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Pilato

Pilato, il Sacro
in Vita pensata
n. 31, ottobre 2024
pagine 32-42

Indice
-Pilato, le fonti
-Pilato, lo scettico
-Pilato, il prigioniero
-Pilato, il filosofo
-Pilato, il disvelatore

Abstract

La figura e il nome del Procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, sono stati sempre oggetto di una lettura che cerca di coglierne l’enigma. E questo a partire dal fatto assai singolare che quello di Pilato è l’unico nome umano che appaia nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano, vale a dire nel Credo dei cristiano-cattolici. In questo saggio ho cercato di cogliere la profondità e la centralità di Pilato a partire dalle fonti storiche e da alcune delle principali interpretazioni letterarie. Ciò che emerge con chiarezza è che il nome di Pilato è intriso di una plurale e profonda dimensione sacrale.

The figure and name of the Procurator of Judea, Pontius Pilate, have always been the object of a reading that seeks to grasp its enigma. And this starting from the very singular fact that Pilate is the only human name that appears in the Nicene-Constantinopolitan Creed. In this paper I have tried to grasp the depth and centrality of Pilate, starting from historical sources and some of the main literary interpretations. What emerges clearly is that the name of Pilate is imbued with a plural and profound sacred dimension.

Berthold Werner – Caesarea maritima, Stein mit dem Namen des Pontius Pilatus

Tempo fallito

Megalopolis
di Francis Ford Coppola
USA, 2024
Con: Adam Driver (Caesar Catilina), Giancarlo Esposito (Frank Cicero), Nathalie Emmanuel (Julia Cicero), Shia LaBeouf (Clodio Pulcher), Jon Voight (Hamilton Crassus III), Aubrey Plaza (Wow Platinum)
Trailer del film

XXXI secolo. New Rome è contesa tra il sindaco Cicerone e il visionario premio Nobel architetto Caesar Catilina. Il primo cerca di conservare il precario e rassegnato equilibrio tra la grande ricchezza di pochi e la miseria della plebe. Il secondo, a capo dell’unità di progettazione della città, abbatte i vecchi quartieri con l’intenzione di ricostruirli utilizzando un materiale da lui inventato, il Megalon. Si tratta di un materiale all’incrocio tra inorganico e organico, con dunque la capacità di ripararsi e riprodursi. Tra i due contendenti si pone il ricchissimo banchiere Crassus III e soprattutto Julia, figlia di Cicerone e innamorata di Caesar. Il quale ha un altro talento, che è il nucleo del film sin dalla prima scena: è in grado di dominare il tempo, almeno nel senso di fermarlo a un suo ordine e poi farne ricominciare il flusso.
È il tempo infatti il vero tema del film, o per essere più esatti l’aspirazione del film. La quale naufraga in una serie di citazioni affastellate più o meno a caso da filosofi e poeti quali Marco Aurelio, Seneca, Shakespeare, Cicerone appunto, Rousseau e altri. E naufraga nella ripetizione della ‘parola’ Time: tempo cha va, tempo perduto, tempo che fluisce, tempo che spaventa, tempo che si ferma, tempo tiranno, tempo-che-non-sappiamo-che-cosa-sia e via ripetendo una serie di banalità, nonostante le evidenti pretese di profondità che questo film nutre.
Anche l’onnipresente analogia storica con l’Impero romano si riduce a una serie di luoghi comuni, i quali confermano che allo statunitense medio, vale a dire che non sia professore di qualcosa, la storia, i libri, i concetti appaiono in questo modo: una serie di pietanze da riscaldare per la tavola della bella figura da fare.
A Coppola sta probabilmente capitando quanto era già successo al giornalista italiano Eugenio Scalfari, che in tarda età (il regista ne ha 85) abbandonò i giornali e si diede alla filosofia. A pubblicargli i libri furono ovviamente degli importanti editori (persino un ‘Meridiano’ Mondadori), libri che ora giustamente non legge più nessuno e che non lasceranno traccia nella cultura filosofica.
È bello e significativo che le persone si rendano a un certo punto conto nelle loro vite che senza filosofia la cultura non è cultura e cerchino di riparare. Ma lo si deve fare con umiltà, senza pretendere di diventare filosofi soltanto perché se ne ha il desiderio, perché si possiede la capacità di articolare dei concetti, perché ci si pone delle domande sul senso della vita. La filosofia non è questo ma costituisce un lavoro serio, quotidiano, che ha i suoi metodi, le sue condizioni, i suoi attrezzi. A nessuno verrebbe in mente di scrivere testi di ingegneria a 70 anni senza aver mai studiato scienza delle costruzioni; ci si illude invece che lo si possa fare in filosofia. I risultati sono quelli di Scalfari, di Coppola e di altri.
La meravigliosa, pacificata, luminosa città costruita dall’architetto si intravvede per accenni e sembra più che altro una specie di serra dove fioriscono petali dentro i quali abitano gli umani. Una sciocchezza, insomma, tra la New Age, l’oppio e l’onnipresente virtuale che cancella ogni principio di realtà.
Si salvano soltanto i costumi di Milena Canonero, che è stata capace di inventare abiti che sembrano davvero una fusione tra quelli della Roma antica e i nostri. Per il resto Megalopolis è un colossal digitale costruito tramite software, scritto in modo dilettantesco, infarcito di sentimentalismi, trucidezze e cliché, che ha come cifra stilistica una sorta di fusione di art pompier e postmoderno; un film enfatico e fasullo. E anche noioso.
Non basta aver dato come sottotitolo all’opera Una favola di Francis Ford Coppola per salvare questo film pomposo e di cattivo gusto, che è comunque utile per capire a quale grado di stupidità sia pervenuta l’immaginazione del cinema statunitense, segno anch’esso del degrado che ormai involve quel Paese in ogni sua espressione. Il tempo di Megalopolis  è tempo fallito, tempo perso.

