Skip to content


Canaglie

La menzogna più pervasiva, la maggiore fake news, consiste nel credere a quanto l’informazione stampata e televisiva diffonde, ignorando clamorosamente che quelle testate, quei giornalisti, quelle reti televisive, sono sostenute e pagate o dai governi o – per la maggior parte – da aziende che hanno interessi in vari settori: industria delle armi, trasporti, farmaceutica, chimica (un esempio italiano: le aziende degli Agnelli, che possiedono la Repubblica e La Stampa e hanno partecipazioni azionarie un po’ in tutti i settori). Basterebbe ricordarsi di questo semplice dato per diventare più prudenti rispetto a «l’ha detto la televisione, c’è scritto sul giornale, e quindi…». Ma se gli spettatori/lettori tenessero conto di questo dato, la credibilità, gli ascolti, le entrate di giornali e televisioni diminuirebbero drasticamente e il corpo sociale sarebbe più libero. 

Nel XXI secolo l’obbedienza si esercita indirettamente verso i governi e le oligarchie economiche; si esercita direttamente verso le notizie che governi e oligarchie diffondono. Notizie che sono chiaramente strumentali agli interessi dei governi e delle oligarchie. Governi e oligarchie che diventano e sono sempre più coincidenti.
Qualche esempio.
L’Unione Europea non è mai stata credibile. Costruita a partire dalla moneta e non dalla società, essa ha perso ormai ogni residua plausibilità. E tuttavia la UE sembra ancora esistere e agire. Ma come esiste e agisce? Come uno strumento delle oligarchie finanziarie e del governo degli Stati Uniti d’America. Proprio perché amo l’Europa – contrariamente alle oligarchie globaliste e agli USA – ricordo che noi non siamo ‘occidentali’, siamo invece europei.
A essere sempre più isolato non è il resto del mondo bensì l’Occidente, vale a dire il sistema militare-culturale dominato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Gli USA e i loro collaboratori, infatti, «sono molto vicini al tagliarsi fuori dal mondo e a tagliar fuori l’Europa dal suo stesso continente. Con il loro dollaro, le loro armi ed una inossidabile presunzione morale, essi sono la prima minaccia sentita dall’Africa così come dall’Asia, dall’America Latina, dalla Russia» (Hervé Juvin, in Diorama Letterario, n. 367, maggio-giugno 2022, p. 19).
L’Europa è sempre più umiliata, impoverita, asservita; è sempre più «soltanto la colonia delle sue colonie, popolata dai bei resti di popoli che furono liberi» (Ibidem).
La guerra della NATO contro la Russia è un esempio preclaro di tale asservimento. Molti analisti rilevano l’evidenza per la quale come gli USA nel 1962 impedirono l’installazione di missili nucleari sovietici a Cuba, con lo stesso diritto la Russia cerca di impedire l’installazione di armi nucleari ai propri confini, in Ucraina. Una delle ragioni della potenza degli USA – come della potenza di qualunque Stato – risiede nella geografia. In ambito geopolitico «gli Stati Uniti vengono considerati un’isola in quanto le loro sole frontiere terrestri con il Messico e con il Canada sono, per diversi motivi, assolutamente sicure» (Archimede Callaioli, p. 26).

Anche tale sicurezza ha contribuito all’atteggiamento arrogante di quella nazione, atteggiamento sempre pericoloso per la pace. Così come è pericoloso per la cultura e per le libertà. È da lì che proviene l’ondata di censura e di ignoranza del politically correct e della cancel culture, le quali impongono «che tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, vengano giudicate con i parametri etici del presente, e censurate e distrutte ogniqualvolta vi si trovino espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno» (Eduardo Zarelli, ivi, p. 22).
E questo conferma che i valori sono sempre le credenze imposte da chi comanda. Sui valori, sulle paure, sulla struttura sociale della specie umana, sul potere della comunicazione, sulla servitù volontaria si basa la pervasività del dominio nelle esistenze individuali e collettive. Se l’antropologia anarchica può avere dei limiti nel ritenere non universali tali strutture (è la critica che le rivolge Guillaume Travers, ivi, pp. 19-21), essa costituisce in ogni caso un necessario anticorpo rispetto al virus dell’autorità.
Proprio perché gli umani sono così facilmente asservibili, è necessaria la presenza, l’azione, la parola di chi ritiene che non perché siano buoni ma proprio perché sono tendenzialmente malvagi è bene non delegare mai agli umani un potere troppo forte. L’antropologia anarchica è anche questa consapevolezza, ben chiara a un filosofo non libertario ma anche lui assai diffidente verso i valori: «Every man ought to be supposed a knave»1. Le prime knaves, le prime canaglie, sono infatti le autorità.


