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La vita quotidiana

Boyhood
di Richard Linklater
USA, 2014
Con Ellar Coltrane (Mason), Patricia Arquette (la madre), Ethan Hawke (il padre), Lorelei Linklater (Samantha), Steven Chester Prince (Ted)
Trailer del film

boyhoodMason e sua sorella sono due ragazzini texani guidati da una madre determinata e sola, che si è separata dal padre, simpatico ma inaffidabile. I nuovi matrimoni della mamma si rivelano fallimentari mentre a poco a poco il padre si adatta a una tipica normalità yankee. Samantha e Mason crescono in fretta e si ritrovano diplomati, pronti all’esperienza del college. Tutto questo tra la fine del Novecento e gli anni Zero del XXI secolo.
E allora? Allora la peculiarità dell’opera di Richard Linklater sta nel fatto che gli attori/personaggi crescono (se ragazzini) e invecchiano (se adulti) davvero. Le prime riprese sono infatti girate quando Mason ha 6-7 anni e si concludono con l’attore ormai diciannovenne.
Cinema-documento, cinema-verità? No, naturalmente. Cinema come narrazione in qualche modo fedele alle unità della tradizione aristotelica (tempo, luogo, azione) ma che vengono però estese e distese lungo l’arco di un decennio e più. Con Mason e con la sua scombussolata famiglia mutano e rimangono sempre uguali gli Stati Uniti d’America, della cui vita quotidiana il film offre una descrizione efficace perché intrisa della ritualità, della superficialità, del patriottismo, del vuoto di quelle esistenze.
Il film è stato molto lodato -forse anche troppo- per la sua temeraria concezione e realizzazione. Un suo merito sta certamente nella naturalezza con la quale scorre il narrato, senza salti e senza bisogno di momenti troppo forti. In ogni caso, nello sguardo dolce, fiero e malinconico di questo attore bambino che diventa adulto si riflette anche il nichilismo di un’intera nazione.

Teatro / Mente

Synecdoche, New York
di Charlie Kaufman
USA, 2008 (distribuito in Italia nel 2014)
Con Philip Seymour Hoffman (Caden Cotard), Samantha Morton (Hazel), Catherine Keener (Adele Lack), Michelle Williams (Claire Keen), Tom Noonan (Sammy Barnathan), Emily Watson (Tammy), Hope Davis (Madeleine Gravis), Dianne Wiest (Ellen Bascomb/Millicent Weems)
Trailer del film

SynecdocheLa sineddoche -insieme alla metonimia- è una delle figure retoriche più importanti, che utilizziamo di continuo nel nostro parlare. Consiste infatti nella sostituzione di un termine con un altro che abbia in comune con il primo elementi quali il genere, la quantità, l’estensione, come quando ad esempio si dice ‘molte braccia’ per indicare ‘molti lavoratori’, ‘due ruote’ per indicare una motocicletta oppure ‘l’italiano è estroverso’ per dire che a esserlo sono gli italiani. La parte per il tutto. Un singolo essere umano per l’intera specie.
Ciascuno, in realtà, pensa a se stesso come all’esempio e all’incarnazione universale dell’umanità. Così, quando il regista Caden Cotard comincia a percepire nel proprio corpomente i sintomi della decadenza, della malattia, della depressione e della morte, è l’intero mondo che muta. Un premio ricevuto per la sua attività artistica gli consente di progettare, provare, realizzare l’opera totale: una messa in scena della propria vita mentre essa accade. Centinaia di attori, spazi enormi, scenografie che si moltiplicano perché dovrebbero rappresentare un intero mondo. Le identità/differenze tra gli attori, i personaggi, gli attori che interpretano gli attori del suo spettacolo mentre lo recitano, si confondono sino ad annullarsi. Nel senso che lo spettatore del film non riesce più a comprendere davvero chi sia chi, se si stia recitando il film o se si stia recitando dentro il film. I piani spaziali e temporali si confondono anch’essi, si dilatano, toccano il trascorrere di anni in pochi minuti e poche scene, mentre una sola giornata si allunga.
Sino a un certo momento tutto questo è tenuto sotto controllo. Poi, da quando la moglie di Cotard si trasferisce a Berlino con la propria amante e la bambina -gettando nella disperazione il marito-, l’intreccio di esistenza, teatro, eventi, incontri, repliche degli incontri, attori, sosia degli attori, diventa uno straordinario e lucido delirio identitario e spaziotemporale, la cui spiegazione è però incisa in due nomi: Capgras e Cotard.

