro. Dato che l’unica forma decente di cristianesimo è quella cattolica, e in parte quella ortodossa, mi dispiacerebbe se essa dovesse scomparire, sostituita da un insieme di gruppi che credono di essere loro la chiesa e sono invece composti, come tutte le sette, da soggetti problematici e del tutto incentrati su di sé, sul loro ‘cuore’, sulle loro certezze etiche, sui loro ‘valori’.
Il film è elegante e fascinoso. Ha un solo grave difetto: negli ultimi dieci minuti si inceppa in modo implausibile e bizzarro con un finale in clamoroso ed evidente contrasto con tutto ciò che lo precede, un finale politicamente ultracorretto. Peccato, è il caso di dire. Come ha commentato una mia amica, questa faccenda del politicamente corretto non soltanto va deturpando anche le migliori opere letterarie, teatrali e cinematografiche ma «ormai sta diventando un requisito patetico, come i titoli di coda».
In Conclave gli ultimi dieci minuti sono banali e del tutto trascurabili. Il film si conclude davvero, avrebbe dovuto concludersi, con l’elezione di un cardinale che aveva pensato di prendere il nome di Giovanni, evidentemente XXIV. Un film realistico, splendidamente fotografato, coinvolgente, godibile.

Il ritorno degli dèi

Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano
Reggio Calabria – Museo Archeologico Nazionale
A cura di Massimo Osanna e Jacopo Tabolli
Sino al 12 gennaio 2025

Sempre ritornano perché mai se ne sono andati. Nascosti nelle pieghe della dissoluzione umanistica, mascherati nei dogmi dei monoteismi, potenti dentro la Φύσις, sorridenti nella luce, gli dèi sono sempre con noi e accompagnano – distanti – coloro che riconoscono nella materia e nel cosmo il Tutto del quale l’umano è soltanto una parte, un epifenomeno, un gioco, un dramma.
Questo è il politeismo, che trascorre dunque subito in panteismo. Lo si vede bene nei bronzi che dall’estate del 2022 sono ricomparsi nel Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, una località in provincia di Siena dove (come si legge nella scheda che il Museo di Reggio Calabria ha dedicato all’evento) uno scavo stratigrafico ha portato alla luce «il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo. Riproduzioni di parti anatomiche, offerte per chiedere alle divinità la salute o ringraziare di una guarigione, e statue realizzate secondo i canoni della cosiddetta mensura honorata (alti tre piedi romani, equivalenti a circa un metro), che raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro o i fedeli dedicanti. La gran parte di questi pregevoli reperti si data tra il II e il I secolo a.C., un periodo storico di grandi trasformazioni che vede la definitiva romanizzazione delle potenti città etrusche».
Tutto questo costituiva la vita di un antico santuario posto nella città-stato etrusca di Chiusi, luogo che dal III secolo a.e.v. al V secolo e.v. ebbe nell’acqua sacra il principale elemento identitario.
Compare dunque davanti al visitatore la potenza dell’acqua che ha conservato questi bronzi come il mare ha fatto con quelli di Riace, l’acqua delle fonti che Servio afferma giustamente essere sempre sacra; 

compare la gratitudine verso gli dèi che spingeva i pagani a dedicare loro statuette, parti anatomiche, gioielli; compare la potenza del fulmine che indicò agli umani di quelle terre dove seppellire i loro bronzi per onorare il dio che si era mostrato; 

compare la potenza di questo dio, che è Zeus ma è anche Apollo «arciere dall’arco di argento» come lo chiama Omero; compare ovunque un significato totale della vita. Totale e disincantato, luminoso e tragico.

L’antropocentrismo monoteistico dei figli di Mosè, dei nazareni, dei maomettani ha tolto senso al mondo relegandolo nel dio unico, padre assoluto e signore feroce, generando così il problema ecologico dato dalla distruzione dell’οἶκος, la comune casa dei viventi. Tracce del politeismo si scorgono ancora per fortuna nel Cattolicesimo Romano, con il suo culto per i santi, alle cui guarigioni continuano a essere dedicati gli ex voto. Sono, queste, flebili tracce di una comunanza e consolazione che intesseva le vite degli antichi.
I quali anche per questo potevano generare la stupefacente armonia e bellezza dei due Bronzi che dominano lo spazio del Museo Archeologico di Reggio Calabria. 

Visibili anche dalla piazza centrale dell’edificio, giustamente dedicata all’archeologo Paolo Orsi, e poi accoglienti nella sala a essi soltanto dedicata, questi dèi in forma umana sono un emblema limpido e chiarissimo della filosofia greca, del suo superamento di ogni umanesimo nel momento stesso in cui sembra celebrarlo, della metamorfosi della materia – il bronzo – in elemento sacro, della vittoria delle forme su ogni barbarie e bruttura. Accostarsi a queste due entità vuol dire avvicinarsi al dio.
Il museo della città magnogreca accoglie nei suoi spazi migliaia di reperti di varia natura, epoca, fattura, invitando a un percorso dentro la vicenda della Μεγάλη Ἑλλάς, della Grecia oltre la Grecia con la quale gli Elleni donarono al Mediterraneo luce.

