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Buoni sentimenti

L’imprevedibile viaggio di Harold Fry
(The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry)
di Hettie MacDonald
Gran Bretagna, 2023
Con: Jim Broadbent (Harold Fry), Penelope Wilton (Maureen), Earle Cave (David Fry), Linda Bassett (Queenie)
Trailer del film

Quanto bisogno hanno gli umani di sentirsi buoni. Di sentirsi e apparire sinceri, bravi, corretti, accoglienti, onesti, dolci. Un bisogno che ha naturalmente anche origini filogenetiche, in modo da temperare un poco l’innata e indispensabile aggressività che spesso tracima in esplicita violenza e altrettanto spesso in ferocia, azioni estreme e persino sadismo. Dato che la paura di un Grande Padre che punisca i bambini cattivi non è alla fine sufficiente, si inventano idee e soprattutto autorappresentazioni che ci rassicurino sulla nostra indole in fondo non tanto malvagia. Esistono raffinatissime e più o meno razionali versioni di questa immaginazione (l’antropologia di Rousseau, ad esempio) e poi esistono opere del tutto finte come questo Unlikely Pilgrimage of Harold Fry. Pilgrimage, pellegrinaggio, e non viaggio come recita il sempre banalizzante titolo italiano. Un pellegrinaggio unlikely, improbabile e non imprevedibile, che non è la stessa cosa. 

È infatti improbabile, davvero improbabile, che un pensionato abitudinario e poco camminatore di una qualsiasi cittadina inglese dopo aver ricevuto da una sua vecchia collega la notizia che lei si trova in un ospedale nella fase terminale di un tumore, decida di colpo di mettersi in cammino per andare a trovarla a 800 chilometri di distanza, un cammino a piedi (un pellegrinaggio appunto) nato dalla fede che sin quando Harold camminerà per raggiungerla, l’amica Queenie non morirà. Durante questa improbabile camminata, Harold si trova ovviamente in condizioni molto critiche ma viene accolto da una signora che gli offre dell’acqua dicendogli quanto sia bello avere dei figli; viene amorosamente curato da un medico (femmina) immigrato che per vivere fa le pulizie; incontra in un bar un maturo omosessuale che gli chiede consiglio su come agire con il proprio amante giovane e povero; viene fotografato e diventa la star dei buoni sentimenti televisivi, tanto che un giovane ex tossico e poi molte altre persone si uniscono a lui (in una versione New Age di Forrest Gump), scegliendolo come guru. Alla fine, però, Harold arriva da solo al capezzale dell’amica, le regala un cristallo dal quale vengono illuminati – in una scena tra le più finte e fasulle che abbia visto al cinema – la donna del bicchiere d’acqua, il medico immigrato, l’omosessuale.

Harold attraversa, in un itinerario poco picaresco e abbastanza selvaggio, buona parte dell’Inghilterra, sino ai confini con la Scozia. Attraversa quindi le terre e le città della nazione che ha inventato il colonialismo e la schiavitù moderne, che ha esportato l’imperialismo al di là dell’Atlantico con la sua gemmazione statunitense, che rimane serenamente fedele alla sua storia con la piena complicità nei massacri in corso in Ucraina e a Gaza. Ma non intendo soffermarmi su questo aspetto storico, che pure è significativo.
The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry è veramente emblematico di altro, è emblematico di una ideologia tanto autoritaria e distruttiva quanto più si presenta buona e brava. I personaggi sono centellinati con la bilancia del farmacista: QB per i neri, le donne islamiche con il velo, gli immigrati, i tossici, con una robusta dose di anziani che nelle loro vite hanno fallito ma che suscitano tanta compassione. Più di tutti ha fallito Harold. La vera ragione del suo pellegrinaggio, si scopre a poco a poco, non è la sopravvivenza della collega Queenie ma la vicenda del figlio David, che compare a intervalli regolari nel film con tutto il peso della sua memoria. Ragione che Harold dichiara in modo aperto quando, arrivato a destinazione, comincia a piangere e a ripetere «Voglio mio figlio, voglio mio figlio». È un atroce senso di colpa a guidare questo personaggio. La colpa sulla quale vivono e prosperano tutti i poteri immanenti e trascendenti, temperata da affermazioni quali: «La fede può ottenere qualunque cosa» (testuale, un personaggio dice proprio questo).

