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Arconti

Dio esiste e vive a Bruxelles
(Le Tout Nouveau Testament)
di Jaco Van Dormael
Lussemburgo, Francia, Belgio – 2015
Con: Pili Groyne (Ea), Benoît Poelvoorde (Dio), Yolande Moreau (la donna di Dio), Laura Verlinden (Aurélie), Serge Larivière (Marc), Catherine Deneuve (Martine), François Damiens (François), Marco Lorenzini (Victor)
Trailer del film

Che il Dio biblico (e poi coranico) sia un soggetto approssimativo, possessivo e violento è evidente. Si tratta di qualcuno che antiche tradizioni definiscono con il termine di arconte, vale a dire un signore potente ma incapace e affetto da megalomania. Sono tali arconti ad aver dato vita a questo mondo, i cui limiti sono anch’essi del tutto evidenti. E allora perché non immaginare -come fa Jaco Van Dormael- che questo arconte, assai annoiato, abbia prima creato Bruxelles, poi l’abbia popolata di animali che non lo soddisfacevano e infine abbia pensato a qualcuno che fosse a propria immagine, l’uomo appunto? Solo che tale creazione è stata per questo signore -che vive a Bruxelles in un appartamento senza porte e dotato di un archivio sconfinato- l’occasione per dare sfogo al proprio ilare sadismo, inventando leggi e situazioni che hanno il risultato di far soffrire vanamente le sue creature.
Ma Dio ha anche una moglie e due figli. Il primo ha del tutto frainteso le intenzioni del Padre e «si è fatto appendere a una gruccia come una civetta» (parola di Dio), l’altra è una bambina di 10 anni che, stufa delle prepotenze del padre, gli sabota il computer e rivela a tutti gli umani il giorno e l’ora esatti della loro morte. A tale notizia si scatenano ovviamente le reazioni più diverse. Ea, così si chiama la bambina, va nel mondo per raccogliere degli apostoli con i quali cercare di porre rimedio agli effetti dell’incauta rivelazione. Anche Dio padre esce finalmente dal suo appartamento, alla ricerca della figlia. I sei apostoli sono tra i più improbabili ma anche tra i più significativi. Alla fine sarà l’elemento femminile a vincere.
Tutto questo è surreale, certo. E spesso grottesco e sempre divertente. E tuttavia l’idea di far scrivere un Testamento tutto nuovo (questo il titolo originale) agli umani vessati da un Dio sadico invece che a questo stesso Dio, è molto seria e tocca alcuni profondi archetipi della mente individuale e collettiva. Lo stile scanzonato e insieme rigoroso di Van Dormael contribuisce a restituire la familiare stranezza del dio arcontico.

Tre questioni

Mente & cervello 132 – dicembre 2015

M&c_132Tre affermazioni contenute in questo numero di Mente & cervello ribadiscono la natura profondamente filosofica della riflessione sul corpomente.
La prima è che tale corpomente costituisca -ancora una volta- un dispositivo semantico volto a trovare e donare significato e senso al mondo. Persino lo stato iniziale delle allucinazioni costituisce un’espressione di tale necessità, essendo anche le allucinazioni una modalità di interpretazione di qualcosa che non si comprende: «Il nostro cervello tende infatti a interpretare il mondo attraverso conoscenze pregresse permettendoci di costruire in tempi rapidi una visione coerente dell’ambiente fisico e sociale col quale interagiamo. In particolare questo accade nella visione, un processo in cui il cervello ‘inventa’ quello che vediamo riempiendo i vuoti e ignorando ciò che non è idoneo all’immagine che ci aspettiamo» (G.A. Fornaro, p. 22).
La seconda affermazione corrobora la tesi kantiana della autonomia dell’ambito morale dalle religioni. Sembra infatti che «bambini i quali crescono in famiglie molto religiose tendono a essere meno altruisti dei loro coetanei», sulla base della ‘licenza morale’ che molte religioni danno a se stesse, «per cui se si fa qualcosa di ‘buono’, in questo caso si pratica una religione, ci si preoccupa meno delle conseguenze di un altro comportamento che non è morale». Ho conosciuto membri del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione, i quali sostengono apertamente che ‘il fatto religioso’ ha diritto di infrangere -se necessario- le norme morali in nome della superiorità intrinseca di quel fatto stesso. Se ne può concludere che «la secolarizzazione della società e della morale può servire ad aumentare e non a diminuire la bontà umana» (S. Romano, 20).
La terza questione riguarda la consapevolezza del morire, che non è soltanto umana -come troppo spesso si ripete- ma è presente anche in molti altri animali, tra i quali una delle specie più vicine alla nostra intelligenza, vale a dire i corvi: «Creature straordinarie […] questi animali hanno una comprensione della morte dei conspecifici e la usano per valutare i pericoli per se stessi»; il testo di Federica Sgorbissa (p. 23) mostra le forme di tale consapevolezza.
Il dossier di questo numero è dedicato all’umorismo, al sorriso, al riso, alla loro necessità per la salute mentale individuale e collettiva. Come afferma Zarathustra, «questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere!» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV, «Dell’uomo superiore», trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 359).

