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Sottoproletariato

Non essere cattivo
di Claudio Caligari
Italia, 2015
Con: Luca Marinelli (Cesare), Alessandro Borghi (Vittorio), Roberta Mattei (Linda), Silvia D’Amico (Viviana)
Trailer del film

Vittorio e Cesare sono due dei tanti sottoproletari che fra Ostia e Roma tentano di fare soldi comprando e vendendo droghe. Il primo cerca ogni tanto di cambiare vita, di trovare un lavoro, di creare legami. Il secondo è spesso strafatto, sempre in bilico tra violenza e fragilità. Tutto intorno a loro si agita un’umanità senza luce.
La narrazione di Caligari è asciutta, gli eventi sembrano accadere al di là della volontà stessa dei personaggi ma nello stesso tempo con la loro piena partecipazione. Lo sporco, il degrado, la miseria esistenziali sono profondi, anche se di tanto in tanto illuminati da qualche barlume di consapevolezza.
Nell’osservare queste vite, il loro fondamento, le loro scelte e i loro esiti, si comprende meglio con quanta ragione Karl Marx definisce il sottoproletariato in termini politicamente sprezzanti, come strumento di ogni possibile potere reazionario. E si comprende anche come il fallimento delle scelte internazionali sul mercato delle droghe sia probabilmente voluto. La ragione sta nel fatto che se interi gruppi sociali disagiati vengono imbottiti di stupefacenti, la loro capacità di rivolta e di coscienza politica sarà annullata e i governi potranno stare tranquilli nel perseguire i propri interessi anche di classe.
Ogni cedimento alla commiserazione verso il Lumpenproletariat (proletariato straccione), sia esso autoctono o migrante, è un cedimento al Capitale. Una delle più profonde ragioni della fine della sinistra in Europa è l’aver dimenticato questa semplice tesi marxiana. So bene che quanto dico può apparire molto duro o persino ‘reazionario’ ma mi sembra evidente che i complici della reazione sono coloro che sostengono gli interessi della finanza e del capitalismo. Tra tali interessi rientrano le politiche proibizionistiche sulle droghe -e quindi l’enorme loro diffusione all’interno di ampi strati della popolazione giovanile e non solo- e le politiche di accoglienza indiscriminata dei migranti. Quest’ultima opzione è certamente cristiana ma non è comunista. Il vero leader della sinistra ‘umanitaria’ è il Pontefice Romano.
Sino a che quanti si credono sinceramente ‘di sinistra’ non comprenderanno che molte delle loro tesi e opzioni politiche non hanno nulla a che vedere con il marxismo, il Capitale finanziario potrà non soltanto stare tranquillo ma continuare la propria opera di distruzione del Corpo sociale e dell’ambiente naturale.
A leggerli bene, anche film come Non essere cattivo, con i suoi ottimi e credibili interpreti, mostrano ciò che dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia delle conoscenze storico-sociali di base e non venga accecato dai sentimentalismi.

Le macchine e gli dèi

Dioniso_Centrale_MontemartiniL’immenso patrimonio della Roma pagana richiede spazi su spazi, luoghi su luoghi per essere accolto, visto, goduto. Uno di tali spazi è la Centrale elettrica Montemartini, edificata nel 1912, nella quale la suggestione dell’archeologia industriale esalta la potenza di un passato antico ma pieno di vita. Stile liberty e marmi romani si mescolano in un’armonia fatta di pietre, fatta di acciaio.
Le statue provengono da siti molto diversi, dal Campidoglio, dagli Horti, da case private e da edifici pubblici. In ciascuna di queste icone dense di materia parla un mondo consapevole, coraggioso, lucido, violento a volte ma sempre misurato.
Che si tratti di umani o di dèi, di imperatori o di eroi, di guerrieri o di madri, questo mondo è intessuto della malinconica consapevolezza della morte e della gaudiosa disponibilità al piacere. Il piacere della bellezza, il piacere del cibo, il piacere dell’eros, il piacere della vita come scoperta, della natura che vince.
In questi ambienti novecenteschi, tra le imponenti strutture tecnologiche di una centrale a carbone, le antiche statue dimostrano la loro capacità di parlare al di là dello spazio e del tempo che le vide nascere, rivelano la loro capacità di essere eterne. E i motori, le turbine, i pistoni mostrano di poter essere anch’essi forma della bellezza se lo sguardo che li coglie è capace di armonia e di cura.
Seduto in cucina, Eraclito una volta disse «anche qui  vi sono dèi». Sì, anche qui.