Nota

David Hume, Of the Independency of Parliament [1742], in Essays, Moral, Political, and Literary, a cura di Eugene F. Miller, Liberty Press 1985, p. 43.

 

Potenze morenti

Come mostrano gli etologi e come sa un’antica sapienza, l’animale morente può diventare molto pericoloso, sia per un ultimo disperato tentativo di non morire sia perché non ha più nulla da perdere.
Gli Stati Uniti d’America sono un animale politico morente e anche per questo stanno diventando sempre più pericolosi. Di questa grande potenza «che si prendeva per il mondo e che diventa una nazione provinciale, intollerante e in via di decomposizione […] il mondo farebbe volentieri a meno» (Hervé Juvin, Diorama Letterario, n. 366, marzo-aprile 2022, p. 12).
Il mondo. Non quella sua piccola parte che lo ha dominato per secoli ma che dalla fine della Prima guerra mondiale è sottomessa alla cultura e all’economia anglosassone. Il mondo, vale a dire l’Asia, buona parte dell’America centrale e del Sud America, molti stati arabi ed africani. E non un’Europa «troppo sottomessa, troppo muta e troppo assopita in un confort usurpato per poter aiutare l’alleato a riprendere piede in un mondo che non capisce più» (Ibidem).
L’animale politico morente ha teso l’ennesima trappola alla Russia e soprattutto all’Europa. Tramite lo strumento di egemonia militare della NATO, gli USA hanno messo la Russia «di fronte all’alternativa di vedere anche formalmente inglobata nella Nato un’Ucraina ormai da otto anni sostenuta con armi, risorse economiche e aperture di credito politiche dall’alleanza occidentale oppure tentare con la forza di impedire il rafforzamento di questo connubio» (Marco Tarchi, p. 1). Questo è il quadro geopolitico e storico, non moralistico e sentimentale, dentro il quale soltanto si può comprendere il conflitto tra la NATO e la Russia combattuto in territorio ucraino.
Si tratta infatti anche dell’ennesimo evento e testimonianza di ciò che Baudrillard definisce «immondializzazione», il progressivo venir meno della pluralità e della differenza a favore di una visione unica e omologata della storia e dell’umano. La stessa ‘immonda mondializzazione’ per contrastare la quale Yukio Mishima commise seppuku il 25 novembre del 1970, convinto -come scrisse- che il suicidio «permette di cambiare la propria vita in un istante di poesia» (lo ricorda Manlio Triggiani parlando di un libro dedicato da Danilo Breschi allo scrittore giapponese, p. 33).
Un gesto, il suicidio, sul quale Mishima rifletté e scrisse lungo tutta la vita. Anche il Giappone appariva ed era agli occhi di questo scrittore/samurai un animale morente. Al quale con la propria morte Mishima cercò di restituire vita.