Sulla religiosità siciliana Una lettura a partire da Ernesto De Martino

Convegno Autori Meridionali

Venerdì 13.2.2015 alle 16,30 nell’Aula A1 del Monastero dei Benedettini (Catania) terrò una relazione -dal titolo Sulla religiosità dei Siciliani e dei loro scrittori a partire da Ernesto De Martino– nell’ambito del Convegno La Sicilia come metafora: due secoli di letteratura nazionale.

Dipende

Nymphomaniac vol. 2
di Lars von Trier
Danimarca, 2013
Con: Charlotte Gainsbourg (Joe), Stellan Skarsgård (Seligman), Stacy Martin (Joe da ragazza), Shia LaBeouf (Jerome), William Dafoe (L), Jamie Bell (K)
Trailer del film

Ascoltando Joe e i suoi racconti, Seligman afferma: «La religione è molto interessante, come il sesso». Che li si pratichi o meno, naturalmente. Non credere ad alcun dio e nutrire grande interesse verso il sacro, le religioni, la fede, le chiese. Oppure essere parte di una chiesa e dipendere da essa per le proprie interpretazioni del mondo e per le pratiche di vita.
Bere, bere e poi ancora bere. Immergere nella bottiglia il senso dei propri giorni. Dipendere dagli alcolici, aspirare al liquido eccitante, rinfrancante, anestetizzante.
Iniettata, aspirata, compressa e ingoiata. Dipendere dai mondi che gli stupefacenti creano e in essi illudersi di vivere sottraendosi alla fatica dei giorni, dentro le scogliere di marmo della bianca sostanza, della polvere.
Frenetici davanti alle slot machine, alle scommesse, al videopoker. Dipenderne fino a vendere l’ultima traccia della vita che fu.
Ore ore e ore davanti al monitor, compulsando la posta, facebook, twitter. Giornate intere davanti ai videogiochi buoni per tutte le età. E lì eccitarsi di connessioni e ubriacarsi di paroleimmagini, dipenderne.
Dalle prime ore del lunedì alla sera della domenica pensare alla propria squadra, non parlar d’altro, riempirsi la casa e la mente dei suoi colori. Tifare e far dipendere il proprio umore da sfere lanciate dentro una rete. Gol.
Soldi soldi soldi, idolo estremo, puramente simbolico e insieme brutalmente materico. Il signore di questo mondo dal quale si dipende come dall’aria che si respira.
«’O cumannà è meglio d’ ‘o fottere» poiché ti fa guadagnare tanti soldi, ti dà sicurezza e soprattutto ti fa sentire vivo mentre imponi un ordine ai morti, morti alla loro volontà sostituita dalla tua. Nel comando si dipende tutti, sia chi l’ordine impone sia chi lo riceve.
Cercare qualcuno o tanti a cui imporre la propria presenza, l’umana compagnia bramata per scaricare sull’altro la propria angoscia e riceverne conforto, amicizia, parola, speranza, vita, gratificazioni, lodi. Dipendere dai conspecifici umani come la formica dal formicaio.
«Amore mio grande senza di te non è vita». «Figlio mio caro non abbandonare la tua mamma». Dipendere dai sentimenti sino a piangere, disperarsi, crollare quando l’altro fa ciò che era già implicito nel cominciamento della vita e dell’amore: andarsene.