Philosophiae Consolatio

BoetiusL’importanza e il peso della filosofia di Boezio (475-525) non stanno probabilmente nel valore intrinseco della sua riflessione ma nella particolare funzione assunta dalla sintesi che egli ha tentato della cultura classica.
Nei cinque libri del De consolatione philosophiae Boezio affronta i temi della Fortuna, dell’unità di Dio, del Male, della conciliazione fra libero arbitrio e onniscienza divina. Le soluzioni sono platoniche, sono agostiniane. «Ti è necessario ammettere che l’uno ed il bene siano la medesima cosa» (III, 11.9); il male non è che deficienza, scadimento di perfezione, è «nulla, dato che non può farlo colui che non c’è cosa che non possa fare» (III, 12.29). È ammirevole soprattutto l’altezza da cui Boezio parla di queste cose, il disprezzo per il volgo, per la stoltezza delle masse, inconfondibile segno della cultura e della mentalità classiche. Pertanto, nonostante gli espliciti attacchi alle filosofie ellenistiche, Boezio appare uno stoico allorché osserva che «nulla c’è di misero, se non quando tu lo valuti per tale, e viceversa felice è ogni tipo di sorte per chi la subisca serenamente» (II, 4.18); appare un epicureo quando sottolinea quante gravi angustie e quante poche gioie diano i figli tanto che «chi è senza figli è felice nella sua disgrazia» (III, 7.6).
Nonostante i cristiani si siano appropriati per intero della sua figura, Boezio rimane anche un antico pagano nel ribadire -come Pitagora come Platone come Aristotele- l’obiettivo della virtù filosofica: «diventare dei» (IV, 3.10). In questo intenso dialogo con la filosofia non viene mai fatto il nome del Cristo e non si trova alcuna condiscendenza nei confronti delle folle miserabili dei malvagi, delle masse che non pensano e vivono trascinate dall’errore, eleggono alle somme dignità politiche gli indegni, mutano opinione al mutar dei venti, meritano tutt’al più commiserazione essendo malate della malvagità che «brucia la mente, più atroce di qualunque debolezza fisica» (IV, 4.42) e alle quali, infine, viene tolta la stessa umana dignità:

…Ma l’apparenza che loro resta del corpo umano rivela che sono stati uomini fino a questo momento; ma, rotolati nel male, essi hanno perduto la natura di uomini…(IV, 3.15)

Boezio è stato davvero l’ultimo filosofo romano, l’erede di un sentire culturalmente aristocratico, al quale l’etica cristiana non riuscì a togliere l’orgoglio di un platonico.

Temporalità e Differenza insieme a un cane bassotto

LongoSettembre2015

Giovedì 10 settembre 2015 alle 17,30 presenterò a Roma (Casa del Parco – Pineta Sacchetti) il libro di GiuseppeLocandina Temporalità (2) O. Longo Alcibiade. Una suite per bassotto.
Il giorno successivo alle 18,00 (Biblioteca di Villa Mercede) sarà Longo a presentare Temporalità e Differenza.