Il Gran Consiglio e la Russia

Non conosco l’autore del testo che pubblico qui sotto né la rivista sulla quale è uscito.
Ma importa poco. Chiunque siano Gabriele Giorgi e la rivista Cambiailmondo, quella che segue mi sembra un’analisi assai lucida, informata e intelligente della guerra in corso tra da una parte la NATO/USA e dall’altra la Federazione Russa, con vittima la popolazione ucraina. Vittima in primo luogo del governo di quel Paese, pesantemente inquinato da elementi e ideologie neonaziste e guidato da un attore cocainomane e completamente sottomesso alla NATO. Un governo che ha un analogo, pur se con modalità diverse, nel governo italiano, guidato da un soggetto che Francesco Cossiga definì «vile affarista» e che tale in effetti si sta rivelando.
Di fronte alla rovina dell’Italia e dell’Europa, a vantaggio degli USA e per difendere il governo fantoccio dell’Ucraina, ci sarebbero le condizioni per processare i governi in quanto colpevoli di «alto tradimento» degli interessi e della sicurezza dei loro cittadini.
È quello che propone anche questo testo, il quale denuncia la grave crisi economica, i rischi bellici, la miseria politica di un governo definito «Gran Consiglio del Draghismo», del quale fanno parte tutti i partiti presenti in Parlamento, dalla Lega di Salvini al Partito Democratico di Letta e con il sostanziale sostegno anche di Fratelli d’Italia. La formula indica una plausibile analogia con il Gran Consiglio del Fascismo.
Segnalo quindi l’articolo di Giorgi e ne consiglio vivamente la lettura.

=============

Il popolo italiano deve decidere se accetta o no l’entrata in guerra
di Gabriele Giorgi
Fonte: Cambiailmondo, 24.6.2022

L’ora delle decisioni irrevocabili si sta rapidamente avvicinando. Anzi è già stata presa. Resta da stabilire la data della comunicazione ufficiale. Non a Piazza Venezia, ma a reti unificate, appoggiata da un’azione sui social già iniziata mesi fa, che si farà pressante verso la fine dell’estate. Dichiarazione al popolo e, solo in seconda istanza, al Parlamento, visto che da tempo, si governa per decreti e l’urgenza è diventata la prassi consueta, analogamente a quanto avviene per le condannabili autocrazie che ci apprestiamo a sconfiggere.

Per chi, tra le elìtes istituzionali, si oppone all’entrata in guerra, vi è una sola possibilità: lavorare alla caduta del Gran Consiglio del Draghismo, dichiarare la neutralità e la sospensione dell’adesione alla Nato, seguendo le indicazioni della maggioranza del popolo italiano che ha capito da tempo l’obiettivo del variegato movimento guerrafondaio: una nuova, lunga stagione di oppressione dei lavoratori e lavoratrici, dipendenti o autonomi, dei precari, dei giovani, degli studenti, dei pensionati, che deve durare decenni; per salvaguardare gli interessi, ma soprattutto il potere, dei rappresentanti della grande impresa, di grandi banche, del capitale finanziario e speculativo, di tutti coloro che per sopravvivere devono continuare ad avere la possibilità di salassare i produttori reali.

La secessione del ministro degli esteri Di Maio – con la contemporanea convergenza di Fratelli d’Italia a sostegno di Draghi – è stata la mossa preventiva per ovviare al potenziale inconveniente della caduta del Gran Consiglio. Ne seguiranno altre. Si tenta cioè di chiudere ogni via parlamentare “legittima” al possibile posizionamento del paese contro la partecipazione diretta alla guerra in Europa e ad una terza guerra mondiale pienamente dispiegata.

Sono i seguiti di quanto deciso un mese prima dell’invasione russa dell’Ucraina, in occasione della rielezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica, quando si è riusciti a bloccare ogni opzione che non fosse di piena garanzia per gli anglosassoni e per il loro prediletto giocattolo, la Nato.

È immaginabile che, in vista del voto di marzo 2023, in considerazione del succedersi degli eventi, si stiano valutando diverse altre possibilità di contenimento di pericolosi orientamenti che tentino di mettere in forse l’applicazione pedissequa del canovaccio già scritto; fino al possibile rinvio della campagna elettorale e delle elezioni o al varo di un governo provvisorio di salute pubblica che gestisca l’emergenza energetica, inflazionistica e bellica (causate ovviamente dai cattivi russi).

È già evidente che abbiamo solo due/tre mesi di autonomia energetica, dopodiché la riduzione o la chiusura del flusso di gas dalla Russia provocherà la sospensione di altrettante fabbriche nei settori produttivi più esposti all’aumento dei prezzi, disoccupazione di ingenti masse di lavoratori, razionamento energetico nelle case, aumento vertiginoso dell’inflazione con parallela svalutazione dei redditi da lavoro e dei profitti delle piccole imprese (quelle che resteranno in campo) e della perdita di competitività generale di un sistema paese orientato all’export sui mercati internazionali.

