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«Prender per cielo il suo cervello»

Oltre le colline
(Dupa delauri)
di Christian Mungiu
Con: Cosmina Stratan (Voichita), Cristina Flutur (Alina), Valeriu Andriuta (il prete), Dana Tapalaga (la madre superiora)
Romania – Francia – Belgio 2012
Trailer del film

Romania. Due ragazze si abbracciano alla stazione. Alina piange di commozione, Voichita le dice di calmarsi anche perché «la gente ci guarda». Da bambine sono cresciute insieme in orfanotrofio. Si sono amate. Alina è andata poi a lavorare in Germania, Voichita è entrata in un piccolo monastero ultraortodosso al quale non possono accedere atei, cattolici, protestanti, non cristiani. La vita delle suore che lo abitano si svolge nel lavoro, nell’obbedienza al prete, nell’ossessione per i possibili 464 peccati elencati in un quaderno, nella ripetizione continua dei luoghi comuni della fede cristiana, tra i quali: «Anche se avessi tutto il mondo intorno, senza Dio saresti sempre sola». Invece per Alina basterebbe avere accanto a sé Voichita, la quale però è cambiata e non risponde più con l’antico affetto all’amore della compagna. La gelosia afferra la ragazza, la rende disperata e furente, la fa stare male tanto da essere ricoverata in ospedale. Quando torna al monastero, il prete prima cerca di mandarla via, poi si convince che Alina è posseduta dal diavolo. Aiutato dalle suore, inizia a praticare esorcismi su di lei. Ciò che colpisce di più non è tanto la violenza esercitata «per il suo bene, per scacciare da lei il maligno» quanto la presunzione con la quale i credenti monoteisti parlano di Dio, di Allah, di Jahvé come se fosse il loro vicino di casa del quale conoscono benissimo volontà, linguaggio, convinzioni. Se questi credenti nella propria vanità fossero un po’ meno arroganti, il mondo andrebbe certamente meglio. Il cattolico Manzoni ha descritto costoro in modo come al solito mirabile: parlando di Donna Prassede scrive che «tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello» (I Promessi Sposi, cap. XXV).
Per quanto sia duro contro il fanatismo, il vero tema di Oltre le colline non è la fede monoteistica ma la passione tra due donne, la distanza che si crea nel tempo tra i sentimenti, la gelosia, il bisogno di sicurezze, l’obbedienza alle formule salvifiche. Un film aspro ma anche poetico, ben fotografato e interpretato. Un’opera però dalla tecnica minimalista, dove manca l’epica. Rimane quindi soltanto la miseria umana.

Desiderio e risentimento

Il risentimento.
Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo
(Pour un nouveau procés de l’étranger; Système du délire, Éditions Grasset 1976; Eating disorders and Mimetic Desire, 1996)
di René Girard
Trad. di Alberto Signorini
Introduzione di Stefano Tomelleri
Raffaello Cortina Editore, 1999
Pagine XI-188

Il risentimento, smascherato anche da Nietzsche, non sarebbe secondo Girard un sentimento opposto alla volontà di potenza ma consisterebbe nella stessa volontà che vuole raggiungere il proprio modello e non riuscendoci lo condanna. «Desiderio di essere secondo l’altro» (p. 2), secondo un modello ammirato, amato e odiato poiché «l’altro è anche il nostro maggior rivale, perché sarà sempre laddove vorremmo essere e non siamo» (3). L’io e l’altro, l’imitatore e l’imitato, convergono sul medesimo oggetto entrando quindi in una rivalità mimetica che per il primo è sempre esiziale. Dato che è proprio tale convergenza dei desideri a definire l’oggetto terzo, «la mimesi costituisce una fonte inesauribile di rivalità di cui non è mai veramente possibile fissare l’origine e la responsabilità» (96). Questo è il desiderio mimetico che Girard pone a fondamento del Moderno e delle tre sue manifestazioni analizzate in questo libro: l’apparente indifferenza dello Straniero verso la società; le macchine desideranti di Deleuze e Guattari; le pratiche anoressiche.

