Ringrazio Pasquale D’Ascola per avermi segnalato un’analisi geostrategica che mi sembra del tutto plausibile. Si intitola Il chiarimento del caos. Perché gli USA usano l’ISIS per conquistare l’Eurasia. È stata pubblicata l’8.9.2014 su Informare per resistere. Lettere dalla Resistenza.
È un testo che sistematizza concetti e ipotesi che formulo anch’io da tempo. Qualche traccia -a proposito di Pasolini, della ‘sinistra’ istituzionale, del dominio statunitense sulla società dello spettacolo- l’avevo elaborata già nel 1998 in Contro il Sessantotto.
L’analisi inizia con un riferimento ai corsari dell’età moderna, incipit tanto esatto quanto illuminante.
Per il resto, basti ricordare -cosa che i media mainstream hanno di botto dimenticato (con qualche interessante eccezione)- che l’ISIS -lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante– cominciò ad apparire ufficialmente in Siria, nella guerra civile contro il regime di Assad organizzata e sostenuta degli USA, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Queste potenze sono state quindi alleate dei terroristi tagliatori di teste.
A chi è scettico sulla possibilità che «la maggiore democrazia del mondo» si spinga a tanto, l’articolo ricorda che «il regista Oliver Stone e lo storico Peter Kuznick con molto acume hanno fatto notare che con Hiroshima e Nagasaki gli USA non solo volevano dimostrare al mondo di essere superpotenti, ma anche –cosa ancor più preoccupante- che non avrebbero avuto alcuno scrupolo nella difesa dei propri interessi: erano pronti a incenerire in massa uomini, donne e bambini». La totale spregiudicatezza degli Stati Uniti nella creazione e conservazione del loro potere mondiale non è una fantasia degli antiamericanisti ma una realtà storica documentata in molti modi dalla II Guerra mondiale in avanti. L’elenco allungherebbe inutilmente questa nota; per rendersene conto basta conoscere un poco di storia contemporanea.
Ma l’elemento più interessante è il reale obiettivo del terrorismo sostenuto in modo così ambiguo ma anche così convinto dagli Stati Uniti d’America: neutralizzare la Russia (tutta la vicenda Ucraina ha questo pericolosissimo scopo, assolutamente autolesionistico per l’Europa) e minacciare la Cina, il vero nemico futuro -economico e politico- degli States, quello che porterà a un conflitto totale, al compimento di ciò che l’autore chiama giustamente la «Terza Guerra Mondiale a Zone», iniziata l’11 settembre 2001 e da allora sempre più capillare, estesa, violenta, apparentemente oscura nella sue modalità anche finanziarie ma in realtà evidente nei suoi obiettivi. Non aver compreso tale dinamica geopolitica è stata ed è (anche questo viene ben chiarito nell’articolo) una delle principali cause del tramonto politico e culturale di ciò che dal 1848 è stato chiamato «sinistra».
Per l’Europa, contro l’Occidente
Che cosa accadrebbe se una qualsiasi potenza politica massacrasse centinaia di bambini con le loro madri, distruggesse le loro case e città, li rinchiudesse dietro e dentro un muro con scarsa acqua, pochi farmaci, nel totale abbandono? Ma se a fare tutto questo -un genocidio- è Israele, la stampa ‘occidentale’ minimizza, nasconde, sopisce e tronca.
Che cosa sarebbe accaduto sulla stampa italiana -e in genere filostatunitense- se più di quaranta persone fossero state bruciate vive in Ucraina da militanti filorussi? Ma poiché a compiere un simile massacro sono stati dei «sostenitori del governo di fatto ucraino -che, caso strano, nessun giornalista definisce ‘di destra’, malgrado il colore di chi lo sostiene politicamente o con le armi, per non pregiudicarne la reputazione presso la componente più progressista della schiera dei ‘difensori dei diritti dell’uomo’», questi e altri eventi sono stati «sottaciuti, relegati a breve di cronaca» (M. Tarchi, in Diorama letterario 319, 2014, p. 3).
Un evento così atroce sul quale si è steso il silenzio dimostra quale sia il livello di autonomia della ‘libera stampa occidentale’, un livello quasi nullo. Quando qualcuno si rallegra che alcuni giornali chiudano -e io sono tra costoro- è perché una stampa asservita sino a questo punto non è inutile, è dannosa. Essa dà infatti l’illusione di una libertà che non esiste. E in Occidente non esiste poiché in realtà la Guerra fredda non è mai finita: «La fine del sistema sovietico non ha minimamente modificato i dati fondamentali della geopolitica. Li ha, viceversa, resi più evidenti. Dal 1945 in poi, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di impedire l’emergere di una potenza concorrente nel mondo» (A. de Benoist, p. 4). E a tale fine stanno accerchiando quanto più possibile la Russia. La guerra civile in Ucraina -voluta e finanziata dalla Nato, vale a dire dagli USA- è funzionale al disegno di «un mondo unipolare soggetto all’ideologia dominante rappresentata dal capitalismo liberale» (Ibidem).