Si tratta di uno scenario che prevede solo due opportunità: la guerra appunto, oppure una generale revisione da attuare in più passaggi, il primo dei quali non può che essere quello di uscire dalla logica di guerra. Poi si vedrà.

Come mostrato dai risultati delle elezioni politiche in Francia, la questione non riguarda solo noi. E gli effetti accennati coglieranno in pieno, assieme all’Italia, anche la Germania. Il vagone ferroviario del treno da Varsavia a Kiev, che ospitava Draghi, Macron e Schulz, da questo punto di vista, è l’immagine storica di un fallimento. La soluzione che i tre hanno proposto e che oggi è stata confermata dall’UE, di accettazione della candidatura dell’Ucraina, è una mossa incerta per prendere tempo in attesa di vedere come si evolvono le cose e per verificare la possibilità di un parziale sganciamento di Kiev dai solidi fili manovrati da Washington e Londra.

Ma l’inserimento nell’agenda dell’adesione anche della Moldavia (e già si preannuncia della Georgia) e la chiusura del transito ferroviario tra Bielorussia e l’enclave russa di Kalinigrad, a sole 48 ore dalla missione dei tre leader a Kiev, mostra che gli angloamericani e i loro non pochi sodali nella UE, hanno rilanciato in modo drastico facendo risalire la tensione ai livelli più alti.

Ammesso che Francia, Germania e Italia tentino convintamente di giocare una carta parzialmente autonoma negli scenari di guerra, essa è tardiva e contraddetta dai fatti. Sarebbe peraltro strano che due paesi che ospitano le più grandi basi Nato in Europa e nel mondo (e una in chiaro declino) possano essere in grado di mutare in extremis un’agenda euroatlantica alla quale si lavora da oltre un decennio.

Le redini dello scontro sono saldamente in mano a Usa/Uk e Russia. Entrambi giocano il loro gioco sul campo ucraino e allo stesso tempo in Europa, che costituiscono un unico anche se diversificato obiettivo: per la Russia si tratta di capire se l’Europa o parte di essa può tornare a costituire in tempi medi, un partner, dopo l’imposizione della chiusura del Nord Stream-2. Per gli anglosassoni si tratta di evitare definitivamente e per un tempo molto lungo che ciò possa accadere, pena la loro crescente marginalizzazione e perdita di influenza nello scenario globale.

La compenetrazione e il comando delle elìtes neoliberiste delle economie euroatlantiche non lascia molto spazio a dubbi: per Francia, Germania e Italia non c’è, dentro il quadro istituzionale e politico attuale, nessuna convincente opportunità; chi ha provato a perseguire questo disegno sembra esserne uscito sconfitto. La narrazione mediatica della immaginaria mediazione di Draghi appare in questo contesto, financo ridicola: essa si sarebbe dispiegata a partire dall’incontro con Biden fino al viaggio in treno a Kiev; ma Draghi ha dovuto ricordare e ricorda in ogni occasione che la decisione finale su quale pace sia possibile, spetta a Kiev, cioè a Biden e Johnson.

Dunque, a parte l’escamotage di un attivismo di propaganda, le porte sono chiuse e tutti lo sanno. A Di Maio deve essere stato chiarito in diversi briefing sollecitando una sua opzione esplicita a garanzia di un suo futuro politico.

Gli eventi vanno inesorabilmente verso il diretto coinvolgimento dell’Europa nel conflitto, via Lituania, Polonia, Nato; questa è la sola condizione, per gli angloamericani, di poter saggiare, da lontano e senza gravi rischi, se la Russia può essere messa in ginocchio o fortemente indebolita e, insieme, l’occasione di uno stress-test sul progetto Brics di ricomposizione multipolare dell’ordine mondiale, prima di avventurarsi nello scontro diretto con la Cina.

Gli altri attori non resteranno certamente con le mani in mano, aspettando che si concluda definitivamente quel nuovo secolo americano inaugurato nel 2001.