Sentimento di colpa che si coniuga al sentimento della morte, che nella nostra povera civiltà di depressi è rifiutata, taciuta oppure posta al centro delle decisioni politiche, perché la salute è tutto e non bisogna morire, non bisogna proprio; la morte è un disdicevole scandalo, un comportamento inammissibile. Degli umani che arrivano a questo, a combattere strenuamente contro la loro stessa natura di enti finiti, e il cui solo accenno alla morte li terrorizza, sono destinati a una vita ben triste, come appunto è quella di Harold.
Ma questo non è affatto l’unico modo di essere umani e di rimanere vivi. Tantomeno è un modo inevitabile e naturale. Ci sono state e ci sono intere e grandi culture, quelle orientali ad esempio, nelle quali e per le quali morire è naturale quanto vivere. Anche l’Europa una volta è stata così. Diogene Laerzio racconta (ma è soltanto uno dei tanti episodi e detti di questo tenore) che quando ad Anassagora annunciarono la morte dei figli la risposta fu «Sapevo di averli generati mortali» (I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Anassagora, DK A 1; p. 557). L’abisso che ci separa da un simile sentimento della vita, sostituito da patetici e fasulli ‘buoni sentimenti’, è indice e segno assai chiaro di un tramonto.

Svizzera

Al centro dell’Europa. Lontano dal mare ma pronta a raggiungerlo verso il sud dell’Italia e verso il Nord della Francia/Germania. Disegnata da confini naturali sui quali ha costruito la propria identità, a conferma che i confini esistono, al di là di tutte le astrattezze no borders e analoghe spinte verso un’identità che tende a uccidere le differenze. Confini che per la Svizzera sono molto evidenti nel caso della catena alpina su tutto il versante meridionale e altrettanto netti tramite i molti laghi e le valli che essa condivide con i Paesi confinanti: Italia, Austria, Germania, Francia (e Lichtenstein).
Confini e identità/differenza già delineati in epoca romana, poi inglobati in gran parte nel Sacro Romano Impero e infine sempre più marcati a partire dai due momenti chiave che hanno generato la Svizzera: la pace di Noyon del 1516 con la quale questo territorio e le sue città dichiarano la propria neutralità rispetto alla guerre tra Stati e dinastie, fermando in questo modo la propria stessa espansione. Da allora la politica comune dei cantoni svizzeri venne stabilita da una Dieta che di solito prendeva (e prende) all’unanimità le sue decisioni. Subito dopo ebbe inizio la Riforma che nella Confederazione elvetica trovò ampio seguito sino a fare di Ginevra una teocrazia calvinista.
L’altra data fondamentale è quella del Congresso di Vienna, 1815, che stabilì la perpetua neutralità della Svizzera e in seguito al quale entrano definitivamente nella Confederazione il Vallese, Ginevra e Neuchâtel, delineando sostanzialmente gli attuali confini.
La neutralità sarà ribadita in due altre occasioni: la fondamentale pace di Vestfalia del 1648 e la Seconda guerra mondiale. Persino l’adesione all’ONU, che pure a Ginevra ha la sua sede europea, è assai recente, nel 2002, così come la nuova Costituzione del 1999 «amplia le garanzie per i profughi ma ne limita la durata di accoglienza» (Aa. Vv., Svizzera, Touring Club Italiano, 2019, p. 38), smentendo il luogo comune di una Svizzera che accoglie per principio indiscriminatamente, cosa che non è mai accaduta e mai potrà accadere, pena la dissoluzione del delicato equilibrio sul quale politica, società e religione elvetiche si reggono.
Anche per queste scelte politiche, per i suoi confini naturali, per l’etica calvinista, la Svizzera è oggi «tra i paesi più ricchi e più solidi del mondo, nonostante la conformazione del territorio, poco adatto all’agricoltura, e la mancanza di risorse minerarie. La sua prosperità deriva soprattutto dalle scelte politiche: la neutralità l’ha resa una nazione stabile e finanziariamente sicura» (Ivi, p. 31). E anche per questo è uno dei luoghi più lindi e più corrotti del pianeta.