In questo quadro l’Europa non esiste più. L’Europa è completamente asservita agli interessi degli USA e della loro economia. Emblematico è il cosiddetto Trattato di Partenariato Transatlantico su commercio e Investimenti (TTIP), del quale la stampa si guarda bene dal parlare e che rappresenta invece l’evento economico e sociale più importante per il presente e il futuro dell’Europa.
Per un europeista come me è doloroso leggere che «Putin sa che l’Unione europea non ha alcun potere, alcuna unità, alcuna volontà. […] Putin sa che l’Europa è in decadenza, che ormai è capace solo di gesticolazioni e provocazioni verbali e che gli stessi Stati Uniti la considerano un’entità trascurabile (‘Fuck the European Union!’ come ha detto Victoria Nuland)» (Id., p. 5).
L’unica strategia della quale gli Stati Uniti d’America sono capaci è la guerra tecnologica, vale a dire la guerra che a loro non costa vite umane e agli altri porta sterminio. Tale guerra è ammantata -e qui la funzione della comunicazione giornalistica e televisiva è fondamentale- da ideali umanitari, dietro i quali stanno sia il più esasperato cinismo sia le più fanatiche convinzioni etico-politiche. Rispetto alle Paci di Vestfalia (1648) che hanno posto fine alle guerre di religione con un nuovo jus ad bellum il quale «ammetteva che anche chi era combattuto poteva avere le sue ragioni. Era il nemico ma non era il Male», la guerra umanitaria inaugurata negli ultimi decenni del XX secolo ha posto il nemico fuori dall’umanità legittimando in tal modo ogni ferocia, ogni distruzione, ogni macello.
A partire dal 1945, essendo stata di nuovo posta fuorilegge la guerra di aggressione, ci si è affrettati a trovare dei modi per aggirare quel divieto. Una delle astuzie cui si è ricorsi è stata il concetto di «legittima difesa preventiva», di cui gli Usa e Israele si sono fatti teorici. Ma la trovata più importante è stata decretare che è lecito fare la guerra quando le motivazioni sono di ordine eminentemente morale: ristabilire la democrazia, salvare le popolazioni civili, eliminare una dittatura. (Id., p. 23)
Si dispiega così un Occidente che è il nemico dell’Europa. Un Occidente fatto di danaro e basta, l’Occidente del pensiero unico e del libero scambio senza limiti a vantaggio dei più forti: «Ex Oriente lux, ex Occidente luxus» (Stanislaw Jerzy Lec, p. 25). Persino Allan Greenspan -per lungo tempo presidente della Federal Reserve– in una deposizione del 2008 al Congresso USA ha ammesso i limiti e gli errori del modello liberista: «Ho trovato una pecca nel modello che consideravo la struttura di funzionamento cruciale che definisce come va il mondo. […] Proprio per questo sono rimasto sconvolto, perché per oltre quarant’anni ho creduto vi fossero prove inconfutabili che funzionasse eccezionalmente bene» (cit. da G. Giaccio, p. 31). E invece funziona eccezionalmente male.
Teatro Stabile – Torino
L’ispettore generale
(1836)
di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Con: Alessandro Albertin (il sindaco), Luca Altavilla (Pëtr Ivanovic Dobcinski 1), Alberto Fasoli (il giudice), Emanuele Fortunati (Pëtr Ivanovic Dobcinski 2), Michele Maccagno (sovrintendente alle opere pie), Fabrizio Matteini (ispettore scolastico-commissario di polizia), Eleonora Panizzo (la figlia del sindaco), Silvia Paoli (la moglie del sindaco), Pietro Pilla (Osip), Alessandro Riccio (ufficiale postale), Stefano Scandaletti (Ivan Aleksandrovic Chlestakov)
Scene di Paolo Fantin
Costumi di Carla Teti
Regia di Damiano Michieletto
Sino al 9 marzo 2014
Un bar sporco e decadente in una cittadina sperduta da qualche parte nel mondo. Il televisore sempre acceso sul vaniloquio dello spettacolo. Il locale è abitato dal sindaco affarista e cialtrone, ben coadiuvato dal direttore ospedaliero, dal giudice, dal provveditore agli studi, dall’ufficiale delle poste. Se la vivono e se la spassano con i soldi pubblici, che si dividono con commercianti e appaltatori, intascando tangenti e scambiandosi favori.