«Posseduto dall’assurdo come certuni […] sono posseduti dalla grazia» (29-30), Mersault -il protagonista del romanzo di Camus- incarnerebbe la malafede del suo creatore, il quale «ha finito prima di tutto per ingannare se stesso» (52) sulla possibilità che si dia un uomo allo stesso tempo colpevole e innocente. Colpevole agli occhi di chi non gli perdona non di aver assassinato uno sconosciuto ma di nutrire una sovrana indifferenza verso la collettività, innocente quindi dell’assassinio del quale lo si accusa. Lo stesso Camus ammetterebbe tale (auto)inganno nel successivo romanzo La caduta, che costituirebbe una vera e propria autocritica nella quale lo scrittore riconosce per bocca di Clamence che «i “buoni criminali” hanno ucciso non per le ragioni abituali, questo salta agli occhi, ma perché volevano essere giudicati e condannati. Clamence ci dice che in fin dei conti i loro moventi erano identici ai suoi: come molti dei nostri simili in questo mondo anonimo, volevano un po’ di notorietà» (50).
La stessa notorietà/competizione/rivalità che anima la bulimia nervosa e l’anoressia. Un vero e proprio imperativo di magrezza domina infatti l’immaginario collettivo della contemporaneità. Un ordine assai più implacabile di quello delle vecchie religioni e del defunto Dio. Pervenuti finalmente alla terra della nostra autonomia senza divieti e senza leggi, «le divinità che diamo a noi stessi sono autoprodotte nel senso che dipendono interamente dal nostro desiderio mimetico» (167) e i loro comandi sono assoluti perché anch’essi autoprodotti. Nessuno può dunque convincere l’anoressica della sua malattia; lei «è orgogliosa di adempiere a quello ch’è forse il solo e unico ideale ancora condiviso da tutta la nostra società: la magrezza» (160). Notevole ed esemplificativa dello stile dell’Autore è l’immagine che chiude l’analisi dei disturbi alimentari:

Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante. (188)

Il demone del desiderio, della volontà di potenza, del delirio intesse per Girard anche L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Un delirio teoretico e analitico che rimane impregnato di Freud e dal quale Edipo esce in realtà intatto, soprattutto perché distrugge il desiderio stesso che pure proclama di installare come autorità maiestatica, come fondamento molecolare delle strutture molari liberate. Il desiderio concreto e quotidiano, con il suo inevitabile attrito, sembra infatti in quest’opera dissolto a favore di una “schizoanalisi” che lascia intatta la Legge che pur si illude di avere oltrepassato:

I divieti sono sempre lì; bisogna convincersi che attorno a essi vigila un’armata potente di psicoanalisti e di curati, mentre dappertutto ci sono solo uomini smarriti. Dietro i rancori guasti contro le vecchie lune dei divieti si nasconde il vero ostacolo, quello che si è giurato di non confessare mai: il rivale mimetico, il doppio schizofrenico. (149-150)

Dove sbaglia Girard?
L’esatta critica al romanticismo, alla sua hybris che invece di liberare il soggetto lo ha catturato in un’infrangibile rete di elefantiasi dell’io -«il romantico non vuole veramente essere solo, vuole che lo si veda scegliere la solitudine» (59)-, assume Lo straniero come paradigma romantico, sbagliando però del tutto lettura. Il romanzo di Camus non è infatti espressione e specchio «del mondo del giovane delinquente» (74), della sua esistenza vuota, della sua crudeltà solipsistica. È questa un’interpretazione sociologica che si preclude per intero non soltanto e non tanto la ricchezza stilistica ed estetica del libro -senza la quale esso sarebbe impensabile- ma anche e soprattutto il nucleo generatore del romanzo, che è la Gnosi. Leggiamo Camus: «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (L’étranger, Gallimard, Paris 2011, p. 183); è tale volontà di eterno ritorno a meritare eventualmente la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (ivi, p. 171). Lo sanno tutti, e in primo luogo lo sanno gli gnostici, e tuttavia Mersault ama vivere. Il titolo della successiva presunta autocritica dello scrittore, La caduta, è anch’esso un titolo gnostico.
Nietzsche rappresenta per Girard un vero e proprio doppio mimetico, se vogliamo applicare allo stesso studioso il linguaggio da lui adottato. Il concetto di ressentiment è infatti nietzscheano ma per Girard la critica radicale di Nietzsche alla Legge ebraico-cristiana sarebbe anch’essa intrisa di risentimento. Questo desiderio di distanziarsi da Nietzsche fa sì che Girard confonda la volontà di potenza con il desiderio. È eventualmente quest’ultimo a costituire il «colosso dai piedi d’argilla» che crolla davanti alla fuga dell’alterità tanto bramata:

Ci sono certamente delle ritirate tattiche che il desiderio non fatica a scoprire e che lo riconfortano, ma c’è anche la sincera e assoluta indifferenza degli altri esseri: nemmeno invulnerabili, semplicemente affascinati da qualcos’altro. La volontà di potenza porrà sempre al centro del mondo tutto ciò che non riconosce in essa il centro del mondo, e le riserverà un culto segreto. Non mancherà mai, insomma, di volgersi in risentimento. (99)

Ma la volontà di potenza è altro. È un’ontologia e una epistemologia dell’altrove, che in quanto tale non può concepire alcun risentimento: «Io sono troppo pieno e così dimentico me stesso, tutte le cose sono dentro di me e non vi è null’altro che tutte le cose. Dove sono finito io?» (Così parlò Zarathustra, variante al § 4 della Prefazione, p. 423, dell’edizione Adelphi delle opere). L’io non vuole più imitare né dominare il mondo poiché è diventato una cosa sola con esso.
Né solipsistico, né anticonformista, né minimalistico, l’io/mondo di Nietzsche è libero dalle contraddizioni e dalle strette di un «pensiero della differenza pura, senza identità» (145). La totalità pagana di corpo/mente/mondo -totalità che rappresenta il vero bersaglio dell’opera, di tutta l’opera, di Girard- non è il modello delle sindromi contemporanee. Girard sostiene che «i nostri disturbi alimentari non hanno alcuna continuità con la nostra religione: nascono nel neopaganesimo del nostro tempo, nel culto del corpo, nella mistica dionisiaca di Nietzsche, che fra parentesi è stato il primo dei nostri grandi digiunatori. I nostri disturbi alimentari sono causati dalla distruzione della famiglia e delle altre reti protettive che fanno fronte alle forze della frammentazione mimetica e della competizione, scatenate dalla fine dei divieti» (168). Ma la corporeità pagana è forma ed espressione dell’ironica serenità che nasce dalla misura e dall’accettazione della finitudine. Porla all’origine delle manifestazioni contemporanee dell’industria culturale e dell’ordine imitativo delle star spettacolari -dalla principessa Sissi alle attrici hollywoodiane- è semplicemente errato. Il doppio nietzscheano, il risentimento «che l’imitatore prova nei confronti del suo modello allorché questi ostacola i suoi sforzi per impossessarsi dell’oggetto sul quale entrambi convergono» (X), fa cadere anche Girard nella sindrome che egli denuncia.

Havana

7 Days in Havana
(7 Días En la Habana)
di Laurent Cantet, Benicio Del Toro, Julio Medem, Josh Hutcherson, Daniel Brühl, Gaspar Noé, Ana de Armas, Elia Suleiman
Francia-Spagna, 2012
Trailer del film