Per evitare la fine dell’Europa (o quella anticipata del mondo), non abbiamo altre opportunità che non siano quelli della caduta dei gran consigli nel continente. Uno di questi, niente affatto secondario, è quello italiano.

Sulla Russia

Che cosa ha fatto?
Aldous, 14 maggio 2022

In questo breve articolo ho cercato di sintetizzare ciò che penso del conflitto tra Russia e Ucraina all’interno del più ampio contesto geopolitico contemporaneo. Un contesto che mi sembra pericolosamente simile al clima di esaltazione e di propaganda che portò l’Europa al suicidio nell’estate del 1914.

Segnalo inoltre il miglior articolo che abbia letto sinora sul conflitto in Ucraina, il suo significato, le modalità, la funzione:
Lo spettacolo della guerra
di Giovanna Cracco, paginauno, n. 77, aprile-maggio 2022.

Дылда

Giraffa
(ДЫЛДА; titolo italiano La ragazza d’autunno)
di Kantemir Balagov
Con: Viktoria Miroshnichenko (Iya Sergueeva), Vasilisa Perelygina (Masha), Andrey Bykov (Nikolay Ivanovich), Igor Shirokov (Sasha), Konstantin Balakirev (Stepan)
Fotografia: Kseniya Sereda
Russia, 2019
Trailer del film

Il titolo italiano è tanto banale quanto significativo della difficoltà che i distributori del film hanno incontrato nel decifrare un’opera estrema. Che è tale non per quello che racconta ma per come lo fa e per ciò che emerge dalla profondità della storia umana.
La vicenda è infatti ambientata a Leningrado nell’inverno successivo alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Le ferite della città e quelle inferte alle vite dei suoi abitanti appaiono terribili. Tutti hanno subìto dei lutti, delle menomazioni, la miseria.
Iya prestava la sua opera al fronte ma è stata congedata perché un trauma di tanto in tanto la blocca, la incanta, non le fa percepire più nulla intorno a sé. Ora svolge mansioni di infermiera in un ospedale. La ragazza ha portato a Leningrado Pashka, figlio di Masha, una sua amica anch’essa al fronte. Ma quando a guerra finita Masha torna in città, il bambino non c’è più. La madre ne vuole a tutti i costi un altro. Da tale volontà emergono l’ambiguità delle relazioni, la costanza dell’ingiustizia, la tristezza profonda. E su tutto aleggia come un senso di rassegnazione rispetto al dolore.
Una rassegnazione atavica, certo, profondamente russa. Come russa è l’imprevedibilità delle azioni, delle volontà, delle passioni. «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia»1.
«Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: ‘Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…’»; «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra»2 .
Una storia così antica –la guerra, due madri, un futuro che sembra chiuso– viene narrata in modo ellittico, spostando di continuo sia la narrazione sia lo sguardo là dove lo spettatore non si aspetta che vada. I colori sono accesi, quasi fatti d’oro e di trionfo, persino il bianco della neve si trasfigura nella pienezza dell’iride. Ma sono colori che cadono sul divenire dolente dei corpi, che sembrano avere quasi nostalgia del morire e che quando sorridono mostrano lo struggente e insieme inquietante desiderio di ciò che non è stato e non sarà.
I corpi, infatti, sono qui tutto. A partire da quello altissimo di Iya, che per questo viene chiamata Дылда, ‘giraffa’ nel senso di spilungona. Ma non è l’altezza la prima caratteristica di questo corpo bensì la distanza, la lontananza, la stranezza, il gelo. Corpi che mostrano la propria desolazione quando fanno l’amore senza trarre alcun piacere. Corpi coperti da abiti troppo grandi, corpi abbaglianti di amarezza quando sono nudi.
Il film si chiude sull’abbraccio tra due di questi corpi. Uno stringersi sincero ma il cui sorriso è consapevole che quanto quei corpi si stanno dicendo non è auspicio ma è una condivisa illusione.

Note
1. L.N. Tolstòj, Guerra e pace, trad. di E. Carafa d’Andria, Einaudi 1990, p. 1259.
2 F.M. Dostoevskij, L’idiota, trad. di A. Polledro, Einaudi 1981, pp. 361 e 227.