Il nome di Capgras compare sul citofono dell’appartamento affittato dalla moglie del regista. Mentre gli altri nomi sono quasi illeggibili, questo viene messo in evidenza con dell’adesivo. Un cognome non certo casuale. I soggetti colpiti dalla sindrome di Capgras sono infatti convinti che familiari e amici siano in realtà dei sosia, degli attori che hanno preso il posto dei loro cari allo scopo di ingannare, far del male, distruggere la persona.
Il regista si chiama Caden Cotard. La sindrome di Cotard è ancora più grave, forse la più grave patologia psichiatrica che sia concepibile. Nella sua forma estrema il soggetto è convinto di essere morto. Nessuna persona, nessun ragionamento, nessuna prova possono smuoverlo da tale convinzione. La spiegazione più plausibile di questa tragedia della psiche sta nel fatto che a causa di lesioni organiche o di processi degenerativi i centri sensoriali non interagiscono più con le aree emotive dell’encefalo. Il cervello però cerca disperatamente di dare un significato al deserto emozionale che ne consegue. La spiegazione più logica è che chi non prova nessuna emozione deve in realtà essere già morto.
In una delle battute il regista afferma esplicitamente che «non è uno spettacolo solo sulla morte». Certo. Perché è a partire dal nostro essere finiti che la vita si declina secondo tutte  le sue strutture. Il morire non è una parte dell’esistere ma costituisce il suo tutto, la sua sineddoche.
«Non è che l’esserci riempia con le fasi delle sue realtà effettuali istantanee una pista o un segmento sottomano “della vita”, ma estende se stesso, sì che il suo esser proprio è fin dapprincipio costituito come estensione. Nell’essere dell’esserci sta già il “tra” riferito a nascita e morte. […] L’esserci fattizio esiste per nascita, e per nascita muore anche proprio nel senso dell’essere-alla-morte. Entrambi i “capi” e il loro “trasono, finché l’esserci fattiziamente esiste, ed essi sono in quel modo che unicamente è possibile sulla base dell’essere dell’esserci come cura. Nascita e morte si “con-nettono”, nel modo che è proprio dell’esserci, nell’unità di dejezione e sfuggente o precorrente essere-alla-morte. In quanto cura, l’esserci è il “tra”» (Martin Heidegger, Essere e tempo, trad. di A. Marini, Mondadori 2006, § 72, p. 1051).
Capolavori. Sia il libro di Heidegger sia il film di Kaufman.

Terra / Occhio

GENESI  di Sebastião Salgado
Milano – Palazzo della Ragione 
A cura di Lélia Wanick Salgado
Sino al 2 novembre 2014

Pinguini, albatri, cormorani, caribù, renne, caimani, a centinaia di migliaia nei loro habitat naturali. Immagini potenti nelle quali il gesto immediato di vita e di morte diventa eterno e l’istante si fa fermo.
Membri della specie Homo sapiens sparsi per tutti i continenti e capaci di vivere nelle condizioni più estreme. Una ricerca antropologica partecipe e attenta, in particolare, ai modi di vivere e di essere dei Boscimani (Botswana) e degli Zo’é (Amazzonia).
Gli sciamani, i loro riti, la vita quotidiana. Perché questi umani sono animisti, sono pagani. Come pagana è la Terra, perché lei è il Sacro. I protagonisti sono gli alberi; essi infatti danno respiro -letteralmente- alla sottile zoosfera che abita la superficie terrestre, le acque, qualche chilometro d’aria. Salgado e la moglie hanno riforestato una proprietà in Brasile. E subito la vita del mondo -in quel luogo scomparsa- è rinata.
Dune nel deserto immenso della Namibia. Qui le immagini diventano le più astratte. Ma astratte lo sono tutte, non realistiche. Perché la Terra è fotografata in un rigoroso e senza eccezioni bianco e nero, che mostra come la bellezza pura stia nella forma dell’immagine, non nello splendore dei luoghi. Così accade per il Bighorn Creek in Canada, un’immagine che abita al di là di qualunque realtà.