Al centro dell’Europa, dunque, della quale la Svizzera è una sintesi. Anche per questo va centellinata, gustata come un vino di qualità con le sue città gotiche, rinascimentali, barocche, neoclassiche, contemporanee; con le sue montagne ovunque; con i suoi magnifici laghi.
In tempi diversi ho visitato prima la Svizzera italiana, con una Lugano adagiata sul suo lago e fatta di viuzze antiche; con Bellinzona e il suo castello a dominare valle, case, cielo.
Poi ho incontrato Nietzsche nel Cantone dei Grigioni a Sils-Maria, dove si trova la casa (ora museo) nella quale il filosofo trascorse le sue estati dal 1881 al 1888 e sulle rive del cui lago – di Silvaplana – concepì la filosofia di Zarathustra. Dei Grigioni è celebre Sankt Moritz. Dopo averla visitata anni fa in estate, e averla vista dunque nel pieno del suo verde, ho rivisto  lo scorso dicembre la linda (e costosissima) località mondana immersa in un bianco totale, con il suo piccolo lago ghiacciato e il suo paesaggio alpino interamente innevato.

Sankt-Moritz. Museum Engiadinais

Ho anche visitato la Schiefer Turm, una torre pendente che è quanto rimane di una chiesa antica; la chiesa protestante del 1787, adibita in gran parte a sala da concerti; il Museum Engiadinais, una ricca dimora che racconta con il calore del legno di pino e l’onnipresenza delle stufe in ceramica i modi di vivere, nutrirsi, dormire delle comunità dell’Engadina.

Ginevra. Il lago con il Jet d’eau

Un Cantone e una città che della Svizzera rappresenta una sintesi è Ginevra/Genéve, che ho visitato negli ultimi giorni del 2023. Dal lago sul quale venne edificato il nucleo conquistato da Cesare, si alza dal 1891 il Jet d’eau, una potente torre d’acqua che raggiunge i 140 metri e che è visibile da tutta la città. Ginevra si estende in ampi boulevards che sulla rive gauche del Rodano diventano il nucleo medioevale nel quale (al numero 40 della Grand-Rue) il 28 giugno 1712 nacque Jean-Jacques Rousseau. Un tessuto di viuzze medioevali-settecentesche conduce da questa strada alla Cattedrale di St-Pierre.

Ginevra. Cattedrale di St.Pierre

L’antica chiesa gotico-cattolica divenne il tempio della città stato teocratica governata da Giovanni Calvino. L’edificio è da allora spoglio di qualunque immagine, icona, statua. E questo lascia trasparire la bellezza e armonia della sua architettura. Anche l’abside è vuota. Un tavolo ovale in cima alla navata principale ospita un leggio con una copia aperta della Bibbia. Lì accanto si trova la sedia sulla quale Calvino interpretava il testo sacro e consolidava la riforma luterana.

