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Beni comuni

I beni comuni oltre lo stato e il mercato
Aldous
, 25 settembre 2024
Pagine 1-2

In questo articolo ho cercato di mostrare come il concetto di proprietà dominante nella società e nell’economia occidentale contemporanea non sia affatto naturale ma sia ovviamente storico. In quanto tale ha delle alternative, delle quali anche la storia di molti popoli e civiltà conferma la plausibilità. I beni comuni sono infatti una delle alternative ben presenti nella storia economica. Essi hanno costituito per millenni la forma più diffusa di proprietà. Nella Roma repubblicana, ad esempio, e persino in quella imperiale, neppure il capo politico più autocratico poteva rendere la res communis una proprietà privata. E non poteva neppure vendere o acquistare le terre e i beni sacri, che erano moltissimi e appartenevano agli dèi.
Tra la cosa pubblica e la cosa privata si dà quindi la cosa comunitaria, i beni essenziali a una comunità strutturata, che nessuno può fare propri a esclusione degli altri ma che non possono neppure essere aperti a chiunque non appartenga a quella determinata comunità. Possono infatti esistere dei beni comuni soltanto là dove esistono delle comunità che si riconoscono come tali, in un perimetro fisico e concettuale ben preciso ma che può naturalmente restringersi o ampliarsi nei diversi contesti, anche nei più complessi come quelli che caratterizzano le società contemporanee. Ho poi collegato i beni comuni alla critica delle pratiche schiavistiche ben presenti nel nostro tempo e nel nostro mondo.

Contro la guerra giusta

Copio qui alcuni dei testi che ho inserito su Twitter in questi giorni:

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E ora che #Trump attacca la #Siria è diventato buono? L’informazione unilaterale è sempre al servizio degli#USA e del loro impero.

La distruzione dell’esercito siriano darebbe forza agli islamisti e all’#Isis. Poi però si lamentano degli attentati in #Europa. #AttaccoUsa

Se ne è accorta persino Repubblica: “Aviazione siriana in ginocchio, un vantaggio per la Jihad”  #attaccousa #Siria

4 bambini morti nell’#attaccousa. Tutti i bambini sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. E #May e #Merkel con #Trump contro #siria

È tanto istruttivo quanto squallido vedere ora l’ di farsi complice del ‘nazista’ in