[Photo by Daria Gorbacheva on Unsplash]

Populismi e differenza (sulla devastazione)

L’omologazione, il conformismo, il pensare ciò che tutti pensano, sono strutture e modalità a volte necessarie per mantenere la coesione dei gruppi e delle comunità sociali. Purché non assumano una valenza etica e soteriologica, purché non si presentino quindi come il bene e come salvezza. È invece quello che sta accadendo con il liberalismo e il capitalismo trionfanti che, come tutte le strutture ideologiche, hanno sempre bisogno di un nemico da additare, combattere, distruggere. Sconfitto il comunismo, si è inventato il «terrorismo» come parola grimaldello contro qualunque agire che metta in discussione l’impero statunitense. In Europa, invece, il nemico che il liberalismo addita si chiama populismo.
«Osteggiata dalla quasi totalità dei mezzi d’informazione ‘che contano’, demonizzata da un’identica percentuale delle classi politiche di governo e di opposizione, invisa fin oltre i limiti dell’astio dal ceto intellettuale, sgradita alle alte gerarchie ecclesiastiche, paventata come una minaccia dagli attori di primo piano della scena economica sia padronale che sindacale, combattuta con ogni mezzo a disposizione dai principali players dei mercati finanziari, l’ascesa dei movimenti e partiti populisti» sembra il nuovo spettro che si aggira per l’Europa (M. Tarchi, Diorama letterario, n. 346, p. 1).
Certo, i limiti del populismo sono grandi e riguardano specialmente la dimensione metapolitica, il piano culturale, ma rispetto al deserto sociale e simbolico prodotto dal suo vero avversario, la tecnocrazia finanziaria, il populismo è denso di spiriti vitali perché affonda il suo successo su delle costanti antropologiche che possono essere negate dalla dottrina ma continuano a esistere nelle strutture e negli eventi umani.
«Populismo allo stato puro» sono ad esempio i Gilets jaunes, nei confronti dei quali si esercita un vero e proprio «disprezzo classista, ma anche il terrore panico di vedersi presto destituiti dagli straccioni» (A. De Benoist, 3). Disprezzo che verso il populismo nutrono non soltanto lo snobismo ‘di sinistra’ -espressione che una volta sarebbe apparsa ossimorica- ma anche la destra liberista poiché «è vero che non è da ieri che la destra borghese preferisce l’ingiustizia al disordine» (Id., 4) così come preferisce il caos dei mercati alla regolamentazione della ricchezza.

La storia in ogni caso non è ‘finita’ con la vittoria dell’unilateralismo occidentalista. La Russia continua a mostrarsi irriducibile al controllo statunitense. E questo nonostante la propaganda e la disinformazione che diffondono menzogne su menzogne a proposito dell’inesistente pericolo slavo mentre il vero rischio è la smisurata crescita del controllo che gli USA esercitano sull’intero pianeta, senza distinzione tra amici e nemici. A mostrarlo non è soltanto il pervasivo spionaggio che gli Stati Uniti d’America attuano verso gli esponenti dei governi europei tramite la rete Echelon, ma anche e specialmente il fatto che «nel 2013 gli statunitensi hanno speso 53 miliardi per le loro 17 agenzie di servizi segreti, più di quanto Mosca stanzia per tutto il settore della Difesa, armi atomiche incluse! Secondo le stime del 2016, gli USA hanno investito nell’apparato bellico oltre 1.000 miliardi di dollari, il 40% della spesa mondiale, mentre l’ ‘espansionista’ Russia si è fermata ad una cinquantina di miliardi, circa [soltanto] il doppio di quanto spende l’Italia» (R. Zavaglia, 11), che certo potenza mondiale non è.