Ginevra. Cattedra di Calvino

Il cattolicesimo è sparito da Ginevra, sostituito anche oggi da numerosi ‘templi’ delle tante chiese protestanti, non solo calviniste, che ho trovato tutte rigorosamente chiuse, con avvisi relativi ai momenti di lettura biblica non più frequenti di una volta alla settimana, con i nomi e a volte le foto di sorridenti signore bionde, alcune vestite con paramenti sacri, che sono le parroche e le arcivescove delle diverse sette. Luoghi architettonicamente miseri e, appunto, sempre chiusi.
Se Nietzsche ebbe ragione ad accusare «il monaco fatale», Lutero, di aver fatto risorgere in Europa il cristianesimo che stava morendo nella potente, ricca, corrotta Roma dei papi, l’eterogenesi dei fini ha tuttavia condotto, certamente a Ginevra e ovunque nell’Europa protestante, al tramonto della fede cristiana. Nel loro fanatismo biblico, infatti, Lutero, Calvino e gli altri padri della Riforma (raffigurati in forme grandiose nel Monument de la Réformation – il cui motto è «Post tenebras Lux» – che costeggia la promenades des Bastions [immagine di apertura]) pensavano che affrancati dalle ‘distrazioni’ artistiche e dai sacramenti, i cristiani potessero rivolgere tutta la loro cura alla fede che lo Spirito Santo avrebbe soffiato nelle loro interiorità. Ma un simile ascetismo capace di fare a meno dei simboli, delle icone, dei santi, delle statue, delle immagini, può valere soltanto per i filosofi, per gli studiosi, per coloro che sono ricchi di una vita interiore. La più parte degli esseri umani, e dunque dei fedeli cristiani, ha bisogno invece di immagini alle quali rivolgersi, di statue della Madonna da invocare come le antiche divinità mediterranee, di icone da venerare e davanti alle quali piangere (come accade durante le grandi feste cattolico-pagane). Se privata di tutto questo, la fede cristiana muore. E infatti a Ginevra è morta.
Dal lato opposto rispetto al Monumento alla Riforma si trova la sede centrale dell’Università ginevrina. Ho visitato la Biblioteca, aperta anche durante le feste dalle 10 alle 22, a scaffali aperti, linda e accogliente.
Tornando al luogo/cattedrale, sotto il tempio si estende una zona archeologica molto vasta che documenta il progressivo formarsi della città, mentre sopra il tempio una vorticosa salita di centinaia di gradini conduce alle due torri, dalle quali si apre il magnifico panorama sull’intera Ginevra,tra i cui musei ho visitato naturalmente il Patek Philippe Museum, un luogo che conserva migliaia di orologi fabbricati dal Settecento a oggi, molti dei quali di un’impressionante bellezza . Qui ne mostro soltanto due, il primo raffigura il dio del tempo [a sinistra], il secondo è uno dei più complessi orologi fabbricati a mano, un vero e proprio osservatorio astronomico in miniatura [a destra].

 

 

 

 

 

 

Ho poi visitato il Musée d’Art et d’Histoire che ospita opere dal Paleolitico al Novecento. La sezione più interessante è quella archeologica con opere provenienti dall’antico Egitto, dalla Grecia cicladica e classica, dall’epoca romana. Qui sotto tre teste di divinità: Ade, Serapide e Asclepio .
Il Musée d’Etnographie è stato rinnovato nel 2014 e da allora la sua sede è un edificio che ha la forma di una capanna di vetro e cemento aperta alla luce. Al suo interno si trovano alcune testimonianze di cultura materiale veramente uniche, provenienti da tutti i Continenti e che nel loro splendore estetico e simbolico confermano ancora una volta come le società umane e i loro membri abbiano bisogno di toccare il sacro per cercare di dare un significato cosmico alle loro vite, un significato che le affranchi da ciò che Hegel chiamava  il  «travaglio del negativo» e la «furia del dissolvimento».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saggezza antropologica che ancora una volta il protestantesimo ignora, facendo di Ginevra una città calvinista, antropologicamente fredda, elegante e distante.

Il treno che mi ha riportato a Milano alla stazione di confine di Brig/Brigue/Briga (subito prima della galleria del Sempione) si è riempito di centinaia di persone raccolte in tribù familiari che sono salite senza aver prenotato il posto e con bagagli da trasferta definitiva. Né prima né dopo questa fermata ho visto un solo controllore chiedere passaporto o carta d’identità (la Svizzera formalmente non appartiene all’Unione Europea) e neppure il biglietto. Nessun controllo di alcun genere in un treno (svizzero!) ridotto a un vagone merci. Contrariamente a quanto la propaganda globalista e universalista dei telegiornali (italiani ma non solo) va raccontando in modo ossessivo e fasullo, basta viaggiare un poco per capire come sia sufficiente arrivare in qualunque modo sul territorio europeo per transitare senza particolari difficoltà in tutto il Continente. L’Europa è diventata terra di nessuno anche perché è diventata una colonia culturale e politica. Le sue città, compresa Ginevra, conservano ancora le testimonianze della storia d’Europa, mentre la sua popolazione va diventando inesorabilmente asiatica, sudamericana, africana (anche a Ginevra).
Una civiltà che non sa e non vuole più difendersi merita di dissolversi. La storia d’Europa è tuttavia intrisa di pensiero e colma di bellezza, come anche la Svizzera ancora testimonia.