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In che modo si è arrivati a tutto questo? Quali sono le radici profonde del bellum omnium contra omnes al quale sta pervenendo la politica degli Stati contemporanei?
Le guerre che sconvolsero l’Europa all’inizio dell’età moderna e che si conclusero con il conflitto dei Trent’Anni (1618-1648) furono così totali e feroci perché combattute in nome di Dio. Papisti contro riformati, riformati in lotta tra di loro, re cattolici contro sovrani protestanti ma anche cattolici contro altri cattolici. Tutti combattevano in nome della verità e per motivi quindi di suprema giustizia, poiché nulla -evidentemente- è più giusto che lottare per la verità assoluta del Dio.
Le paci di Westfalia posero fine a tali massacri, regolamentando i conflitti con norme estremamente rigide, che fecero emergere una delle strutture della guerra, il suo essere anche «un gioco diplomatico dominato dalla ragion di Stato con i suoi corredi di segretezza (non a caso nasce in questo periodo la diplomazia come professione) e le sue decisioni sottratte alla passionalità, che in certi momenti sembrava, appunto un gioco; come se si giocasse alla guerra, espressione da non intendere alla leggera, poiché proprio il rispetto ferreo delle regole che si pretende dai giocatori era quello che riusciva a tenere sotto controllo la violenza della guerra. E del resto, come ha mostrato Huizinga, il gioco è uno dei modelli supremi di relazione tra pari» (Archimede Callaioli, in Diorama Letterario 335, p. 22, a proposito del libro La guerra ineguale di Alessandro Colombo).
Il sistema di Westaflia -che escludeva categoricamente i civili dalle azioni di guerra- cominciò a incrinarsi con i conflitti combattuti in nome della Liberté Égalité Fraternité (giacobini e Napoleone) per crollare del tutto nel Novecento con l’evento fondamentale degli ultimi due secoli: la Grande Guerra 1914-1918. Da allora la guerra non ha più rispettato niente e nessuno, tornando a un’altra sua dimensione fondativa e assai diversa dal gioco: la caccia. Decisivi furono gli sviluppi tecnologici, culminati con l’utilizzo dell’aviazione non come sfida nei cieli tra cavalieri/piloti ma come strumento terroristico esplicitamente teorizzato per la prima volta dal generale italiano Giulio Douhet, proprio durante la I Guerra Mondiale. Secondo questo militare l’aviazione avrebbe dovuto svolgere un ruolo del tutto autonomo e capace da solo di mutare le sorti del conflitto, poiché -scrisse- «rende immensamente di più distruggere una stazione, un panificio, una officina producente materiale bellico, mitragliare colonne di camions, treni in marcia, maestranze, ecc. che non bombardare o mitragliare trincee. Rende immensamente di più infrangere resistenze morali, dissolvere organismi poco disciplinati, diffondere il panico ed il terrore che non urtarsi contro resistenze materiali più o meno solide» (cit. da Callaioli, ivi, p. 23).
Attenzione alla parola chiave enunciata da Douhet: terrore. Pur di ottenere la vittoria definitiva contro il male assoluto, rappresentato dalle potenze dell’Asse, si giunse al «momento culminante, ai ‘più perfetti atti terroristici della storia’: Hiroshima e Nagasaki» (Ibidem). In nome della suprema giustizia si giunse a cancellare in pochi minuti le vite di centinaia di migliaia di civili, di persone non in armi. Lo stesso era accaduto tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 a Dresda, incendiata dall’aviazione britannica per esplicita volontà di Winston Churchill. Dresda non ricopriva alcun ruolo strategico; per colpirla -e bruciarne centinaia di migliaia di abitanti- il democratico Churchill parlò esplicitamente di terrore da trasmettere ai tedeschi, ai cittadini tedeschi.
Il terrore portato nel Vicino Oriente e in Europa dall’Isis e dalle altre forze islamiste è attuato in nome di Dio e per la verità del Corano. Il terrore portato dagli eserciti statunitensi ed europei in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria è attuato in nome della democrazia, dei diritti umani, della giustizia.
Se tutte le guerre sono delle catastrofi, quelle giuste sono le più feroci, senza confronto. «Non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un ‘giusto’, vale a dire delle regole rispettate, nella guerra. Così accadde nell’età moderna [per merito dei Trattati di Westfalia] e a questo bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una ‘guerra civile mondiale’ senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità assolute» (Eduardo Zarelli, p. 35).
Intendo qui dire con chiarezza che mi pongo contro tutte le guerre combattute per Dio, per la verità, per la giustizia, per la democrazia. Anche perché i primi a opporsi a tali conflitti dovrebbero essere i filosofi. Quando anch’essi, invece, cadono nella trappola della verità assoluta (‘verità’ andrebbe declinata sempre al plurale) accade che si facciano complici dei peggiori crimini, come fu per Jean-Paul Sartre, il quale negando la terribile carestia del 1932-1933 voluta scientemente  dallo stalinismo per punire i contadini ucraini che rifiutavano la collettivizzazione delle terre, «diede una delle sue più ripugnanti prove di falsificazione della realtà e di conformismo, uscendo sconfitta [l’intellighenzia francese], ma non al punto da farsi passare la voglia di impartire lezioni di moralità politica a tutti i propri avversari» (Roberto Zavaglia, p. 25).

Anche senza la pratica della guerra giusta, la convinzione di parlare e agire in nome di un bene assoluto può condurre a esiti gravi e paradossali, come quelli che riguardano il tema dei flussi migratori dai paesi africani verso l’Europa. Nei confronti di chi evidenzia che l’identità è un concetto e una realtà del tutto ovvia per qualunque società umana -dalle più piccole tribù ai grandi stati- si alza il coro del conformismo più miope, incapace di vedere -semplicemente vedere– «che nel corso della storia gli individui hanno costantemente mostrato una tendenza ad aggregarsi e a creare codici di riconoscimento reciproco -e di esclusione degli estranei- intorno ad una serie di referenti sia concreti che simbolici che dessero loro la sensazione di co-appartenere ad una o più precise entità plurali. Si sono insomma voluti pensare come comunità e come popoli» (Marco Tarchi, p. 2). Ogni tanto qualcuno si sottrae al conformismo liberale e liberista dell’accoglienza indiscriminata che favorisce il Capitale, mette a rischio le culture di arrivo e crea violenza contro i migranti. Paul Collier ad esempio, figlio di migranti e intellettuale di sinistra, il quale in Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza, 2015) argomenta una «tesi che può essere riassunta in questi termini: le porte non vanno né aperte né chiuse, ma socchiuse; un po’ di immigrazione sì, troppa immigrazione no» (Giuseppe Giaccio, p. 29).
Paesi come il Canada e l’Australia, pur essendo enormemente più estesi degli stati europei e praticamente disabitati (l’Australia) «limitano  l’immigrazione alle persone in possesso di un titolo di studio superiore e associano ai sistemi a punti una serie di colloqui tesi a valutare altre caratteristiche», come ricorda appunto Collier (ibidem). Di fronte a politiche così ‘fasciste’ attuate dal Canada e dall’Australia, perché non dichiarare loro guerra in nome del supremo diritto all’emigrazione? Sarebbe certamente una guerra giusta.

