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Storia / Narrazione / Astrazione

Piergiorgio Branzi – Keeri Matilda Koutaniemi – Irina Litvinenko
Cucine del Monastero dei Benedettini – Catania
Sino al 31 ottobre 2014 (apertura ore 17-19)

Tre sguardi diversi sul mondo, sugli umani, sul tempo.
Branzi_ 001Piergiorgio Branzi fotografa la storia nell’Italia e nell’Europa degli anni Cinquanta. E la trasforma nell’Italia del Cinquecento. Non nei contenuti, naturalmente, ma nell’ordine assoluto della composizione. Gli occhi, il corpo, la postura di una bambina davanti a un bancone con due uova e con accanto una bilancia richiamano la figura del matematico Luca Pacioli dipinto nel 1495 da Jacopo de Barbari. I ritratti -che siano immobili o in divenire- e i luoghi -che siano abitati o vuoti- splendono della geometria dei Maestri che inventarono in Italia la pittura.
Keeri Matilda Koutaniemi fa della fotografia la narrazione di un evento drammatico: la mutilazione genitale di due ragazzine in un villaggio del Kenya. Narra la preparazione, la violenza, il dolore, il pianto, la profonda malinconia degli occhi di queste donne, torturate Koutaniemidalle madri, dalle zie e dalle nonne, come loro stesse lo furono dalle proprie antenate.
Irina Litvinenko fa della fotografia un’ironica astrazione dei corpi di modelli e modelle la cui leggiadria è un totale artificio. Non c’è infatti nulla di naturale in due uomini che al posto della barba hanno dei fiori, nulla di naturale nelle modelle avvolte nel velo o nella plastica che fanno di loro delle sculture e che le trasformano nelle divertite icone della moda contemporanea.
Questa mostra organizzata nell’ambito del Med Photo Fest 2014 riassume storia, narrazione e astrazione: tre delle categorie universali dell’arte fotografica.

La mente amorosa

Bellerofonte Castaldi
«O crudel Amor»
Laura Fabris – Ensemble ‘Il Furioso’

[audio:Bellerofonte_Castaldi_O_ crudel_amor.mp3]

«Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait souffrir?» (M. Proust, Sodome et Gomorrhe, in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1673)
Ritorno su questo tema -affrontato qui altre volte- anche sollecitato dalla lezione che ho tenuto ieri ai  giovani artisti e attentissimi allievi del Maestro D’Ascola al Conservatorio di Milano. L’amore dunque nascerebbe dalla menzogna e consisterebbe nel bisogno di vedere le nostre ferite curate proprio da chi le ha inferte. Paradossi? No, naturalmente. Esatta fenomenologia del sentimento, piuttosto. Che si tratti di esperienze universali lo mostra anche la consonanza tra Proust e il poeta/compositore Bellerofonte Castaldi (1580-1649) il quale si rivolge al crudele dio d’amore chiedendogli di volgere «lo sguardo  / a costei ch’ogn’or m’ancide, / per cui mi struggo & ardo / mentre del mio mal si ride»; ricorda poi al dio l’ipocrisia della donna, che «con faccia pietosa / ma con mente nera, / sta ver me sempre orgogliosa. // Con finto riso / mostra ogn’hor di darsi vinta, porgendo il Paradiso / con la sua pietà dipinta». Alla «dipinta» e cioè fasulla e apparente pietà dell’amata si contrappone la densa realtà del «crudo inferno di dolor» nel quale l’innamorato si sente precipitare. Un inferno che consiste esattamente nel «monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge».
Naturalmente non si tratta qui di banale strategia amorosa, di psicologiche bugie. Si tratta del fatto che «nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale, che può essere raggiunto soltanto con la completa identificazione di oggetto e soggetto. L’impenetrabilità della più volgare e insignificante creatura umana non è semplicemente un’illusione della gelosia del soggetto […]. Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità», impermeabilità che contribuisce in modo determinante alla trasformazione di ogni istante della vita «in un veleno che esaspera il suo amore o il suo odio o la sua gelosia (termini, questi, intercambiabili) e corrode il suo cuore» (S. Beckett, Proust, SE, 2004, pp. 41-42).
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che non potrà mai conseguire alcuna certezza poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
Ed è questo che la splendida voce del soprano Laura Fabris ci racconta in un brano dolce e struggente come può essere la nostalgia del paradiso perduto.

 

Tempo / Conoscenza

Dürer. L’opera incisa dalla collezione di  Novara
Museo della Permanente – Milano
Sino all‘8 settembre 2013

Le incisioni di Albrecht Dürer vengono da un mondo dove la materia sembra trascendersi non per allontanarsi da sé ma per stare nella propria più piena potenza. Tutta la superficie è densa di segni e i segni rinviano -com’è nella loro natura- ad altro: apocalissi, miti, storie bibliche, tormenti, resurrezioni. Su tutto si stagliano i simboli del tempo e della conoscenza. La clessidra che la morte tiene in mano in Il cavaliere, la morte e il diavolo è ciò verso cui il cavaliere va ma non c’è affanno né disperazione né distrazione. Lo sguardo concentrato e l’andamento senza titubanze fanno di lui la pienezza dell’istante che nella sua forza ha già sconfitto ogni grottesca pretesa di negare il divenire.
I libri e la luce che riempiono San Girolamo nella cella costituiscono una plastica rappresentazione di come la conoscenza possa riempire la vita.
Tempo e conoscenza convergono in Melancholia I. Quella figura, circondata dagli strumenti e dai segni del sapere e tuttavia così intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero, è l’espressione più efficace del limite nel quale il pensatore si sente avvolto, della sua consapevolezza del confine oltre il quale non è possibile spingersi. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce»1 , così scrisse Dürer nella lucida e disincantata coscienza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ma è tale consapevolezza il carattere più proprio della filosofia, la fonte della razionalità e della ricerca.