Ginevra. Notturno da un ponte sul Rodano

[Le foto sono state scattate da me; cliccando su ciascuna di esse l’immagine si aprirà nella sua dimensione originale]

Democrazie pedagogiche

Democrazie pedagogiche
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 dicembre 2023
pagine 1-7

In questo articolo ho cercato di seguire la genesi di ciò che Jacob Talmon definisce «democrazia totalitaria», a partire dal pensiero di Jean-Jacques Rousseau e dall’azione politica dei giacobini.
A fare da fondamento alla politica degli ultimi due secoli sono un’antropologia e una teoria educativa interamente rinnovate e (rispetto al passato) capovolte. Dalla ὕβρις greca al peccato cristiano, dai miti orientali al fatum latino, la realtà della vita umana era sempre stata vista come intrisa di limite, intessuta di dolore, destinata in pochi a una faticosa felicità e nei molti a una pena senza senso, lenita dalle periodiche pause della festa e dalla speranza escatologica in un incerto, enigmatico altrove. Con l’Emilio e con il Contratto sociale la natura umana diventa invece una sostanza plasmabile in tutte le forme, indirizzabile a qualunque obiettivo, docile alle riforme più ardite e pronta quindi alla felicità degli dèi.
Le istituzioni purificate e l’educazione onnipotente divennero quindi lo strumento che avrebbe dovuto sradicare gli impulsi aggressivi per far emergere al loro posto l’innocente bontà della natura umana. Un’antropologia e una teoria dell’educazione alle quali verrebbe da rivolgere la domanda che nel recente film di David Fincher il protagonista a un certo punto pone: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’» (The Killer, USA 2023).
Non la democrazia intesa empiricamente come dialogo, rispetto delle differenze, continuo, faticoso e non garantito miglioramento per prove ed errori, ma la democrazia concepita come necessaria condivisione di una verità salvifica, di valori assoluti in nome dei quali privare della libertà di parola, di movimento, di lavoro chi non li condivide (state pensando anche al Covid19 e alla cancel culture? state pensando bene).
Il testo cerca di indicare la presenza dello spirito totalitario nelle pedagogie che dominano il presente, vale a dire in quelle che determinano la vita quotidiana, il lavoro scientifico, la pratica didattica nelle scuole e nelle università anche italiane.

[Foto di Edwin Andrade su Unsplash]

«Nessuna empatia»

The Killer
di David Fincher
USA, 2023
Con: Michael Fassbender (killer), Charles Parnell (Hodges), Tilda Swinton (donna), Kerry O’Malley (Dolores)
Trailer del film

L’obiettivo è non esserci. Non apparire alla miriade di telecamere, microcamere, metal detector, registrazioni, controlli, che scandiscono nel XXI secolo la vita degli umani, pressoché ovunque. Lo scopo è quindi rendersi per quanto si può invisibile. Vestirsi «come un turista tedesco», che nessuno vuole avvicinare. Condurre la giornata nel modo più anonimo. Per uccidere. E poi sparire. Metodico, distante, e soprattutto interamente consapevole di che cosa sia il mondo. Tutta la prima parte del film è un’antropologia in forma di attesa. Di attesa della vittima. Che però, per un banale ostacolo di una frazione di secondo, sfugge. A quel punto le conseguenze sono fatali. E il film diventa una lunga vendetta che sembra negare uno dei presupposti fondamentali del lavoro di questo killer: «Nessuna empatia. L’empatia è debolezza. Niente di personale. I don’t give a fuck». Presupposto a sua volta fondato sull’antropologia hobbesiana enunciata all’inizio: «O uccidi o sei ucciso». Un’antropologia decisamente antirussoviana: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’».
Le città che scandiscono i cinque episodi sono alcuni dei luoghi dove agisce il killer che il capitalismo finanziario è: Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago. E infatti l’ultimo incontro avviene nella dimora, studio e santuario di un maestro della finanza, per arrivare al quale il killer ha percorso un cammino lungo, metodico, distante, consapevole. Mortale.
Come in Seven (Fincher, 1995) il disincanto è completo ma rispetto al calore e alla passione che in quel film fanno da contraltare alla logica dell’assassino, The Killer conferma in un modo geometrico e algido le parole di Thomas Hobbes sulla vita umana «solitaria, misera, ostile, brutale e breve» (Leviatano [1651], Laterza 1989, cap. XIII, p. 102), anche e specialmente a causa dell’«inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte» (Ivi, cap. XI, p. 78), nonostante l’umano cerchi di nascondere tale condizione «attraverso la finzione, la menzogna, la simulazione e le false dottrine» (Ivi, introduzione, p. 7) come quelle che pongono questo mammifero al vertice della gerarchia dei viventi e degli enti o arrivino persino a definirlo «figlio di Dio» 😳 😆.