Trascolora la realtà

Mood Indigo. La schiuma dei giorni
(L’écume des jours)
di Michel Gondry 
Francia-Belgio, 2013
Con: Romain Duris (Colin), Audrey Tatou (Chloë), Gad Elmaleh (Chick), Omar Sy (Nicolas)
Trailer del film

L'écume des joursL’indescrivibile fantasia patafisica del romanzo di Boris Vian L’Écume des Jours (1947) diventa nel cinema visionario di Michel Gondry un mondo di colori sgargianti, di oggetti viventi, di cibi danzanti, di animali sorridenti, di fiori abbacinanti. L’amore infantile, musicale e liquido tra Colin e Chloë sembra disegnare una delle mille favole che vorrebbero fare della vita un paradiso. Ma proprio durante il viaggio di nozze si insinua nei polmoni della donna una mortale ninfea, che può essere curata soltanto circondando Chloë di freschissimi fiori. Colin, generoso sino alla prodigalità, spende tutto per lei e per gli amici. In particolare per Chick, che però butta tutto il danaro nei libri, nelle conferenze, nei video del filosofo Jean-Sol Partre, sino a farsi letteralmente dei suoi volumi e della sua voce, come accade con qualunque altro stupefacente. I soldi cominciano dunque a mancare, il sorriso a spegnersi, gli oggetti a morire, i cibi a puzzare, gli animali a soffrire, i petali a sfiorire. Sino alla terra nera e alle acque grigie che tutto accolgono nel proprio gelido ventre.
Un melodramma che la scrittura cinematografica di Gondry trasforma nel progressivo scolorire e rimpicciolire della realtà, sino a che nulla rimane di un mondo che vive sempre nella percezione e nella Stimmung degli umani. La tecnologia degli anni Quaranta non viene attualizzata ma resa quanto più simile alla nostra, creando un effetto di distorsione disturbante. La musica di Duke Ellington è danzata da corpi che si estendono al passaggio delle note; il tempo-acquario che ospita i due amanti ricorda lo struggente elemento de L’Atalante di Jean Vigo; la ferocia dei rapporti socio-economici percorre come un basso continuo tutto il film e giunge al suo culmine nel licenziamento di Chick, causato non dall’aver la sua distrazione prodotto la morte di alcuni operai -maciullati dalla macchina- ma da una diminuzione della produzione dello 0,2%. Alla fine, pur di guadagnare abbastanza per comprare i fiori, Colin accetta di lavorare in una fabbrica dove gli umani trasmettono calore alle armi, rendendole così infallibili.
Pura fantasia, puro cinema, puro dolore. Realtà.

 

La mente pittorica

Pollock e gli irascibili
La Scuola di New York

Palazzo Reale – Milano
A cura di Carter E. Foster e Luca Beatrice
Sino al 16 febbraio 2014

Che cos’è un dipinto? Che cosa un brano musicale? O una poesia? Impasti di materia su un qualche supporto, tela o altro. Movimenti di tasti battuti, corde pizzicate, tubi nei quali viene spinta dell’aria. Inchiostro o pixel distribuiti nello spazio. E basta? Robert Motherwell, uno dei pittori in mostra, afferma che «la pittura è la mente che realizza se stessa nel colore e nello spazio». Sì, è questo. E non soltanto la pittura ma tutte le arti. Della musica si potrebbe infatti dire che essa “è la mente che realizza se stessa nei suoni e nel tempo”. E quindi la grandezza della pittura cosiddetta astratta sta nel liberarsi da ogni ingenua illusione realistica, da ogni enfatica descrizione del mondo, da ogni pretesa fotografica, per invece cogliere e cercare di esprimere il modo in cui la realtà si struttura come costruzione della mente.
Le tecniche utilizzate da Jackson Pollock e dagli altri artisti che negli anni Cinquanta del Novecento intuirono che l’arte è altro rispetto a ogni figurazione, queste loro maniere di dipingere sono non il senso della loro opera ma dei semplici strumenti inventati allo scopo di trasmettere la vibrazione semantica che la pittura e le altre arti sono. È anche per questa loro natura così interiore e mentalistica che le riproduzioni di tali opere -per quanto di qualità- non possono restituirne il senso. L’occasione quindi di accostarsi fisicamente a esse non va perduta. Soltanto avendolo di fronte si comprende quanto Number 27 di Pollock sia un dipinto pensato e costruito sulla base della profondità e della prospettiva che avvolgono chi gli sta davanti in una vera avventura dello sguardo. Analogo lavoro la mente compie rispetto a Universal Field di Mark Tobey: una fitta scrittura iconica fatta di geroglifici dalla quale sembra deflagrare la pura energia della materia.
Esplosione che continua in Addition II di Louis Morris, le cui forme e intensissimi colori somigliano a quelli della sezione conclusiva di 2001. Odissea nello spazio, in particolare la colonna verde che scende dall’alto. Energia che sembra placarsi nella quasi monocromatica Promessa di Barnett Newman -un magnifico nero sul quale si stagliano due righe che sembrano somigliarsi ma che sono assai diverse tra di loro- e nei segni neri/bianchi di Franz Kline. Simili a tali segni è il Landscape Abstract di De Kooning, la cui dinamica è tuttavia assai più aerea, come se fosse il lieve inizio di ciò che in Kline diventa l’arduo spessore del colore.
Splendide nella loro semplice complessità mi sono sembrate le due opere di Sam Francis in mostra: Abstraction e Senza titolo (1956). Il bianco occupa quasi per intero la tela. Soltanto ai lati o in alto colano dei colori forti e infantili, come l’eco della pienezza che può sempre riempire le nostre vite. «Vi sono tante aurore che ancora devono splendere» (Rigveda).