L’oceano sempre vicino, la musica sempre intorno e dentro, Fidel che parla sempre, le ragazze sempre belle. A volte i luoghi comuni sono anche i più veri. Di questi spazi ed eventi narrano i sette registi -uno per ogni giorno della settimana- che hanno cercato di cogliere l’Havana poliedrica del malecon -il lungomare-, dei turisti, della politica, del sesso, dei culti religiosi sincretistici e ben radicati tra i suoi abitanti. È la complessità di Cuba che passa attraverso i silenzi e gli occhi di un palestinese che aspetta di essere ricevuto alla sua ambasciata (Elia Suleiman); passa attraverso il culto mediterraneo per la Madonna che appare a una sua devota ordinandole di costruire un altare-fontana in casa e celebrando una festa per lei (Laurent Cantet); passa soprattutto attraverso il bellissimo episodio dal titolo Ritual (Gaspar Noé), dove non viene pronunciata una sola parola; prima è un puro ballo orgiastico che afferra degli adolescenti e porta due ragazze ad amarsi e poi è lo scandalo dei parenti di una di loro, i quali chiedono a uno stregone di purificare la donna. Le luci notturne, i corpi tesi, i chiaroscuri, le ombre del desiderio e della sua negazione, le acque, le note ossessive di un ritmo ancestrale. Nei gesti d’amore e nella loro negazione si sente di nuovo, ancora, sempre, il ritmo senza posa dell’oceano che lambisce, seduce, bagna l’Havana.

Burckhardt, la storia

Sullo studio della storia
(Uber geschichtliche Studium [Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1868-1873])
di Jacob Burckhardt
Trad. di Mazzino Montinari
Boringhieri, 1958
Pagine 310

In queste sue lezioni pubblicate postume nel 1905 -anche con delle manipolazioni1– Burckhardt rifiuta le concezioni storicistiche che interpretano il divenire storico come lo sviluppo progressivo di un’idea, di un valore, di una qualsiasi Provvidenza. Cerca, piuttosto, di vedere la storia nella sua più concreta e non garantita empiria, a partire comunque da tre grandi concetti: stato, religione, cultura.
Lo stato e la religione sono per Burckhardt elementi statici, di controllo, alla fine sempre oppressivi. La cultura, invece, è la dimensione dinamica, libera, viva e costantemente nuova. Essa è «la quintessenza di tutto ciò che si è formato spontaneamente per promuovere la vita materiale e come espressione della vita spirituale e morale» (pp. 42-43). In quanto tale, essa costituisce la critica delle altre due strutture, «l’orologio che rivela l’ora in cui la forma e il contenuto in esse non coincidono più» (74).
Attraverso ampie pennellate ed efficaci excursus, Burckhardt enuncia una serie di tesi che saranno condivise e rielaborate da Nietzsche, il quale in uno dei biglietti del 4 gennaio 1889 definì il collega basileese «il nostro grande, più grande maestro»2. Tra queste tesi: il pluralismo metodologico; la Grecia come il luogo dove cultura e arte hanno avuto i migliori esiti, senza che però questo implichi la romantica e «fantastica predilezione per una antica e idealizzata Atene» (151); il cristianesimo come tipica religione dei passivi e dei dogmatici, che non è stata nemmeno capace di migliorare la condotta morale dei suoi adepti; il riconoscimento del conflitto come elemento dinamico della storia; la critica alle società massificate, i cui membri si adeguano sempre a chi meglio garantisce loro «tranquillità e guadagni» (239). Alle masse Burckhardt contrappone le «individualità possenti [che] si impongono e indicano le direzioni» (80-81).
Oscillando tra pragmatismo e metafisica, disincanto e progetto, Burckhardt si pone alla confluenza di numerosi itinerari della cultura e del pensiero moderno. Lo studioso riservato, il silenzioso maestro, insegna a Nietzsche «che in generale non si valuti la vita terrena più di quel che merita» (193). Era la stessa convinzione di Platone: «Certo è vero che le vicende umane non meritano poi una grande considerazione, ma è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato»3. Questo compito è la storia.

Note

1. Nel 1998 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione, presentandola con queste parole: «Le lezioni che Burckhardt tenne all’Università di Basilea tra il 1868 e il 1873, uno dei momenti salienti della moderna riflessione storiografica. Condotta sui manoscritti originali, la nuova edizione a cura di Maurizio Ghelardi restituisce gli appunti dello storico svizzero alla loro vera natura, facendo giustizia delle deformazioni nate dalle precedenti manipolazioni e riproducendo le frequenti osservazioni critiche che Burckhardt annotava in margine ai fogli».