Le libertà

È il senso dei giorni, è la condizione delle scienze, è l’eredità degli eventi e delle idee che hanno reso luminosa l’Europa, è il desiderio, l’impegno, la lotta per le libertà del corpo sociale e di conseguenza degli individui che ne fanno parte. A questo patrimonio stiamo rinunciando con miopia, incoscienza, stanchezza, rassegnazione, irresponsabilità.
Anche per questo il numero 27 (settembre 2022) di Vita pensata dedica alle libertà una riflessione molteplice e unitaria, che ruota intorno ad alcuni grandi pensieri della filosofia europea: Kant, Foucault, Fichte, Nietzsche, Rousseau, Proust; che difende la scuola e l’università in quanto luoghi nei quali può e deve svilupparsi un atteggiamento critico verso l’informazione e il potere. Se non lo fanno scuola e università, chi potrà mai garantire la libertà dai dogmi dell’autorità politica, religiosa, mediatica, finanziaria?
Al dominio e alle sue tentazioni di morte opponiamo il nostro essere pervasi di un amore spericolato e insieme lucido verso il vivere liberi. Un amore che ci fa vedere quanto e come le tendenze dispotiche che attraversano il corpo politico collettivo sono in questi anni talmente vaste e profonde da far sì che la libertà che riusciremo a conquistarci non sarà mai troppa.

Montaigne, Rousseau, Foucault

Il numero 356 (luglio/agosto 2020) della rivista Diorama Letterario ha pubblicato alcune riflessioni di Alain de Benoist dal titolo Note sull’inizio dell’era covidiana (pagine 9-12).
Questi i titoli dei brevi paragrafi nei quali il testo è suddiviso:
-Inedito
-Covid contro Golia
-Prevedere
-Globalizzazione
-L’Europa
-Antropologia
-La morte
-L’economia o la vita?
-La ‘guerra’
-Lo stato di eccezione
-Sorveglianza e biopotere
-Prima, dopo
-Rientro delle classi (sociali)
-Geopolitica dell’epidemia
-Decontaminazione

Invito a leggere il pdf completo del testo.
Intanto segnalo qui un brano dal paragrafo Sorveglianza e biopotere:
«Ogni pandemia è prima di tutto una epidemia della paura. La paura fa accettare le restrizioni più mostruose alle libertà individuali. È anche un meraviglioso pretesto per rafforzare la sorveglianza e il controllo. La classe dirigente non potrà resistere alla tentazione di manipolare la paura. È la strategia del caos: prima si crea il caos, poi si strumentalizza la paura del caos. La stessa cosa vale con il terrorismo, con la delinquenza, con la morte. Il confinamento ha costituito da questo punto di vista un formidabile test di docilità. Testare la docilità delle masse è un principio elementare dellʼingegneria sociale.
Evocando il ‘modello disciplinare della peste’ (per opposizione al modello della lebbra, fondato sul confinamento dei lebbrosi), Michel Foucault chiamava questo ‘biopotere’ – il vecchio sogno di trasformare i cittadini in pazienti permanenti (nei due sensi del termine). Il biopotere è un potere che mira allʼamministrazione e alla gestione dei corpi tramite procedimenti al contempo medici e burocratici: non si tratta più solo di governare gli individui, ma di controllare la collettività attraverso lʼigiene, lʼalimentazione, la sessualità. Al di là della salute propriamente detta, lo scopo è assoggettare tutti i rapporti sociali alle stesse regole di “trasparenza”.
Il cordone sanitario allora non è più solamente lʼarma utilizzata contro i malpensanti; diventa un principio sociale. Lo Stato materno e impartitore di sermoni sogna di seguire le tracce di tutti i cittadini, considerati alla stregua di bambini. Potere di Stato e razionalità medica convivono ottimamente nella sfera del soluzionismo tecnologico, il tutto su uno sfondo di dittatura sanitaria, di maternalismo profilattico e di liberalismo autoritario. Droni, tracciamento telematico, braccialetti elettronici, geolocalizzazione, riconoscimento facciale, analisi retinale, telecamere termiche, controlli biometrici, screening degli algoritmi, chip sottocutanei, spionaggio dei telefoni portatili: si accetterà tutto, dato che è per il nostro bene.
‘Il respiro dellʼuomo è mortale per i suoi simili’, diceva Jean-Jacques Rousseau. Lʼepidemia ha accelerato lʼinstaurazione del regime della libertà sorvegliata».