E tuttavia soltanto al sesso si attribuisce di solito la perversione. Come se tutto questo non lo fosse altrettanto. Joe continua a narrare l’abisso del proprio desiderio irraggiunto -Achille che non raggiungerà mai la tartaruga dell’orgasmo- nonostante le visioni, la violenza, il dolore, lo specchio e la pistola. Nonostante l’anatra silenziosa.
E quando la conclusione del racconto sembrerà virare verso una volontà di redimersi divenuta finalmente cosciente del baratro; quando un barlume di amicizia sembra infine scoccare nel buio dei giorni insensati e dello sfacelo; quando sulla rovina del vissuto si apre l’ancòra da vivere, allora beffardo ritorna il desiderio, la dipendenza di qualcuno dalla fica a lungo negata.
È il buio di fotogrammi ormai neri sul rumore di passi che vanno. Non c’è salvezza dalla catastrofe inaugurata dall’essere venuti al mondo, in esso gettati.
È probabilmente l’oscenità di tale pensiero ad aver indotto a censurare il film, tanto che il suo autore dichiara all’inizio di aver autorizzato questa versione senza però riconoscersi in essa. Dipendere dal cinema come dalla forma platonica. «La filosofia contemporanea non consiste nel concatenarsi dei concetti, bensì nel descrivere la fusione della coscienza con il mondo, il suo impegnarsi in un corpo, la sua coesistenza con gli altri, e tale argomento è cinematografico per eccellenza» (Merleau-Ponty). Questo è l’argomento di Nymphomaniac: la potenza e i limiti della libertà.

Spinoza

Il problema Spinoza
(The Spinoza Problem, 2012)
di Irvin D. Yalom
Trad. di Serena Prina
Neri Pozza Editore, 2013
Pagine 444

«Il mio professore affermava che Spinoza era l’uomo più intelligente che avesse mai posato il piede sulla terra» riferisce il dottor Pfister, uno dei personaggi del romanzo (pag. 236). Affermazioni come queste sono naturalmente sempre iperboliche ma nel caso di Bento Spinoza si avvicinano molto alla realtà. La figura, l’opera, le idee di questo filosofo hanno costituito sempre “un problema” per ogni individuo e ogni comunità arrancanti dietro un dogma nell’accidentato percorso del vivere. Spinoza, infatti, fu soprattutto un uomo che pose al centro della propria esistenza la libertà dalle verità rivelate e dalle passioni, «la libertà di pensare, di analizzare, di trascrivere i pensieri poderosi che gli echeggiavano nella mente» (108). Obiettivo e modalità di vita del tutto incompatibili con ogni chiesa e ogni religione. Che si tratti di ebraismo (la concezione di vita nella quale venne educato), di cristianesimo, di islamismo o d’altro, «le autorità religiose di tutti i generi cercano di impedire lo sviluppo delle nostre facoltà razionali» pensava Bento (165). Tali autorità cercano infatti di tenere gli umani sotto controllo tramite l’alternarsi di paure e di speranze, paura delle punizioni terrene ed eterne, speranza che il singolo possa sopravvivere per sempre, al di là della sua morte. Spinoza desiderava invece vivere libero da tali emozioni e per questo auspicava «la fine di tutte le tradizioni che interferiscono con il diritto di chiunque di pensare con la sua testa» (248) e si oppose quindi non soltanto ai dogmi dell’ebraismo ma anche al culto idolatrico che gli ebrei rivolgono verso la Scrittura. Il risultato fu il cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili, che Yalom riporta per intero alle pagine 200-201. Ne trascrivo qui una parte, con una diversa traduzione:

«In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […]  Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui».

«Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande corno; le luci che si vedevano ardere brillanti al principio della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche l’ultima, simboleggiando l’estinzione della vita spirituale dello scomunicato, e l’assemblea rimase completamente al buio»1.
Che cosa scatenò una simile violenza da parte della comunità sefardita di Amsterdam? È anche a tale domanda che cerca di rispondere questo «romanzo di idee», come lo definisce il suo autore (7), strutturato in una trama che alterna l’Olanda del Seicento con la Germania del XX secolo. Yalom prende infatti spunto dall’espressione che si legge nel rapporto steso da un ufficiale nazionalsocialista in occasione della confisca attuata nel 1942 -dai reparti speciali di Alfred Rosenberg- dei 151 volumi della Biblioteca di Spinoza a Rijnsburg, presso la casa-museo dedicata al filosofo. In tale rapporto (siglato nel processo di Norimberga come “documento 17b-PS”) si accenna alla necessità della confisca anche in relazione all’«esplorazione del problema Spinoza» (426 e 439). Da questo accenno Yalom fa partire una storia che ha come protagonista, insieme a Spinoza, l’ideologo del Partito Nazionalsocialista Alfred Rosenberg, il cui totale antisemitismo razziale si immagina essere stato turbato sin dagli studi liceali dal sapere quanto e come Spinoza fosse stato venerato da alcuni dei più grandi filosofi e artisti tedeschi, tra i quali Hegel, Schopenhauer, Nietzsche e soprattutto Goethe, il quale afferma che la lettura dell’Ethica contribuì in modo determinante a restituirgli serenità e fiducia nella razionalità umana. In una pagina di Poesia e verità Goethe riconosce in tutta la sua ampiezza l’influsso esercitato da Spinoza su di lui: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’Ethica di quest’uomo. Non saprei render conto di quello che ho tratto dalla lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio: basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni, e parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta sul mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni massima. Quelle parole singolari: “Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami” con tutte le premesse su cui si basano, con tutte le conseguenze che ne derivano, riempirono tutta la mia facoltà di riflessione»2.
Yalom suppone che Rosenberg fosse stato tormentato per tutta la vita dalla profonda ammirazione e gratitudine dell’‘ariano’ Goethe verso l’‘ebreo’ Spinoza e su questo inventa una storia plausibile, affascinante e originale nell’alternarsi di epoche, di uomini, di tragedie. Il valore filosofico del romanzo sta nel suo essere intessuto e percorso da moltissime citazioni tratte dai libri di Spinoza. Tra queste ricordo soltanto due brani: nella prefazione alla terza parte dell’Ethica Spinoza afferma che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset», vale a dire – come scrive Yalom – che intende «trattare le azioni, i pensieri e gli appetiti umani proprio come se fossero composti di linee, piani e corpi» (275); le parole con le quali si chiude l’Ethica sono queste: «Sed omnia præclara tam difficilia quam rara sunt» che qui diventano «Tutte le cose eccellenti sono difficili, poiché sono rare» (412). Ma il libro, e questo è un suo limite consistente, è anche impregnato di psicoanalisi, la quale può certamente illuminare molte delle ragioni profonde dei sentimenti e dei comportamenti umani ma che qui appare come l’unica capace di pervenire alle loro radici3.
Il pensiero e l’esistenza di Bento Spinoza non possono essere ricondotti a una psicologia del profondo bensì a una metafisica razionalistica che però è ben consapevole della natura umana, per la quale -come sintetizza correttamente Yalom- «solo un’emozione più forte può avere la meglio su un’altra emozione. Il mio compito è chiaro: devo imparare a trasformare la ragione in una passione» (285); la prop. 14 della IV parte dell’Ethica afferma infatti che «vera boni et mali cognitio quatenus vera nullum affectum coercere potest sed tantum quatenus ut affectus consideratur (la vera conoscenza del bene e del male non può impedire nessuna passione in quanto vera, ma soltanto in quanto è considerata come passione essa stessa)». Spinoza riconosce che le passioni costituiscono la potenza più grande e quindi l’uomo saggio trasforma la conoscenza nella passione suprema, l’unica in grado di sottomettere tutte le altre. Parte fondamentale di tale metafisica è la concezione della mente umana come identica alla corporeità -modi diversi della stessa sostanza-, mente la cui potenza consiste anche nel determinare «quello che è spaventoso, privo di valore, desiderabile, inestimabile, e quindi è la mente, e solo la mente, che deve essere modificata» (32).
E Rosenberg? E i nazionalsocialisti? Di fronte a uomini come Spinoza, Goethe, Nietzsche, il manipolo di sedicenti Übermenschen che si raccolsero intorno a Hitler non possono che apparire -non soltanto in questo romanzo ma in ogni ricostruzione storica e biografica- come dei soggetti del tutto ignoranti e ottusi nel loro ripetere all’infinito e in modo ossessivo il mantra della razza; gente capace di semplificare in modo rozzo ogni più complessa questione. Tra costoro Rosenberg fu l’ideologo del regime, le cui astrusità nessuno però prendeva sul serio, neppure il suo Führer, al quale rimase tuttavia fedele sino alla fine, sino a Norimberga e all’impiccagione: «A differenza degli altri imputati, Rosenberg non ritrattò mai. Alla fine rimase l’unico a crederci ancora veramente» (432-433). Esempio chiaro di come ben poco si possa fare quando un coacervo di passioni domina gli umani. Quel coacervo che l’intera filosofia di Spinoza cerca di sciogliere, illuminare, capovolgere in saggezza. È anche per questo, per il modo in cui lo ha fatto, che Spinoza è davvero uno degli uomini più intelligenti e più liberi che siano mai esistiti.

Note

1 Emilia Giancotti Boscherini, Baruch Spinoza 1632-1677, Dichiarazione rabbinica autentica datata 27 luglio 1656 e firmata da Rabbi Saul Levi Morteira ed altri, Roma, Editori Riuniti 1985, pp. 13 e sgg.

2 In F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza 1984, p. 194; testo citato in parte da Yalom a p. 58. Nietzsche così ricorda la venerazione di Goethe per Spinoza: «Spinoza, di cui Goethe diceva: “mi sento molto vicino a lui, benché il suo spirito sia molto più profondo e puro del mio”,- chiamandolo talvolta il suo santo» (Frammenti postumi 1887-1888, in «Opere», vol. III/2, 9 [176], p. 91).