Finché non si diffonde la notizia dell’arrivo dalla Capitale di un ispettore generale in incognito. Panico. Smarrimento. Organizzazione di piani per neutralizzare il funzionario. Prima di tutto il danaro, è ovvio. Si cercano i segni della presenza dell’ispettore e lo si identifica in un giovane squattrinato che da giorni è ospite in uno degli alberghi della città. Tutti si convincono che l’ispettore sia lui e lo riempiono di lusinghe, di soldi, di compiacenza, compresa quella della moglie del sindaco. Il fortunato soggetto sta naturalmente al gioco. Intasca tutto quello che può, promette di sposare la figlia del sindaco e se ne va con i soldi che ha racimolato. Sicuri di imparentarsi con un simile potentato, si fa una grande festa in discoteca, si beve e si sogna a più non posso. Sin quando un piccolo particolare fa emergere la verità. A questo punto la figlia del sindaco (che sino ad allora aveva subìto tutto con umiliazione) comincia a ridere e a impacchettare nel cellophane l’intera combriccola, immobilizzata nell’istante in cui dalla bocca di ciascuno vengono fuori delle banconote.
Il testo di Gogol’ è un’immagine immortale dell’umano infetto e complice. Questa magnifica messinscena ne esalta ogni fibra, ogni parola, ogni intenzione e ogni divertimento. Una spettacolare rappresentazione del potere nella sua essenza sempre grottesca, miserabile e corrotta.
Educazione siberiana
di Gabriele Salvatores
Con: Arnas Fedaravicius (Kolyma), John Malkovich (nonno Kuzja), Vilis Tumalavicius (Gagarin), Eleanor Tomilinson (Xenja)
Italia 2013
Trailer del film
In una delle repubbliche dell’URSS vive la comunità dei siberiani. Sono degli «onesti criminali» -come amano definirsi- i quali rifiutano lo spaccio della droga, l’omicidio e il furto se non contro i soldati, la polizia sovietica e i banchieri. Nonno Kuzja prega la Madonna di indirizzare i proiettili e i coltelli a buon fine. Kuzja educa il nipote Kolyma a una convinta lealtà verso questi valori. Kolyma ha un amico, Gagarin, molto più inquieto e violento di lui. Dopo un periodo trascorso in prigione Gagarin ritorna e non è più disposto a seguire le leggi del clan. Vuole, piuttosto, fare soldi in fretta approfittando del caos seguìto alla dissoluzione dell’URSS. La tensione tra i due ex ragazzini arriva a un punto estremo di rottura. Dopo alcuni anni, infatti, vediamo Kolyma impegnato come soldato nell’esercito russo in guerra contro le comunità islamiche della Cecenia, ma è Gagarin che in realtà sta cercando. Per ucciderlo.
La storia salta di continuo tra l’infanzia/giovinezza dei due protagonisti e le azioni di Kolyma nell’esercito. Un andare e venire alla lunga stucchevole. L’opera non decolla mai, rimanendo alla superficie come un qualunque telefilm. Si nota il mestiere di Salvatores ma mancano ispirazione e sincerità. John Malkovich è sempre godibile e gigione ma per il resto tutto è piatto e prevedibile, tanto più che vorrebbe essere -invece- profondo e disvelante. Un film costruito a tavolino, un’educazione mancata.
Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013
Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.
Il Maestro e Margherita
(Master i Margarita, 1940)
di Michail Bulgakov
Trad. di Vera Dridso
Einaudi, Torino 1996
Pagine 448
(Edizione Biblioteca di Repubblica)
Woland prende casa a Mosca negli anni Venti con il suo sèguito, composto dal fedele Korov’ev-Fagotto, dall’enorme gatto nero Behemoth, da Azazello, dalla strega Hella sempre nuda e da Abadonna, la nuda morte. Gli occhi di Woland sono la sua identità, perché «la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai» (p. 188). E gli occhi di questo viaggiatore, consulente, mago, ipnotizzatore, artista, sono «una scintilla dorata, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre» (287).
Woland e i suoi assistenti organizzano uno straordinario spettacolo al Teatro di Varietà della capitale russa. In quella serata indimenticabile essi dimostrano di conoscere più di chiunque altro l’umanità, i suoi desideri, le passioni, l’ingenuità e la meschina avidità. Dopo quella serata lui e i suoi compagni causano incendi, prodigi, follie di ogni genere. Perché Woland è –come recita l’epigrafe dal Faust di Goethe- «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene»; infatti, «che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose» (406).