E questo è il testo del paragrafo dedicato al morire:
«‘Chi insegnasse agli uomini a morire insegnerebbe loro a vivere’, diceva Montaigne. Nellʼepoca del transumanismo, lʼepidemia ci richiama alla finitezza umana. La morte non è certamente mai stata una prospettiva gradevole, ma in passato la si sapeva indissociabile dalla vita. E soprattutto si riteneva che ci fossero cose peggiori della morte – che valevano, in certi casi, il sacrificio della propria vita per esse. La morte era familiare, adesso è diventata estranea. La si guarda come qualcosa di scandaloso, quasi come una violazione dei diritti dellʼuomo, tanto più che si reputa che non ci sia niente di peggio della morte (né niente dopo, ovviamente). Cʼè solo ormai una ‘fine vita’ nel ronzio delle macchine.
In questa società in via di trasformazione in una grande residenza sanitaria assistita, in cui lʼeconomia produttivista ha fatto dei vecchi degli ‘oggetti di scarto’ (Jacques Julliard), le persone non muoiono più: ‘partono’, ‘ci lasciano’. La negazione della finitezza degli esseri è una delle chiavi del pensiero progressista, che sogna una vita eterna e un futuro infinito. Il Covid-19 ha cambiato anche questo. Il lugubre becchino che ogni giorno contabilizza i decessi in televisione, le inchieste quotidiane sui mortori, ci richiamano alla nostra condizione. Ieri si nascondeva la morte, oggi se ne fa ogni sera il conteggio quotidiano. E il sogno di vincere la morte appare per quello che è: i non-morti sono degli zombi».
Come si vede, pagine da leggere. Per cercare di capire sine ira et studio quello che ci sta accadendo.

Nello stesso torno di tempo, la primavera scorsa, un sociologo italiano, Andrea Miconi, ha formulato delle tesi simili a quelle di De Benoist. Il suo libro –Epidemie e controllo sociale (Manifestolibri, 2020)– è stato segnalato qualche giorno fa dal collettivo Wu Ming con questo titolo:
Epidemie e controllo sociale di Andrea Miconi è un libro importante, togliamolo dal cono d’ombra e dall’oblio. Riporto qui alcune affermazioni tratte da questa lucida e breve recensione (che consiglio di leggere per intero):