 

Streghe interiori

In Trance
(Trance)
di Danny Boyle
Con: James McAvoy (Simon), Rosario Dawson (Elizabeth), Vincent Cassel (Franck)
Gran Bretagna, 2012
Trailer del film

Le aste dei dipinti più preziosi sono blindate come e più delle banche. Ma dei ladri ben decisi riescono ugualmente a farcela, tanto più se vengono aiutati da qualcuno che lavora all’interno, come il banditore Simon. Oggetto del furto è un capolavoro inestimabile (venticinque milioni di sterline): le Streghe nell’aria di Francisco Goya. Il problema è che il dipinto sparisce. Dopo aver sottoposto Simon a tortura, i suoi complici devono ammettere che egli non ricorda effettivamente dove abbia nascosto la tela. Decidono quindi di ricorrere a una psicologa, specialista in ipnosi. La cura raggiunge il suo obiettivo ma ha effetti devastanti su tutti i personaggi. Ciò che lentamente affiora dalla mente di Simon è molto più di quanto si potesse immaginare. Al centro della ragnatela mnemonica sembra stagliarsi proprio Elizabeth, che si rivela snodo centrale della vicenda.
Sontuoso nei colori, intricatissimo nel plot, abbastanza corretto -anche se inevitabilmente grossolano- nella descrizione degli stati mentali, Trance è un film come tanti ma piacevole soprattutto per chi si aspetta dei colpi di scena a ripetizione. Il merito maggiore, da un altro punto di vista, è l’intuizione della radicale complessità del corpomente e delle sue memorie profonde. La presenza -discreta ma centrale- di Goya aiuta. È con questo artista che l’illusione della realtà si sfalda e trasmuta nell’universo interiore in cui ogni umano deve fare i conti con i propri fantasmi. A rischio della follia ma ottenendo come premio la pace della conoscenza. Non è un caso che il quadro intorno al quale tutto ruota abbia come titolo Streghe nell’aria.

 

Dato / Significato

Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
Palazzo Reale – Milano
A cura di Denis Curti
Sino all‘8 settembre 2013

180 fotografie scelte dall’autore tra un milione e mezzo di scatti. Immagini catalogate e divise in Gente di Milano, Morire di classe -sui manicomi che rinchiudevano i soggetti sociali più deboli-, Dentro le case, Venezia -amatissima dal fotografo-, Comunità romanì in Italia -la vita degli zingari nei loro campi-, I baciLavoro, Fede Religiosità Riti. Gli anni Settanta nella città lombarda sembrano sfilare davanti ai nostri occhi con tutta la loro ingenua radicalità; tra i ritratti sono assai espressivi quelli di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, colleghi di Berengo Gardin; dappertutto, nei baci nelle automobili nei canti, si sente una profonda pietà per gli umani, per l’effimero triste che siamo.
In una conversazione con Giusy Randazzo (Gente di fotografia, numero 56, pp. 94-99) Berengo Gardin afferma che non si sente un artista ma un fotografo. Non per modestia ma, al contrario, perché convinto della specificità e forse della superiorità della fotografia sulle altre arti figurative. Tra i pittori, Berengo afferma di preferire gli astrattisti e in particolare Mondrian. In un’immagine della sezione della mostra dedicata al lavoro –Osaka del 1993- mi è parso di ritrovare la purezza formale di quell’artista. Di fronte alla convinzione di Berengo Gardin che «la macchina fotografica serve per fare foto di documentazione», per dare conto della “realtà”, gli si potrebbe obiettare che quando dei fotografi o non fotografi «guardano qualcosa non stanno riproducendo la realtà ma qualcosa che è sempre filtrato dalla loro mente» e che la cosiddetta realtà è a colori mentre la sua opera è rigorosamente in bianco e nero, affinché chi osserva non venga distratto da altro che non sia il contenuto dell’immagine. La verità è che il mondo è nell’occhio di chi guarda. La sensibilità di Berengo Gardin verso l’accadere è talmente alta che dal suo osservare il flusso -e fermarlo in un istante- non emerge alcuna “documentazione” ma splende, semmai, il significato delle relazioni umane. Non il dato ma proprio il significato.

 

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