3 L’Autore è psichiatra alla Stanford University e già in E Nietzsche pianse (Rizzoli 1993) ricostruiva il pensiero nietzscheano a partire da un incontro immaginario tra Nietzsche e Josef Breuer, di fatto uno dei fondatori/ispiratori della psicoanalisi.

 

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

Religione, invidia, figli

Mente & cervello 99 – marzo 2013

Nell’esagono che compone le scienze cognitive -psicologia, neurologia, linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale-, l’antropologia sta emergendo sempre più. Essa, infatti, rende possibile l’individuazione delle radici più profonde di molti fenomeni della vita individuale e collettiva e mostra la loro dimensione olistica, lontana da ogni interpretazione troppo riduttiva di realtà assai complesse nel loro statuto e nelle loro conseguenze.
Di tali realtà fa parte l’esperienza religiosa. Le ricerche sperimentali sembrano dimostrare che «più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta» (S. Upson, p. 25). Le ragioni di questo fenomeno vanno naturalmente al di là delle specifiche credenze dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo o di altre fedi e hanno a che fare anche con i contesti nei quali l’esperienza religiosa viene vissuta: «I credenti saranno forse più felici dei senza Dio, ma solo se la società in cui vivono dà molto valore alla religione, e questo non succede sempre» (Id., 26). Altri studiosi offrono risposte di tipo evoluzionistico. Le credenze religiose, infatti, rispondono assai bene al bisogno che i mortali hanno di trovare un significato forte e totalizzante alle proprie esistenze: «I bambini vengono al mondo con una propensione fortissima ad attribuire significato ai fenomeni dell’ambiente in cui vivono, rintracciando continuamente pattern e relazioni causali negli eventi del mondo» (V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, 34). Tali relazioni causali sono all’origine dell’individuazione di agenti consapevoli ai quali ascrivere l’origine di ciò che accade: è assai più pericoloso attribuire al vento l’agitarsi di un ramo, se invece è un predatore a esserne la causa, che vedere un predatore là dove agisce soltanto il vento. «Questa ipersensibilità del meccanismo per la rilevazione degli agenti deve essere stato un motore cruciale nell’evoluzione delle credenze nel sovrannaturale» (Id., 36). Ovviamente lontano dalla forma mentis evoluzionistica, già Spinoza aveva comunque attribuito a fattori naturali la credenza nel teleologismo, nella presenza di divinità che agiscono al fine di favorire o danneggiare gli umani.
Favoriti o danneggiati siamo dagli altri mortali, i quali a volte -spesso- ci tradiscono e che noi tradiamo. Il tradimento può essere rivolto non soltanto a una persona ma anche a un’idea, un’organizzazione, una fede. Tra le tante possibili cause, una delle più tristi è l’invidia, sentimento che personalmente giudico ripugnante e con il quale il soggetto che lo nutre attesta da sé la propria inferiorità nei confronti dell’invidiato. Intervistato da Paola Emilia Cicerone, Mario Perini sostiene che «le persone, le qualità, le idee oggetto di ammirazione possono trasformarsi in oggetti odiati nel momento in cui la loro superiorità suscita nel soggetto un intollerabile sentimento di inferiorità. Il tradimento può essere un modo per allontanarsi dalla fonte del dolore, e insieme attaccarla e distruggerla» (47).
Quanto meglio sarebbe, invece, valorizzare ciò che ci accade e ciò che siamo, senza confrontarlo con ciò che accade agli altri e con ciò che gli altri sono. Positività e gratitudine, infatti, «migliorano la salute e il benessere psicofisico» non soltanto nostro: «Cercare di essere felici può apparire uno sforzo egoista, ma in effetti è un obiettivo utile da perseguire non solo per se stessi, ma per la nostra comunità» (E. Seppala, 102 e 103).
Motivo di invidia e di tristezza potrebbe essere il non avere figli ma in un loro libro –Senza figli. Una condizione umana, recensito da P.E. Cicerone- Duccio Demetrio e Francesca Rigotti difendono la condizione di «chi sceglie di essere genitore e figlio di se stesso e il senso della vita lo cerca altrove, magari proprio nel “partorire con la mente”. […] E forse, concludono gli autori,  la discriminante vera “non è tra chi di figli ne ha avuti e chi no, ma tra chi non si interroga sul senso amaro, dolente del vivere e chi invece dedica a tale scopo la sua inesausta, sempre incompiuta ricerca”» (104).

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