Russia e Cina sono il vero obiettivo della guerra che gli USA vanno preparando -i conflitti nel Vicino Oriente e le costanti provocazioni in Ucraina costituiscono tappe di avvicinamento a questo scopo- poiché si tratta non soltanto di concorrenti economici ma soprattutto di civiltà irriducibili al «potere oligarchico tecnomorfo etnocentrico, il quale ha imposto il ‘flusso’ globale mercantile di materiali ed esseri umani, distruggendo le società tradizionali e le culture che per millenni hanno caratterizzato le civiltà come delicato equilibrio tra cultura e natura, nel rispetto del limite e della sostenibilità ecologica» (E. Zarelli, p. 19). Anche la Russia e la Cina sono naturalmente potenze inquinanti e distruttive dell’ambiente ma la crescita economica è per esse un mezzo e non il fine stesso delle esistenze individuali e collettive.
La cultura europea è irriducibile al modello di vita americano, alla sua «metafisica dello sradicamento» (Ibidem). L’Europa affonda in modelli universali tra loro diversi ma incomparabilmente raffinati rispetto al semplicismo del dollaro e del suo culto. Il politeismo mediterraneo, la cattolicità romana, la metafisica platonica, la demistificazione nietzscheana, la libertà heideggeriana dall’universo del valore e della morale per radicarsi invece nella sfera ontologica, sono forme ed espressioni del nostro scaturire  dai Greci, i quali «sono quelli che hanno più amato la vita; l’hanno amata a tal punto da non aver più avuto bisogno che essa avesse un senso» (A. De Benoist, 6).
I popoli sono tra loro diversi e mai saranno né dovranno diventare una identità unica, monocorde e totalistica. Il prospettivismo, la differenza, la molteplicità costituiscono la più profonda garanzia di ogni libertà.
Con molta chiarezza Heidegger critica in alcune opere e corsi ciò che oggi si chiama ‘globalizzazione’, da lui designata con il termine Planetarismus: «Humanismus oder Anthropologismus sind menschentümlich letzte Erscheinungsformen des Planetarismus; in ihnen kommt die lang versteckte Wesensselbigkeit von »Historie« und »Technik« zum Austrag in der Form der Verwüstung des Erdballs», ‘Umanesimo o Antropologismo sono per l’umanità le ultime manifestazioni del Planetarismo; giunge in essi alla luce la lungamente nascosta e convergente essenza di ‘storia’ e ‘tecnica’ nella forma della devastazione del globo terrestre’, il cui braccio operativo è l’americanismo in quanto  «historischer Art für die Verwüstung», ‘modalità storica per la devastazione’ (Über den Anfang [Sul principio, 1941], «Gesamtasugabe», Vittorio Klostermann 2005; Band 70, § 13, p. 31 e § 77, p. 97).

Trump. Perché?

Alla fine ha vinto Trump. In realtà, i risultati del voto sono stati questi: Hillary Rodham Clinton 61.336.680 (47,55 %) – Donald Trump 60.609.576 (46,98 %). Ma la legge elettorale della cosiddetta ‘più grande democrazia del mondo’ (in realtà è l’India a esserlo) ha lo scopo di creare un filtro tra i cittadini e la carica di presidente: i ‘grandi elettori’. Anche nel 2000 a ottenere il maggior numero di suffragi fu Al Gore e a essere eletto fu invece Georg W. Bush.
Perché -con questi limiti- Trump è diventato presidente degli Stati Uniti d’America? Tra le molte ragioni ce ne sono alcune che ai laudatori dell’America clintoniana non fa piacere sentire. È su queste che mi soffermerò, lasciando le numerose altre ai tanti commenti che le elezioni USA hanno prodotto.

Trump ha vinto anche perché la globalizzazione alla fine sta distruggendo pure l’economia reale del più ricco Paese capitalista del mondo. Trump si è detto contrario ai trattati di libero scambio (TTIP) che permettono alle aziende di chiudere le fabbriche negli USA per trasferirle in Asia, lo stesso destino delle fabbriche dell’Europa occidentale.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato che gli USA dovranno badare più alla loro economia che alla esportazione della ‘democrazia’ a suon di bombe nel Nord Africa e nel Vicino Oriente. Si è così contrapposto alla furia interventista della signora Clinton, che ha voluto in prima persona -da Segretario di Stato- la morte di Gheddafi e la distruzione della Libia, causa di un afflusso senza precedenti di migranti in Italia e nelle altre coste europee, causa della morte in mare di decine di migliaia di esseri umani. La signora Clinton è stata una delle più ciniche assassine degli anni Dieci del XXI secolo. Nel suo complesso la politica di Obama-Clinton nel Vicino Oriente, in particolare in Iraq e Siria, ha causato due milioni di vittime. Un massacro che nessuno però chiama con questo nome.