Buio

La terra dell’abbastanza
dei Fratelli D’Innocenzo
Italia, 2018
Con: Andrea Carpenzano (Manolo), Matteo Olivetti (Mirko), Milena Mancini, Max Tortora, Michela De Rossi, Luca Zingaretti
Trailer del film

Periferie romane. Periferie dell’esistenza. Periferie del senso. Periferie dove Manolo e Mirko frequentano malvolentieri un istituto alberghiero e trascorrono il loro tempo nel vuoto. Sino a che una sera, senza volerlo, investono e uccidono un passante. La vittima è un pentito della malavita romana che si era dissociato e che si nascondeva. I due hanno quindi fatto un favore ai criminali locali che gestiscono droga, puttane, pedofilia e altre nobili attività. Il padre di Manolo vede in questa circostanza l’occasione fortunata «per svoltare», vale a dire per imprimere un significato diverso alle loro vite, entrando nel clan al quale hanno fatto l’involontario favore. Manolo conduce con sé Mirko e i due cominciano naturalmente e inevitabilmente il loro itinerario dentro il male. Le loro esistenze sono vuote e dannose quanto prima ma adesso sono esistenze con del denaro.
Nessuna psicologia in questo film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo. Un’opera il cui mondo è vicino alla volgarità dei parvenu di Favolacce (2020) e all’autismo del dottor Sisti di America Latina (2021). In tutti e tre i film la cinepresa sta addosso ai corpi, ai volti e agli sguardi dei personaggi. Qui la scena più bella e più inquietante è infatti quella in cui in un bar Mirko e sua madre guardano la vetrina dei dolci. Come se un lampo di tenerezza, di complicità e di assurdo afferrasse le immagini. In tutti e tre i film la solitudine è assoluta e inemendabile, tanto più quanto i personaggi appaiono tra di loro sodali. In tutti e tre i film le persone che vivono e operano non avrebbero dovuto nascere. Sarebbe stato meglio per tutti. Meglio anche e abbastanza per loro.
Nessuna psicologia dunque in questi film. Ed è uno dei loro pregi maggiori. Dalle strade, dai lampioni, dalle camere da pranzo di case assurde – ricche o miserabili che siano -, dagli occhi e dalla pelle degli umani raccontati dai fratelli D’Innocenzo traspare, suda, vince un’ontologia del buio.