Storia / Paradigmi

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La morte di Danton
(Dantons Tod, 1835)
di Georg  Büchner
Traduzione di Anita Raja
Con: Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti
Regia di Mario Martone
Sino al 13 marzo 2016
Trailer dello spettacolo

DantonLa storia, a volte, si cristallizza in paradigmi. Bastano quindi i soli nomi a evocare intere visioni della politica e della convivenza umana. Robespierre e Danton sono due di questi nomi evocativi e paradigmatici. L’intransigenza opposta al realismo, la virtù assoluta contro i piaceri della vita, la solitudine del potere preferita alla sua condivisione. Ma i nomi dei due giacobini possono davvero essere ridotti a questo? No, naturalmente. Gli eventi che videro Danton e Robespierre agire insieme contro la monarchia francese e poi dividersi sul corso che la Rivoluzione avrebbe dovuto prendere sono vicende assai più complesse. Danton fu infatti il primo presidente di quel Comitato di salute pubblica che poi lo processò e lo portò alla ghigliottina il 5 aprile 1794, per volontà anche del suo successore Maximilien de Robespierre che venne a sua volta giustiziato il 28 luglio di quello stesso anno.
La Rivoluzione Francese oscilla dunque da sempre tra il progetto di una palingenesi che stabilisca la giustizia nel mondo e la sferzante definizione che Nietzsche ne diede di «orgia della mediocrità» (Frammenti postumi 1887-1888,  fr. 9 [116], p. 59 dell’ed. italiana Adelphi, 1979).
È difficile mettere in scena questa complessità, queste contraddizioni. Georg Büchner ne trasse un testo assai concettuale che pochi registi hanno avuto il coraggio di affrontare. Mario Martone lo fa con una compagnia molto numerosa, con i mezzi e il fasto di scenografie ispirate agli artisti dell’epoca e in particolare a Jacques-Louis David, con tanta ambizione. Ma il risultato è modesto. Gli attori sembrano infatti forzati a stare nella loro parte, alcuni recitano addirittura male e con voci troppo deboli, la macchina drammaturgica risulta prevedibile nel suo svolgersi scenico. Soprattutto questa Morte di Danton non trasmette emozioni. E questo nell’arte è un limite fondamentale. Tanto più in uno spettacolo che mette in scena paradigmi così assoluti.

Lo Stato

Confalonieri ricevuto da Napolitano; Violante che delira di ulteriori gradi di giudizio; orde di giornalisti, giuristi e deputati scatenati a difesa del loro padrone. Tutto per sottrarre un cittadino alla sentenza definitiva della Cassazione. Nello stesso tempo, attivisti No Tav sono in galera da mesi senza processo. La Rivoluzione Francese è servita a poco. Lo Stato è sempre il luogo del crimine organizzato.

 

Un’autocritica del Novecento

The Desire of  Freedom. Arte in Europa dal 1945
Palazzo Reale  – Milano
A cura di Monika Flacke, Henry Meyric Hughes e Ulrike Schmiegelt
Sino al 2 giugno 2013