Nella piazza di ingresso del Museo è attualmente allestita un’esposizione di opere contemporanee. Tra queste i Guerrieri di Filippo Balice (2024) coniugano le forme arcaiche e gli stilemi di oggi, rendendo ancora una volta vivo l’antico, che mai è morto.

Usciti dal Museo, l’ampio lungomare di Reggio Calabria offre allo sguardo i due mari che si incontrano, l’Etna che sta, la luce senza fine del Mediterraneo.

Pilato

Pilato, il Sacro
in Vita pensata
n. 31, ottobre 2024
pagine 32-42

Indice
-Pilato, le fonti
-Pilato, lo scettico
-Pilato, il prigioniero
-Pilato, il filosofo
-Pilato, il disvelatore

Abstract

La figura e il nome del Procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, sono stati sempre oggetto di una lettura che cerca di coglierne l’enigma. E questo a partire dal fatto assai singolare che quello di Pilato è l’unico nome umano che appaia nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano, vale a dire nel Credo dei cristiano-cattolici. In questo saggio ho cercato di cogliere la profondità e la centralità di Pilato a partire dalle fonti storiche e da alcune delle principali interpretazioni letterarie. Ciò che emerge con chiarezza è che il nome di Pilato è intriso di una plurale e profonda dimensione sacrale.

The figure and name of the Procurator of Judea, Pontius Pilate, have always been the object of a reading that seeks to grasp its enigma. And this starting from the very singular fact that Pilate is the only human name that appears in the Nicene-Constantinopolitan Creed. In this paper I have tried to grasp the depth and centrality of Pilate, starting from historical sources and some of the main literary interpretations. What emerges clearly is that the name of Pilate is imbued with a plural and profound sacred dimension.

Berthold Werner – Caesarea maritima, Stein mit dem Namen des Pontius Pilatus

DissacrArte

Domenica 17 novembre 2024 alle 11.00 nella sede della Galleria Carta Bianca di Catania presenterò il numero 20 della rivista Antarès (Bietti Editore), dedicato ai rapporti tra Avanguardia e sacro nell’arte contemporanea. Insieme a me Luca Siniscalco, curatore della rivista, e Fulvia Toscano.

Antarès tocca, saggia, attraversa i territori sempre plurali del sacro: il sacro dei Greci, il sacro alchemico, il sacro cattolico, il sacro ortodosso (non può esserci sacro protestante), il sacro induista, il sacro di altre culture e popoli dell’Asia centrale. E questo anche, come scrive Luca Siniscalco nell’editoriale,  con l’obiettivo di «scoprire le tracce degli antichi dèi, edificando templi al deus adveniens».
Le condizioni per tentare con successo questa scoperta sono rigorose: anzitutto lasciare al loro destino  quelle forme estetiche che sono soltanto espressione, tipicamente moderna, di «un ego narcisistico alle prese con una superficiale interiorità». Un’espressione che Siniscalco mette coerentemente in relazione con il sistema dell’arte, vale a dire con quell’insieme di strutture, azioni, manufatti e informazione che secondo Giuseppe Frazzetto rappresenta il Terzo stato dell’arte.
Per i teorici, gli artisti, i narratori che hanno dato vita a questo numero della rivista, l’arte non è soltanto – è certamente anche – la vita di tale sistema, l’arte non è «mero divertissement, né uno strumento al servizio delle ideologie, bensì una topologia della libertà». Una definizione non soltanto molto bella ma anche e soprattutto molto vera. In questo l’arte è proprio un’espressione filosofica, dato che la filosofia è quasi impossibile dove non si respiri liberamente.
Per non risultare soltanto un divertimento, un ornamento, o l’ennesima espressione della forza delle autorità costituite, l’arte non può ricondursi e ridursi – come giustamente scriveva nel 1994 Alberto Abate – alla Linguistica o alla Psiconalisi, vale a dire al solo significante ma deve sempre puntare al disvelamento di significati. Non di un solo Significato, unico, dominante ed esclusivo, come neppure della «sterile confezione sterminata dei significanti», pronti a dissolversi al primo soffio delle mode del sistema dell’arte o, per dirla in altro modo, dello Zeitgeist, ma di una una molteplicità di significati, i quali emergono dal vedere il mondo e dal comunicare ciò che si è visto. L’arte come ontologia e l’arte come espressione.
Le analisi teoriche, le testimonianze prassiche, le proposte operative di Antarès possono essere ben riassunte in una formula di Luca Siniscalco il quale, riprendendo le affermazioni di alcuni artisti, parla di «un Antico Futuro […] ossia un richiamo all’Origine come ricerca d’Avanguardia, una conservazione estetica capace d’innovare».
Al di là di ogni progressismo e di tutti i conservatorismi il futuro sta nell’origine, sempre.