Romolo il Grande

Friedrich Dürrenmatt
Romolo il Grande
(Romulus der Große, 1949, prima rappresentazione a Basilea 23.4.1949)
In «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Aloiso Rendi
Einaudi-Gallimard, Torino 2002
Pagine 181-256

Romolo detto Augustolo divenne imperatore di Roma all’età di sedici anni nel 475. Dopo un anno di governo abdicò ritirandosi nella villa di Lucullo in Campania. Con lui finì l’Impero poiché Odoacre, capo dei Germani, non si proclamò imperatore a sua volta ma Re d’Italia. In questa sua commedia, Dürrenmatt dilata il regno di Romolo di vent’anni, ne fa quindi un adulto e soprattutto ne costruisce il personaggio su una ambiguità che emerge soltanto con lo svolgersi degli eventi.
Romolo appare infatti all’inizio come una sorta di cinico un po’ superficiale e un poco clownesco, interamente dedito alle sue galline, alle quali ha attribuito nomi di re e imperatori e che segue nella quotidiana emissione o meno dell’uovo. La moglie Giulia, la figlia Rea e alcuni ministri sono inorriditi da un simile atteggiamento. Il Prefetto della Cavalleria Spurio Tito Manna cerca di parlare con lui dopo aver cavalcato per giorni e notti allo scopo di recargli la notizia dell’arrivo dei Germani ma Romolo non lo ascolta neppure. Al che il Prefetto urla che «Roma ha un imperatore infame!» (p. 207). Anche il fidanzato della figlia, Emiliano, fuggito dalla prigionia e dalle torture dei Germani, si convince che non ci sarà futuro per Roma senza la morte dell’uomo che la sta tradendo. E in effetti l’imperatore è convinto, e lo dice, che «Roma è già morta da un pezzo» (ibidem), tanto che il suo obiettivo consiste nell’affrettare tale morte causando il minor sangue e dolore possibili. A questo scopo Romolo non fa nulla, semplicemente, «lasciando cadere ciò che è destinato ad andare a pezzi e calpestando ciò che merita la morte» (223).
Emerge in questo modo la natura politica del comportamento apparentemente bizzarro e irresponsabile di Romolo, fondato invece sull’«arte di guardare le cose senza paura» e su «quella di compiere senza paura ciò che è giusto» (232). E compierlo a qualunque costo. Per questo, anche per questo, in realtà si tratta di un personaggio, come commenta il suo creatore, «che agisce con estrema durezza e spietatezza […], un tipo pericoloso che ha puntato sulla propria morte» (1204) provocando, se risulta inevitabile, quella di altri.
L’azione giunge al culmine, e svela in che cosa consista la grandezza di Romolo, nella parte finale, nel confronto tra Romolo che vorrebbe essere ucciso da Odoacre e Odoacre che vorrebbe sottomettersi a lui. Il dialogo tra questi due politici delinea una vera e propria filosofia della storia, intrisa di disincanto e di disprezzo verso il potere. Alla fine, infatti, Odoacre accetta di essere nominato Re d’Italia come ultima decisione dell’imperatore e Romolo accetta di non essere ucciso e andare in pensione. I due concordano sul recitare la commedia del potere: «Facciamo finta che, a questo mondo, i conti tornino e che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia» (254). Un’osservazione, quest’ultima, di natura antropologica e ontologica che conferma la trama interamente filosofica della narrativa e della drammaturgia di Dürrenmatt.
Di fronte ai capi germanici, convocati da Odoacre per rendere omaggio all’imperatore, Romolo dichiara che:

l’imperatore scioglie il suo Impero. Guardatela per l’ultima volta questa sfera multicolore, questo segno di un grande impero, sospesa nello spazio, sospinta dal lieve alito delle mie labbra; guardate le terre che si estendono intorno al mare azzurro in cui danzano i delfini, guardate le ricche provincie biondeggianti di messi, le città affollate traboccanti di vita: era un sole che riscaldava gli uomini, e che giunto al suo culmine, bruciò tutto il mondo, per poi divenire adesso, nelle mani dell’imperatore, un globo leggero, che si dissolve nel nulla (255).

Dürrenmatt riafferma così il suo anarchismo, seppure moderato, dichiarandosi non contro lo Stato in quanto tale ma contro lo Stato che commette crimini e soprattutto lo Stato di grandi dimensioni. In ogni caso, «nei confronti dello Stato bisogna essere astuti come serpenti ma mai, per carità, miti come colombe» (1205). Un consiglio di grande fecondità anche per il presente, come sempre.