2. F. Nietzsche,  Briefe. Januar 1887 – Januar 1889, in «Nietzsche Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe», herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vol. III/5, de Gruyter, Berlin-New York 1984, lettera 1245, p. 574. Nel recente quinto e ultimo volume della traduzione italiana dell’Epistolario (Adelphi, 2011) la lettera si trova a p. 889.

3. Platone, Leggi, 803 a, trad. di R. Radice.

Mente & cervello 84 – Dicembre 2011

Nel recensire questa Rivista dedico ogni volta uno spazio consistente a malattie, sindromi, sciagure di vario genere. È forse triste ma anche inevitabile, visto che il corpomente è “na scarfoglia i cipulla”, vale a dire (la definizione è della mia nonna paterna -Giuseppa-, donna davvero straordinaria) una foglia di cipolla, fragile e sottile, pronta dunque a sbriciolarsi. Mi sono ricordato di quella definizione leggendo la risposta che Leonardo Tondo dà a un lettore che delinea un vero e proprio «ritratto di una depressione»; lo psichiatra scrive infatti che «la depressione si infila spesso nei gangli vitali di una persona, e talvolta è difficile mandarla via perché sembra più congeniale alle nostre emozioni della felicità» (p. 7). Ciò vuol dire che c’è qualcosa che ci attira verso il baratro dello star male, che la prospettiva di esser felici ci spaventa a volte più di una condizione di profonda tristezza. Perché? Rispondere a tale domanda significherebbe comprendere una parte consistente dell’enigma umano. E sospetto che la risposta coinvolga anche quel particolare -e distruttivo- sentimento che è il senso di colpa, il quale secondo molti psicologi ha degli effetti positivi o addirittura necessari per evitare atti di ferocia e di crudeltà. E tuttavia penso che il senso di colpa debba rimanere sempre a livelli bassissimi poiché alla lunga distrugge le relazioni umane, la serenità, le vite. Una ragione di questa sua pericolosa caratteristica sta nel fatto che la colpa è -in modo solo apparentemente paradossale- «un’emozione narcisistica» in quanto «chi si sente in colpa tende a mettere le proprie azioni al centro del mondo» (P.E. Cicerone, 76), attribuendo sempre a se stesso la responsabilità di ogni male, credendosi insomma onnipotente. Ma non basta: provare sensi di colpa verso qualcuno ci autorizza a detestarlo con il conforto di una buona coscienza. In definitiva nutrire eccessivi sensi di colpa vuol dire essere essenzialmente egoisti. Ecco perché chi -come ad esempio Nietzsche- invita a sbarazzarsi di questa orrida zavorra lo fa anche come atto d’amore verso se stessi e verso gli altri. Se ne deduce che le religioni che sul senso di colpa fondano gran parte del loro potere -a partire dall’ebraismo, con la sua storiella di Adamo ed Eva- sono nemiche di ogni concordia.