Un’autocritica artistica del Novecento. Questo è la densa e coinvolgente mostra che Palazzo Reale dedica alla questione della libertà -al suo desiderio– nel XX secolo e oltre.
Si comincia con il sogno/sonno della Ragione che nella Rivoluzione francese instaurò un regime di perfezione inevitabilmente votato alla morte, poiché la perfezione non è di questa specie. Un Marat salutato come fosse la Madonna e un Adam Smith privo della testa mentre prende un libro dalla sua biblioteca rappresentano efficacemente la dialettica tra disincanto e idolatria che sta a fondamento del giacobinismo.
Si prosegue con sezioni e opere che esprimono: l’orrore dei regimi staliniani; gli effetti apocalittici delle bombe atomiche sganciate dagli USA sul Giappone; la superficialità del Sessantotto funzionale al trionfo del consumismo (in un dipinto di Erró i guerriglieri sudamericani hanno lo stesso tratto pubblicitario dell’interno borghese che stanno assediando); la violenza costante e spesso ben camuffata dei regimi cosiddetti democratici -le torture inglesi sui corpi degli irlandesi, l’esercito francese che il 17 ottobre 1961 sparò a Parigi sulla folla che protestava contro la guerra d’Algeria uccidendo 300 persone, i bombardieri che fanno del Vietnam un deserto (e che Wolf Vostell invita invece a bombardare di rossetti, garantendo in questo modo la vittoria del consumismo statunitense)-; la Russia e gli altri Paesi dell’Impero sovietico diventati dopo il crollo dell’URSS delle lande desolate e insicure dove scorrazzano uomini trasformati in cani da caccia e donne che mangiano insieme a delle lupe.
I titoli delle 12 sezioni sono assai espressivi: Tribunale della Ragione; La rivoluzione siamo noi; Viaggio nel paese delle meraviglie; Terrore e tenebre; Realismo della politica; Libertà sotto assedio; 99 Cent; Cent’anni; Mondi di vita; L’altro Luogo; Esperienza di sé e del limite; Il mondo nella testa.
Il risultato è una meditazione drammatica, ironica e dolente su quanto sia difficile essere liberi ma come senza questo desiderio non ci sia davvero vita.

 

Terrorizzati

Fremono, complottano, tremano, strepitano, sognano percentuali, propongono cifre a un tempo grottesche, insensate e oligarchiche -il 42,5%- come condizione per ottenere alle elezioni il premio di maggioranza. Non pensano ad altro, insomma, che a neutralizzare la democrazia, a rendere ancora una volta nulla la volontà dei cittadini italiani, giusta o sbagliata che sia. E questo dopo che per cinque anni si sono tenuti ben stretta la pessima legge che ha contribuito a eleggerli. Non ci avrebbero neppure pensato se ogni giorno che passa non crescesse la possibilità di non essere rieletti nel prossimo parlamento. E dunque di perdere tutto ciò su cui hanno puntato e investito per ottenere prebende, privilegi, vitalizi, soldi, autorità.
Per quanto mi riguarda, la democrazia rappresentativa è un fantasma di libertà e, se proprio si vuole votare, meglio un sistema proporzionale puro o con sbarramento minimo al 2% e nessun premio di maggioranza, in modo da garantire la rappresentanza di molti dei ceti sociali, delle visioni del mondo, dei legittimi interessi che formano il corpo collettivo. Ma ora che vedo queste orde di deputati e senatori composte per lo più da analfabeti, mafiosi e puttane, questi sciami di cialtroni che se non fossi animalista paragonerei a delle cavallette che stanno depredando la nazione, ora che li vedo terrorizzati di fronte alla prospettiva che in parlamento arrivino persone incensurate, persone che non facciano della politica un mestiere e dunque non si ricandidino dopo due mandati, persone che si impegnano a rendere conto al corpo sociale di ciò che decidono e di come operano, persone quindi molto diverse da loro, ora mi sembra che si debba rispettare “il monito dell’Europa” quando chiede ai Paesi membri che «gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria» (Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, Codice di buona condotta in materia elettorale, pag. 10).
I “democratici ed europeisti” Napolitano e Monti non hanno nulla da dire di fronte allo sconcio di una legge elettorale pensata contro qualcuno -come esplicitamente ammesso da Renato Schifani, presidente del Senato- invece che a favore della volontà popolare? No, qualcosa dicono. Auspicano, difendono e sostengono lo sconcio. La verità è che pur con i suoi limiti il Movimento 5 Stelle adotta un metodo ultrademocratico nella scelta dei candidati. Che la grande stampa e la televisione convincano molti italiani del contrario è la conferma che il potere nelle società contemporanee è un potere mediatico. Anche per questo spero che il Movimento 5 Stelle rimanga intransigente nel proibire ai suoi rappresentanti di partecipare a programmi televisivi dove i giornalisti si pongono al servizio dei potenti.
Per molto tempo ho condiviso il giudizio nietzscheano sulla Rivoluzione francese come «orgia della mediocrità» (Frammenti postumi 1887-1888, 9 [116]) ma ora comprendo sempre più come una somma insostenibile di privilegi, di arroganza e di ingiustizie si possa spezzare soltanto attraverso la violenza e il sangue. Avevo due rimpianti nella mia vita. Adesso se ne aggiunge un terzo: temo che non vedrò mai rotolare le teste dei banditi che depredano l’Italia. Ma vederli perdere il loro titolo di “onorevole”, con i privilegi ai quali si accompagna, quello almeno sì.

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