Shakespeare / Pictures

Teatro dei Vitellini – Gian Paolo Barbieri
A cura di Maurizio Beucci, Emmanuele C. Randazzo e Giulia Manca
Leica Galerie – Milano (Via Giuseppe Mengoni, 4)
Sino al 24 agosto 2024

La moda va bene, se funziona si diventa ricchi e famosi. Vale anche per i fotografi specializzati nelle immagini sulla moda. Ma se non si è soltanto dei bravi mestieranti dell’apparire si cerca sempre di rompere i confini delle gonne, del trucco, delle scarpe e dei lustrini.

Gian Paolo Barbieri – Shakespeare

Gian Paolo Barbieri non è, appunto, un semplice raffiguratore di maschi sistemati come femmine  e di anoressiche abbigliate come regine. Non è, insomma, soltanto quel mondo che René Girard ha descritto con esattezza e ironia: «Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante» (Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore 1999, p. 188).

Gian Paolo Barbieri – Macbeth

Barbieri inventa quindi un portfolio dedicato alle opere e ai personaggi di William Shakespeare. Una quindicina di immagini in bianco e nero e una a colori raffigurano la Bisbetica domata, Amleto e sua madre Gertrude, Falstaff, Calibano, Romeo e Giulietta, Macbeth e Lady Macbeth, Prospero, le Streghe di Macbeth.

Gian Paolo Barbieri – Romeo e Giulietta

Mi soffermo un poco sul personaggio raffigurato da Barbieri nel modo forse più originale: Coriolano. Shakespeare ha avuto infatti l’intuizione di Roma, l’intuizione di una forza storica capace non solo di conquistare popoli, sottomettere terre, pacificare il Mediterraneo ma in grado soprattutto di vincere se stessa, le proprie discordie, le debolezze, di essere più forte dei propri eroi.
Coriolanus è l’eroe della Repubblica: intransigente con se stesso e con i suoi, legato a Roma e più legato alla potenza bellica che Roma rappresenta, incapace di adattarsi alla nuova presenza del popolo nel cuore del potere mediante i tribuni della plebe. Eroe vittorioso e scacciato a causa della sua ambizione e durezza, eroe dal coraggio senza posa e dallo sconfinato orgoglio aristocratico, che muore per la città di cui pure disprezza gli abitanti. Dai drammi shakespeariani Roma emerge in un’altra delle sue dimensioni di fondo: una civiltà del suicidio che antepone l’onore alla vita, la vittoria su se stessi al desiderio di esserci ancora, consapevole che il nulla infinito è il rifugio ultimo contro ogni male.
Al di là della sapienza tecnica, da ritrattista navigato, colpisce in Barbieri la profonda fedeltà al testo di Shakespeare, a come il poeta ha presentato, descritto e vissuto questi suoi personaggi. Una fedeltà coniugata però a una coinvolgente personalizzazione. Questa piccola mostra nel cuore di Milano, a due passi dal Cordusio e dal Duomo, costituisce una riuscita unione di Glamour/Moda e di Classicità/Parola. E  dunque è da gustare.

Gian Paolo Barbieri – Coriolano

Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

La seduzione

Ovidio: seduzione e felicità
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 ottobre 2023
pagine 1-5

Nell’Ars amatoria Ovidio ha tra i suoi obiettivi descrivere un’esperienza razionalizzata dell’amore, nella quale il sentimento è presente, certo, ma in funzione decisamente subordinata al gioco, al piacere, al desiderio e alla finzione. L’«erotodidassi» è un progetto esistenziale, politico e teoretico di controllo del sé che però non significhi affatto rinuncia ma condizione per una soddisfazione ancora più grande, per un piacere più consapevole, per una forma che eviti sempre dismisura e volgarità e si esplichi nel tessuto quotidiano delle relazioni come eleganza e rispetto reciproco.
Raffreddando con la razionalità la passione amorosa nel momento stesso in cui ne celebra i piaceri e la forza, Ovidio mostra in che misura siano fecondi l’atteggiamento e il lavoro filosofici nel cercare di rendere gli umani quanto più possibile saggi e liberi.

[Foto di Anne Nygård su Unsplash]

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