«Abbiamo scoperto che è uscito a giugno, il che non toglie assolutamente nulla alla sua attualità, anzi: dimostra senza equivoco che i nodi di fondo sono rimasti gli stessi. Tutti.
Leggendo, abbiamo ritrovato in sequenza tutte le storture ideologiche e comunicative, le strategie di deresponsabilizzazione adottate dalla classe dirigente di fronte alla pandemia, le disastrose confusioni – un bell’esempio di Made in Italy, per fortuna imitato in pochi altri paesi – tra ‘lockdown’ e arresti domiciliari di massa, i capri espiatori, le sanzioni assurde, gli orrori giuridici, amministrativi e mediatici, le deprimenti capitolazioni della “sinistra”, e i meccanismi che hanno cooptato i virologi nella politica-spettacolo trasformandoli in guitti che litigano tra loro nei talk-show. […]
Sei giorni dopo la mancata chiusura in val Seriana il governo, in preda al panico, chiuse le nostre vite. I verbali desecretati dimostrano che la decisione non si basò su alcuna evidenza scientifica. Spallucce pure su questo. […]
In realtà non c’è alcuna prova scientifica che nella tarda primavera la curva dei contagi si sia abbassata grazie a questo fantomatico ‘modello’. Le curve dei paesi europei hanno andamenti molto simili, che si sia adottato un pacchetto di provvedimenti o un altro, che si sia fatto il ‘lockdown hard’ o ‘light’, che le persone siano state blindate in casa (sorvegliate da vicini, polizia e droni) o che abbiano potuto uscire (senza alcuna autocertificazione), che sulla lavagna si sia dalla parte dei ‘bravi’ (dove ci siamo autocollocati noi, a dispetto del record di morti in Europa) o degli ‘inetti’ (il Regno Unito di Boris Johnson). […]
E intanto, pur attendendo la nuova ondata, non si faceva nulla per potenziare davvero la sanità, per potenziare i trasporti ecc. No, si parlava della ‘movida’, a volte inventandola anche dove non c’era, per fare lo scoop. Era evidente che, in caso di guai, si sarebbe di nuovo data la colpa a cittadine e cittadini, sparando nel mucchio, per disperdere la responsabilità orizzontalmente. […]
Le pagine più dure sono quelle sull’orrore mediatico quotidiano, che però viene analizzato come elemento di una ‘tempesta perfetta’:
‘Dall’alto il desiderio delle istituzioni di nascondere le responsabilità per la gestione fallimentare dell’epidemia; dal basso, la deriva verso la delazione di una maggioranza di persone impaurite; nel mezzo, la passione dei giornalisti per lo stereotipo, e il loro compiacimento per gli indici di ascolto che salgono, di qua, e per le battute paternaliste dei potenti di turno, di là’».

La tragedia che stiamo vivendo è dunque una messa in opera radicale e pervasiva di quella biopolitica nella quale Michel Foucault ha visto la cifra e il senso del potere contemporaneo. Un potere che dice di parlare in nome della salute e che invece contribuisce in modo determinante agli effetti mortali di un virus.

 

«Plaudite, amici»

Piccolo Teatro Studio – Milano
Mangiafoco
Drammaturgia e regia di Roberto Latini
Elementi scenici: Marco Rossi
Con: Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799

«Acta est fabula, plaudite!». Queste le parole che Svetonio fa dire a Ottaviano Augusto morente. Alla conclusione della fabula, della commedia dell’esistenza, possiamo applaudire chi l’ha recitata.
Del teatro Roberto Latini afferma che «qui è dove fingiamo veramente e le bugie son tutte vere» (Programma di sala, p. 12). Qui. Ora. Sempre. Con i loro volti estremamente mobili, con gli occhi espressivi, con le mani nell’aria, con il naso e le dita a percepire l’ambiente, gli esseri umani sono tutti e sin dall’inizio attori.
È un’ovvietà sociologica che se fossimo sinceri, se davvero dicessimo sempre ciò che pensiamo degli altri e delle situazioni, ci saremmo estinti da tempo in una guerra di tutti contro tutti ancor più feroce di quella che ogni giorno viviamo. Chi invoca la trasparenza fra gli umani (Rousseau, ad esempio) o non sa quel che dice o è particolarmente maligno. Siamo opachi per fortuna, capaci di nascondere i nostri pensieri dietro la fronte delle nostre recite sociali, affettive, intellettuali. Le forme ci salvano, ci salva la mente e la sua costante menzogna sul mondo.
Anche per questo il teatro va al di là dell’immagine ed è sempre immaginazione; è costruzione, al di là della percezione; oltre l’empiria si apre all’αλήϑεια, al disvelamento freddo e luminoso del mondo. Mangiafoco è assai più che metateatro, è l’intreccio di racconti, storie, autobiografie, momenti testuali, movimenti appresi e movimenti restituiti. Il naso di Pinocchio è un segno dell’intera vita individuale e collettiva. A nessuno, infatti, mentiamo con tanta convinzione quanto a noi stessi. Per poter vivere ancora il teatro del mondo.
La freddezza che caratterizzava il precedente spettacolo di Roberto Latini – Il Teatro comico di Goldoni – acquista qui il calore delle vere vite degli attori che raccontano di come sono arrivati al teatro. Vere vite? La verità si cristallizza nei blocchi di ghiaccio che rimangono in scena, si scioglie nel flusso irreversibile della materia e del tempo.

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