Per il suo annuale ballo di gala, questa entità chiede di fare da padrona di casa a Margherita Nikolaevna, una donna bellissima e intelligente, che accetta l’invito solo perché ha compreso che in questo modo potrà di nuovo riavere l’uomo che ama con un trasporto totale e che l’invidia e la malvagità hanno ridotto a vivere in una casa di cura per malati di mente. Il Maestro che Margherita adora ha scritto una storia di Ponzio Pilato che non è piaciuta al potere comunista, che ha indotto l’Autore a tentare di bruciare il proprio manoscritto ma «nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente» (337), tanto da restituire a Margherita il suo Maestro e al Maestro quella sua opera che è il vero, enigmatico, denso nucleo di questo romanzo di Bulgakov.
Il procuratore della Giudea sa bene che l’accusato che gli hanno posto davanti in quella mattina del giorno quattordici del mese di Nisan, quel «filosofo che aveva escogitato una cosa così incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini» (360), quell’ingenuo delinquente Jeshu-ha-Notzri, è innocente. Ma, per tante ragioni, non spinge la propria azione sino a salvarlo. Perché Pilato odia quell’orrenda fogna di fanatici che è Jerushalajim, perché è stanco di tutto, perché il Sinedrio tiene davvero alla morte di quello straccione, perché –soprattutto- è un poco vile. Ma quella condanna, di cui pure dichiara di lavarsi le mani, quella morte sul monte dietro la città, quella prova che «ogni potere è violenza sull’uomo», come Jeshua dichiara (35), non abbandoneranno più la sua vita e i suoi pensieri. L’Hanozri e il procuratore staranno sempre insieme -«se parleranno di me, parleranno subito anche di te!» (361) e questa immortalità, questa gloria senza tramonto, questa continua rimemorazione del suo nome nelle chiese di tutto il mondo, saranno parte della condanna di Pilato.
Ma proprio Margherita e il suo Maestro daranno a Pilato la pace, liberandolo dal suo destino di sogni e di incubi, di immobilità e di memoria, di aridi e sempre uguali pleniluni…«così parlava Margherita…e la memoria del Maestro, l’inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l’eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte fra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato» (432-433), il vero protagonista di questo inquietante, ironico, struggente e magnifico romanzo.
L’idiota
(1869)
di Fëdor Dostoevskij
Trad. di Alfredo Polledro
Con un saggio introduttivo di Vittorio Strada
Einaudi 1981
Pagine XXXII-609
Una raffinata barbarie, una giovane decadenza, un segno e un’eco di antiche civiltà, una speranza. Nel principe Myškin e nei grandi e piccoli personaggi che lo circondano vive la Russia santa e tellurica. La presenza del Cristo si staglia come impossibile incarnazione dell’Ideale, nella consapevolezza che «la parola “cristianesimo” è un equivoco-, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. VI, tomo 3, Adelphi 1975, § 39, p. 214). L’immagine che forse meglio descrive il Cristo è quella di un “idiota”, un essere felice e ignaro ma anche turbato e malato, dal grande cuore e di una altrettanto grande ingenuità.
Questo idiota diventa il catalizzatore dei sentimenti di chi lo incontra. Alla sua luce si fanno chiari l’odio, l’abiezione, la stravaganza, la generosità, l’orgoglio, la vigliaccheria, la rivolta, la stupidità, l’amore degli umani.
Questo principe ingenuo e bambino viene amato con passione dalla due più contorte e potenti figure femminili del romanzo. «Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: “Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…”?» (pag. 361); «La odierai per tutto l’amore che le porti oggi, per tutte queste torture che ora provi» (212).
E però Myškin non può amare come un uomo, il suo è un sentimento che proviene da un’altra regione dell’essere, da un altro universo di significati e di azioni. La sua vita è una vicenda sentimentale e barbarica, desiderante e dolorosa, sanguinosa e vitale, religiosa e nichilistica. Una vicenda profondamente orientale. L’Occidente è troppo consapevole o forse semplicemente vive in modo diverso la sua volontà di pienezza e di nulla.
Ma L’idiota non è soltanto la testimonianza di una civiltà nichilistica. Al di là del suo svolgersi, del suo esito e della miriade di eventi che racconta, questo libro contiene una matura fierezza: l’orgoglio di un’intelligenza che sa indagare nei meandri dell’umano, che sa trasformare la morte e il sacrificio nella luce della letteratura e della poesia. «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra» (227).