[Cliccando sulle locandine saranno meglio leggibili le informazioni sui due incontri]

Il tempo, il marmo

Rivoluzione Augusto. L’imperatore che riscrisse il tempo e la città
Palazzo Massimo – Roma
A cura di Rita Paris con Silvia Bruni e Miria Roghi
Sino al 2  giugno 2015

Per Carl Schmitt «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» («Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet», trad. it. in Teologia politica, «Le categorie del ‘politico’», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino 1972, p. 34), vale a dire chi stabilisce la sospensione del tempo ‘normale’ e l’ingresso in un tempo d’emergenza, nel quale le regole vengono sospese e il potere può agire facendo a meno di esse.
Più in generale, il potere è potere sul tempo, è potere di stabilire i modi e il significato del tempo, che sia ciclico, lineare, nostalgico, escatologico, assoluto. È anche per questo che «il tempo sociale è una delle forme più chiare e potenti della struttura simbolica dei gruppi umani, i quali via via che diventano sempre più estesi, interrelati e complessi hanno bisogno di una autocostrizione in vista della migliore regolazione delle esistenze individuali, subordinate alla più vasta struttura sociale. Il tempo sociale è quindi un mezzo di orientamento, al modo di una mappa o di una bussola, un meccanismo regolativo di alto livello e capace di esercitare su chi lo adotta una costrizione talmente forte da sconfinare quasi in un dato naturale. Esso rappresenta una delle più profonde espressioni della necessità umana di orientarsi nel mondo tramite una foresta di segni che siano in grado di salvaguardare l’esistenza individuale e collettiva. Quanto più i gruppi e le società diventano complessi e spersonalizzanti, tanto più i loro membri integrano i dati simbolici trasformandoli in strutture ovvie, naturali, astoriche. Il tempo è una delle più evidenti testimonianze, insieme al linguaggio, di questa naturalizzazione dei segni culturali» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, p. 166). Questa realtà politica e simbolica ha prodotto la lunga vicenda dei calendari che le diverse civiltà si sono dati, «calendari e misurazioni molto diverse tra di loro ma tutte rivolte a coniugare bisogni sociali e schemi antropologici con il moto della luna e del Sole» (Temporalità e Differenza, Olschki 2013, p. 16).
Un’affascinante conferma della consustanzialità di tempo e potere è data dalla mostra dedicata ai modi in cui i Romani antichi scandivano il tempo collettivo e alle trasformazioni apportate al calendario da Cesare Ottaviano Augusto.
Augusto interpretava la propria opera come un servizio all’antica Repubblica ma venne acclamato per 21 volte Imperator e volle mutare alla radice la struttura spaziotemporale della sua città, volle reinventare il tempo pubblico, collettivo, religioso. Le sue modifiche furono volte soprattutto a coniugare natura e società, introducendo accanto ai giorni dedicati agli dèi quelli consacrati agli umani che in qualche modo si fossero resi degni degli dèi. Onorare il principe divenne come onorare la divinità. È quanto testimoniano qui le splendide opere in marmo che raffigurano il Tempio di Quirino, i segni zodiacali, la Rilievo con triade apollineatriade apollinea. Fasti chiamavano i romani i loro calendari, poiché in essi era fondamentale l’indicazione dei giorni nei quali si potevano svolgere le attività amministrativo-politiche. Tra i più accurati che ci siano rimasti i Fasti Praenestini, redatti fra il 3 e il 9 d.C.
Nella cartella stampa della mostra si legge: «Quando cambia un calendario nella città mutano l’organizzazione e l’ordine del tempo, determinando un nuovo modo di pensare e di vivere, accanto alla topografia delle emergenze monumentali, la topografia cronologica della città» (p. 5). Sovrano è chi decide sullo statuto del Tempo.