Nota

1. In R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341

Corpi / Forme

Safet Zec
Milano – Rotonda della Besana
Sino al 15 luglio 2012

I primi dipinti dell’artista bosniaco Safet Zec erano delle pulite e banali rappresentazioni figurative del mondo. Ma da molto tempo, almeno da quando è stata inventata la macchina fotografica, non ha più senso per la pittura rincorrere la cosiddetta “realtà”. E infatti Zec, pur rimanendo figurativo, ha sporcato poi le sue opere con la densità di un bianco e nero che sembra rapprendersi dal dolore stesso dei corpi, degli alberi, degli oggetti. Corpi in guerra, lacrime e sangue come lame sulla tela. Ma corpi anche perfetti, al modo di Mantegna. Zec è un artista rinascimentale, che scolpisce sulla tela le forme.
La varietà dei soggetti -facciate di palazzi veneziani, tavole imbandite, nature morte, vittime degli orrori bellici, alberi e case, corpi che si abbracciano, letti sfatti- è funzionale alla costanza della forma, a un impasto di colori e di interiorità che emerge dalla tela e colpisce dritto la mente.

Pittura/Spazio

Tiziano e la nascita del paesaggio moderno
A cura di Mauro Lucco
Palazzo Reale – Milano
Sino al 20 maggio 2012

Finalmente una mostra che invita a guardare al di là dei primi piani, che insegna ad andare oltre la masnada cristiana di santi madonne e profeti per cogliere lo sfondo, per gustare le bellissime città rinascimentali, le fortezze, le piazze, le porte. E i fiumi, le acque, gli alberi e le foreste tutto intorno. E soprattutto l’aria, con i suoi intensissimi azzurri e turchesi, con i gialli dei tramonti autunnali, delle sere d’inverno, dei pomeriggi nei quali d’improvviso arriva la notte. Facendo dunque epoché degli umani e dei divini, rimangono il cielo e la terra a incarnare -chimici eppur immateriali- la bellezza dello spazio.
I protagonisti della mostra sono, tra gli altri, Tiziano Vecellio con i suoi smaglianti colori inscritti in una geometrica nettezza; Lorenzo Lotto, pulito e sereno anche quando racconta tragedie; Giovan Battista Cima da Conegliano, capace di descrivere con esattezza la sua città e altri borghi del Veneto; Paolo Veronese, strabordante di ori e di forme; Giovanni Bellini dal rigore nordico e appagante; Giorgione che sa fare dei luoghi i personaggi più importanti della rappresentazione.
E protagonista è Pier Paolo Pasolini, con i 16 minuti del suo video dal titolo La forma della città: un appassionato e limpido discorso a difesa della tradizione di bellezza delle città italiane -qui rappresentate da Orte e Sabaudia- contro la speculazione che le aggrediva e continua a distruggerne senso, forma, abitabilità. E a difesa di alcune belle e antiche città del mondo che regimi diversissimi tra di loro -dalla Persia dello Scià Reza Pahlavi agli stati comunisti- andavano distruggendo in nome della modernizzazione. Il paesaggio moderno celebrato da questa mostra è un’altra cosa, è la consapevolezza che l’umano non può esistere senza la materia della quale è parte e che si proietta negli alberi, nelle case, nei luoghi.

Don Chisciotte

Teatro Strehler – Milano
Con Franco Branciaroli, da Miguel de Cervantes
Progetto e regia di Franco Branciaroli
Teatro de Gli Incamminati
Sino al 15 febbraio 2009

donchisciottelibro

A un certo punto dello spettacolo Branciaroli spiega che cosa sia lo humour, la sua natura, la differenza rispetto alla satira, alla beffa, al comico. E attribuisce a Cervantes (anche) il merito di aver inventato lo humour nella letteratura. Uno dei segreti del Chisciotte è l’imitazione. L’hidalgo imita i cavalieri erranti, un libro trovato per caso da lui e da Sancho imita le loro avventure. Branciaroli imita -perfettamente- Vittorio Gassman e Carmelo Bene mentre imitano, rispettivamente, Don Chisciotte e lo scudiero. Gassman imita Bene e quest’ultimo imita Gassman mentre entrambi recitano il Faust di Marlowe.  Lo spirito di Dante viene evocato a giudicare chi dei due reciti meglio la Commedia. Tutti e tre, infatti, sono ormai vivi nell’aldilà…

Un vorticoso gioco di specchi, un’idea splendida realizzata magnificamente. L’impressione è che i due grandi attori siano davvero tornati, con le loro voci, le tonalità, l’istrionismo, la malinconia, la potenza. E su tutto una riflessione partecipe e disincantata sul teatro, la sua finzione, la sua fine. Si ride moltissimo e molto si pensa, tra Totò, Peppino e Borges. Uno degli spettacoli più originali dei quali abbia goduto negli ultimi anni.

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