L’articolo filosoficamente più interessante di questo numero di Mente & cervello è dedicato a un breve resoconto sulla questione del libero arbitrio [il testo si può leggere per intero in inglese sul sito di Nature]. Gli esperimenti neurologici di Libet e di Haynes hanno mostrato come ancora prima «che il soggetto fosse consapevole di aver preso una decisione il suo cervello aveva già scelto» e che dunque «la consapevolezza di aver preso una decisione potrebbe essere nient’altro che un’appendice biochimica, priva della pur minima influenza sulle azioni della persona» (K.Smith, 96). Il dibattito su queste ricerche è amplissimo e intenso; per farsene un’idea consiglio la lettura di Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il problema del libero arbitrio, a cura di De Caro, Lavazza e Sartori, Codice edizioni, 2010. Qui mi limito a rilevare -con l’autrice dell’articolo- che bisogna prima di tutto mettersi d’accordo su che cosa si intenda con l’espressione libero arbitrio: «Alcuni filosofi lo definiscono come la capacità di prendere decisioni razionali in assenza di coercizione. Altre definizioni lo situano in un contesto di natura cosmica: al momento della decisione, e considerando come dato tutto ciò che è accaduto in passato, sarebbe stato possibile giungere a una decisione diversa. Altri restano legati all’idea che ci sia un’ “anima” di natura non fisica a governare le decisioni» (99). Si aggiunga a questo il problema metodologico che nasce dal fatto che gli esperimenti di Libet, di Haynes e di altri neurologi si riferiscono a situazioni di estrema semplicità: «Premere un pulsante o giocare a un videogioco è ben lontano dal preparare una tazza di tè, candidarsi alla presidenza della Repubblica o commettere un delitto» (100). L’ostacolo più grave al dialogo tra filosofi e neuroscienziati è comunque un altro e consiste nel fatto che questi ultimi si attardano spesso -ed è certo singolare- su una concezione dualistica dell’umano. Parlare infatti di una precedenza dell’attività neuronale su quella mentale o viceversa significa rimanere in un ambito nel quale mente e cervello sono distinti; il paradigma cartesiano si mostra così assai più potente e pervasivo di quanto anche i suoi avversari pensino.
La successione cronologica individuata da Libet e Haynes costituisce un importantissimo contributo tecnico sulle dinamiche dell’encefalo ma non può essere assunta a metodo di soluzione  di una questione che va molto oltre la scansione cerebrale e che ha bisogno invece di tutta l’attenzione fenomenologica che soltanto la filosofia può offrire. Bisogna dunque con tranquillità affermare che sul problema del libero arbitrio continuano a dare una plausibile soluzione le argomentazioni di Spinoza e di Schopenhauer. Queste sì capaci di togliere fondamento all’illusione del libero arbitrio.

Cresime sociologiche

Alice Rohrwacher
Corpo celeste
Con:  Yle Vianello (Marta), Pasqualina Scuncia (Santa), Salvatore Cantalupo (Don Mario), Anita Caprioli (Rita), Renato Carpentieri (Don Lorenzo)
Italia, 2011
Trailer del film

La tredicenne Marta è tornata a Reggio Calabria dopo dieci anni vissuti in Svizzera. Perlopiù tace e guarda il mondo dall’alto di un piano non finito della casa dove abita, dall’alto dei ponti, dall’alto della profonda estraneità che sente nei confronti di un ambiente che lei non giudica ma che forse non comprende. Marta deve prepararsi alla cresima sotto la guida di Santa, una catechista devota, entusiasta e limitata, che per spingere i ragazzi a una maggiore convinzione li esorta a essere soldati di Cristo imitando Rambo. Sono uno spettacolo, infatti, questo catechismo e questa cresima, scanditi dai ritmi di una canzonetta che dice: «Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta / voglio scegliere Gesù / voglio scegliere Gesù». Marta fugge da quella cresima e va verso il mare, in un finale straniante, triste, sospeso.

Una sottile ferocia e un grande vuoto cadenzano questo film di formazione, nel quale la ragazzina si taglia da sola i bei capelli in un gesto di ribellione silenziosa, vive il suo menarca nello squallore dei bagni di un ristorante, sorride e piange con la medesima tenace dignità, accarezza un antico crocifisso come fosse un suo coetaneo. C’è in tutto questo un bisogno di religiosità quasi mistico che viene ottusamente e banalmente distrutto dai riti di un cattolicesimo tutto sociologico e televisivo, squallido e decadente.
Alice Rohrwacher racconta una storia delicata e crudele ispirandosi ai canoni formali del gruppo danese Dogma -macchina a mano in movimento intorno agli attori, addosso ai loro corpi; luoghi reali; nessun effetto speciale-, disvelando con pacato disprezzo e con partecipe ironia la menzogna dei sacramenti svenduti, di una fede fasulla. Ogni scena è intrisa di un simbolismo profondo, come se si trattasse di palinsesti da decifrare. Dietro la superficie di una modernità volgare traluce un antico bisogno di grazia, di un corpo celeste.

[Una recensione più ampia è stata pubblicata sul numero di giugno 2011 di Vita pensata]

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