Trump ha vinto anche perché ha dichiarato di voler ristabilire relazioni normali con la Russia. L’amministrazione Obama-Clinton ha invece creato una nuova guerra fredda (clamoroso il caso dell’Ucraina, dove il colpo di stato che ha schierato la Nato al confine con la Russia venne preparato da manifestazioni alle quali parteciparono cittadini non ucraini pagati dal German Marshall Fund), asservendo l’Italia e l’Europa a delle sanzioni contro Mosca che hanno causato ulteriori chiusure di attività produttive e commerciali nel nostro continente, estendendo la disoccupazione.

Trump ha vinto anche perché ha saputo utilizzare i social network, preferendoli alla grande stampa e alle televisioni, schierate in gran parte con la candidata Rodham Clinton. Forse è questo uno dei risultati più interessanti delle elezioni USA 2016, un chiaro segnale di trasformazione nelle modalità della comunicazione. O meglio, una conferma della crisi dei giornali, che non è crisi in primo luogo economica ma culturale e politica. Basti vedere la situazione italiana, con i grandi giornali e le televisioni schierate tutte dalla parte dell’attuale presidenza del consiglio. Uniche reali eccezioni il manifestoil Fatto Quotidiano.

Trump ha vinto anche perché altri miliardari -attori, cantanti, sportivi- hanno fatto propaganda per la Clinton. Che soggetti privilegiati, ricchissimi e famosi si siano rivolti a milioni di persone in difficoltà economica dicendo loro come avrebbero dovuto votare, ha giustamente irritato molta gente.

Trump ha vinto anche perché non se ne può più -davvero- del politicamente corretto, una dittatura del pensiero che è la vera erede del Grande Fratello di Orwell.

Trump ha vinto anche perché si è trovato di fronte una candidata potente ma impresentabile, definita da Diana Johnstone «Regina del caos» (titolo di un suo libro edito da Zambon, Frankfurt am Main, 2016). Johnstone scrive che «la disgrazia dei tempi fa sì che questa incosciente appaia perfettamente normale nel suo ambiente», una donna che è stata al servizio e insieme si è servita «delle potenze finanziarie, a partire da Goldman Sachs, nonché dei grandi mezzi d’informazione, a loro volta legati al complesso militare-industriale, e delle lobbies più influenti. Essi condividono il medesimo obiettivo principale: allargare e rafforzare quella che viene chiamata ‘globalizzazione’ – soprattutto attraverso i trattati di libero scambio e il dominio militare, tramite la Nato, e altri accordi bilaterali» (Diorama Letterario 333, p. 22).

Trump ha vinto anche perché il progetto elitario, bellicistico, globalista della presidenza Obama sta gettando gli Stati Uniti e il mondo nel caos e nella miseria.

Certo, Trump è anche troppo amico dei sionisti di Israele ed è indifferente -come minimo- alle questioni ambientali. In ogni caso, non so se il vincitore manterrà le tante promesse che lo hanno portato alla Casa Bianca, in particolare quelle relative al disimpegno militare con la Nato e al rifiuto del liberismo selvaggio. Sono promesse che forse non potrà mantenere e neppure vorrà. Un risultato comunque spero sarà acquisito: le classi dirigenti e l’opinione pubblica europee non vedono e non vedranno più nel presidente degli Stati Uniti d’America una figura prestigiosa, nobile nonostante i suoi limiti, ieratica, quasi sacra. Il Padrone ha perso la sua aura. Questa è una condizione simbolica fondamentale per la difesa della nostra libertà. Con un soggetto come Donald Trump insediato nella carica più importante del mondo, il potere ha gettato la maschera, il re è finalmente nudo.

Vai alla barra degli strumenti