 

 

Tempo storico e molteplicità del tempo

Come ben sanno molti lettori di questo spazio, sono contrario a qualunque forma di lezione ‘a distanza’. Faccio un’eccezione per un evento che non è una lezione ma è un intervento nell’ambito di un PRIN (Progetto di Rilevante Interesse Nazionale) del quale sono membro.
Il PRIN ha come denominazione Synchronized with Nature. Measuring time in ancient Egypt and Mesopotamia: archaeological and textual evidence e ne fanno parte soprattutto professori e ricercatori di area archeologica e storica. Mi è stato proposto di parteciparvi in quanto studioso della struttura e dello statuto del tempo.
Giovedì 31 ottobre 2024 alle 17.00 terrò un seminario dal titolo COMPUTUS. Tempo storico e molteplicità del tempo.
Il link per partecipare è: https://meet.google.com/bwb-rjyn-vmh
In questa locandina si può leggere il programma completo dei seminari, che sono pubblici.

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Ci crediamo avanzati, colti, disincantati, razionali, esperti.
Eppure cadiamo nell’ingenuità di credere che il modo nel quale pensiamo e computiamo il tempo – noi, adesso – sia stato uguale da sempre o che almeno sia assai antico.
Non è così. Nelle società arcaiche, nei grandi imperi orientali, in Grecia, a Roma, nel Medioevo e sin nel cuore del XIX secolo ciò che a noi sembra naturale quanto il sole e il respiro – la conoscenza esatta dell’ora sino ai minuti e ai secondi – era sconosciuto o secondario. E questo semplicemente perché non era necessario e perché il tempo riguardava altre dimensioni rispetto a quelle del lavoro e delle relazioni umane, a cominciare dalla dimensione del sacro.

Sacro – Teologie II

È uscito il numero 31 (anno XIV, ottobre 2024) di Vita pensata.
Copio qui l’editoriale, che si può leggere anche a questo indirizzo: Sacro – Teologie II

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Il tema monografico del numero 30 (maggio 2024) della rivista ha riscosso un interesse che ci ha indotti a dedicare anche il numero 31 alla tematica antica, fondamentale e sempre rinnovata del sacro e delle teologie. I saggi che presentiamo costituiscono un ulteriore percorso che conferma la molteplicità delle prospettive con le quali si può pensare il sacro e praticare le teologie. E questo in modo del tutto indipendente da qualunque questione di fede. Quest’ultima riguarda infatti un atteggiamento personale, interiore e privato. Le religioni costituiscono l’espressione collettiva delle fedi, richiedono almeno un minimo di credenze relative ai miti fondativi delle religioni stesse e implicano dei riti pubblici e condivisi da parte di una data comunità, più o meno ampia. Le teologie nascono dal tentativo di trovare o attribuire un fondamento razionale alle fedi religiose. Il sacro si pone invece su un altro livello sia epistemologico sia ontologico.
Il sacro non implica infatti nessuna fede, pur non escludendola; non si struttura in organizzazioni ben definite, anche se può benissimo farlo; non si esprime necessariamente in dei riti storicamente stratificati, pur manifestandosi spesso anche attraverso di essi. Il sacro è il vero oggetto delle teologie, le quali dunque non hanno a che fare con le persone divine (una o molte che siano) bensì con l’esigenza e la capacità umana di pensare sino in fondo le questioni relative alla struttura e al significato del cosmo; alla presenza in esso della vita in generale e di quella umana in particolare; alla possibilità di dare un fondamento razionale alle credenze sulle origini, il senso e il destino dell’esserci individuale e collettivo. Come si vede, teologie e filosofie esprimono di fatto la medesima esigenza di comprensione e di giustificazione del compreso. Non è quindi per caso, ma per ragioni intrinseche e fondate, che in questo numero di Vita pensata compaiano nomi quali Sofia Vanni Rovighi, Giorgio Agamben, Augusto Del Noce, Proclo, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Friedrich Dürrenmatt, Lev Tolstoj, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Karl Jaspers, Winfried Georg Sebald, Rudolf Otto e altri ancora. Si tratta di una costellazione di filosofi, artisti, storici, narratori, teologi la cui opera è, in modi naturalmente diversi e rizomatici, dedicata al sacro, al suo significato, all’enigma e alla potenza che lo costituiscono.
Siamo inoltre molto soddisfatti di poter pubblicare una recente e assai chiara riflessione da Giuseppe Savoca dedicata alle molte, delicate e urgenti questioni relative al rapporto tra l’umano e le intelligenze artificiali, testo presentato dall’autore inaugurando un recente convegno dell’Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale. A questo contributo si aggiunge un’analisi, come sempre limpida e radicale, di Stefano Isola sugli effetti del Covid-19 in ambiti poco discussi ma significativi come quelli dell’ascolto musicale, questione che l’autore intreccia anch’egli con il tema delle intelligenze artificiali.
Si tratta, come si vede, di pensare la vita e di fare dell’esistenza un’occasione quotidiana di apprendimento critico. Di quest’ultimo aggettivo e atteggiamento le società contemporanee mostrano di avere un particolare bisogno.

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