Petronio / Fellini

È un libro, il Satyricon, che più di altri trasmette il senso di un’intera civiltà, il significato del mondo pagano. Una civiltà e un mondo caratterizzati in primo luogo dalla consapevolezza della nullità dell’umano e del dominio della morte. Senza però per questo condannare il vivere in nome di principî assoluti, o di principî qualsiasi. Nelle avventure veloci e diverse dei suoi ingenui, furbi, concreti, vivi personaggi traspare un esistere lieto di sovrabbondanza e colmo di desiderio. Encolpio narra una trama sempre in trasformazione, tra amori etero e omosessuali, realizzati e falliti; truffe ardite e portate a buon fine; vecchiaie sagge, disincantate e ludiche (come quella di Eumolpo); banchetti straripanti che si spengono anche nella malinconia, come la famosa cena di Trimalcione.
Il mondo che qui si agita è un mondo inferiore/infero, fatto di strati sociali subordinati, ricchezze da parvenu, presunzione di gente fallita. Encolpio e -per un tratto- il suo amico Ascilto si gettano in questo vivere con tutta la voglia di gente assetata. Le vicende grossolane che vi accadono sono tuttavia narrate con un raffinatissimo senso del gioco e con l’ironia che soltanto la filosofia sa dare. Se per i Greci l’essere umano è il più terribile, il più meschino e pertinace tra gli enti che sulla Terra respirano, per Petronio «utres infilati ambulamus! Minoris quam muscae sumus. Illae tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae» [gonfi otri che camminano! Siamo meno delle mosche. Loro però qualche forza ce l’hanno, noi non siamo più che bolle] (42, 4). La nostra inconsistenza, la debolezza che ci costituisce crea i mondi ultraterreni, gli dèi, le punizioni: «Primus in orbe deos fecit timor» [Per prima cosa gli dèi la paura crearono] (Anth. Lat., I, 1, 466). Basta dunque riflettere un poco per valutare l’umano per ciò che è, per comprendere la tragedia del vivere, senza per questo maledire il fatto di esserci. Sfidando le paure e la morte, uno dei frammenti più emblematici attribuiti a Petronio recita: «I nunc et vitae fugientis tempora vende / divitibus cenis! Me si manet exitus idem / hic, precor, inveniat, consumptaque tempora poscat» [Vai dunque e vendi le sfuggenti ore in cambio di qualche cena sontuosa! Se già intravedo il morire, prego che qui mi trovi e mi chieda del mio esser vissuto]. Rapido come il vento, Petronio merita il riconoscimento che Nietzsche gli attribuì con queste parole:

Che aria viziata e malata in mezzo a tutto l’esagitato parlare di «redenzione», amore, «beatitudine», fede, verità, «vita eterna»! Si prenda per contro in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola buffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione.
(Frammenti postumi  1887-1888, trad. di S. Giametta, Adelphi 1979, 9[143], pp. 70-71)

Fellini Satyricon (Italia, 1969) -che consiglio di vedere- è tutto questo osservato con gli occhi raffinati, visionari e decadenti di un artista che vive nel pieno della cristianità ma sente assai forte il richiamo della Roma pagana. È un film meraviglioso e difficile, che non sta fermo mai, nel quale la levitās di Petronio si trasforma in una radicale arcaicità formale e psichica che tocca la ferocia; nel quale l’eccesso vuole essere benedetto ma più come atto di volontà che come spontaneo fluire del piacere. Un’arcaicità simile a quella della Medea di Pasolini. Il valore del Satyricon, certamente il più colto tra i film di Fellini, sta dunque anche e forse specialmente nel farci intravedere ciò che abbiamo perduto dei pagani: la loro profonda innocenza.
Ancora una volta Nietzsche aiuta a capire: «Quale ristoro, dopo il Nuovo Testamento, prendere in mano Petronio! Come ci si sente subito rimessi in piedi! Come si sente la vicinanza di una spiritualità sana, tracotante, sicura di sé e malvagia! E alla fine ci si trova di fronte alla questione: ‘non ha forse il sudiciume antico ancora più valore di tutta questa piccola arrogante saggezza e bigotteria dei cristiani?’» (Frammenti postumi  1887-1888, 10[93], p. 155)

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