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Anassimandro / Gravità quantistica

Il_manifesto_3.9.2014

 

 

Nel campo unificato del tempo e dello spazio
il manifesto
3 settembre 2014
pag. 11

Alla ricerca della struttura elementare delle cose. Una spiegazione che ruota attorno a un sistema primordiale in continuo divenire.

[Segnalo un refuso: la frase “una costante e passabile incostanza” va intesa come “una costante e inoltrepassabile incostanza”]

Riscoprire Husserl

Husserl
di Vincenzo Costa
Carocci, 2009
Pagine 232

 

Costa_HusserlLa fenomenologia fu dal suo fondatore sempre concepita e praticata come un metodo, anzi «come il metodo stesso della filosofia», in grado di «abbracciare la totalità dei problemi filosofici» (p. 24).
Il rifiuto del naturalismo non è soltanto metodologico ma è anche metafisico e consiste nella critica a ogni forma di ingenuo realismo che ritiene di poter cogliere un mondo indipendente dal fenomeno, vale a dire da come la soggettività trascendentale (non quella empirica) costruisce la realtà stessa mentre la percepisce, la valuta, la vive. Il contenuto di qualsiasi percezione può costituire un errore ma il fatto che io veda ciò che vedo non può essere mai un inganno, proprio in quanto è ciò che la mia coscienza sta in questo momento vivendo. Come anche Meinong sostiene, gli enti possono consistere (Bestehen) anche quando il loro correlato fisico ed empirico non esiste: «L’albero che vedo forse non esiste, ma non vi è dubbio che io vedo un albero» (27). Se «posso essere colpito da oggetti che non esistono» questo significa che a costituire il mondo della coscienza, e dunque il mondo, non sono le cause empiriche bensì le motivazioni intenzionali poiché -scrive Husserl- «la relazione reale viene meno quando la cosa non esiste, la relazione intenzionale invece sussiste» (134). La riduzione fenomenologica è quindi il darsi del mondo senza presupporne l’esistenza al di là del suo apparire, della sua radicale fenomenizzazione. Possiamo essere certi dell’immanenza degli enti, del modo in cui ci appaiono, non della loro trascendenza, del mondo in cui sarebbero al di là del loro apparire. È esattamente questo il luogo della certezza filosofica. Esso si chiama intenzionalità ed è fatto della materia sensibile che appare (hyle), del modo in cui appare -come percezione, immaginazione, credenza, calcolo o altro- (noesi), del contenuto di tale apparire in quanto apparire, dell’ente/evento come viene percepito, immaginato, creduto, calcolato (noema).
Materia, noesi e noema sono sempre semantici e temporali; sono «il senso che lega in unità una molteplicità di sensazioni» (46); sono « la forma che essi delineano» (90); sono l’insieme degli enti, degli eventi e dei processi per noi colmi di significato. E tutto questo è possibile perché questo senso e tale forma costituiscono se stesse come strutture temporali, essendo la temporalità «una forma di ordinamento senza della quale niente potrebbe apparire» (51). Non, però, come struttura esterna ed estranea agli enti, agli eventi e ai processi ma come il modo stesso della loro manifestazione, che in fenomenologia equivale al modo stesso del loro costituirsi ed essere.
È anche a motivo di questo nostro percepire il tempo che intesse le cose e le loro relazioni che «noi vediamo costantemente più di quanto ci è dato sensibilmente» (82), poiché ciò che Aristotele e Kant hanno chiamato ‘categorie’ non viene soltanto pensato ma ci è dato intuitivamente attraverso la capacità che il nostro corpomente possiede di collocare ogni singolo ente e ogni evento in un tessuto semantico e temporale che non sta evidentemente nella materia ma abita nel modo in cui essa si costituisce nella coscienza, sta -appunto- nel fenomeno.
Un radicale teleologismo della ragione sta al cuore della rigorosa presentazione che Vincenzo Costa ci offre del filosofo. Dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee e alla mole sterminata di manoscritti, la fede -non c’è altro modo di definirla- di Husserl consiste nella convinzione che «storia non significa semplicemente cambiamento, ma sviluppo guidato da un’idea infinita, orientato verso un telos» (178) che affonda nel Wille zum Leben inteso non come volontà senza senso e senza scopo ma in quanto «nucleo di assoluta razionalità in via di dispiegamento, in corso di manifestazione» (203). Non dunque l’accoglimento dell’umano come finitudine consapevole di se stessa ma come vita di un io trascendentale che -scrive Husserl- «è la vita di un essere finito diretto verso l’infinità» (cit. a p. 206).
Qui la differenza con Heidegger è chiara e fu anche esistenzialmente drammatica nel passaggio dalla formula «la fenomenologia siamo io e Heidegger» (anno 1916) al netto distacco testimoniato da una lettera a Ingarden del dicembre 1929: «Sono giunto alla conclusione che non posso inquadrare l’opera [Sein und Zeit] nell’ambito della mia fenomenologia, e purtroppo, anche dal punto di vista del metodo e addirittura nell’essenziale, dal punto di vista del contenuto (sachlich), la devo rifiutare» (pp. 211 e 213).
E tuttavia -e pur nella differenza- Husserl e Heidegger condivisero sempre e sino in fondo lo sguardo fenomenologico verso enti eventi e processi, pur diversamente declinato. Il logicismo si declina -nei manoscritti che via via vengono pubblicati- anche come metafisica fenomenologica che ha nella soggettività trascendentale e nel richiamo all’esperienza i propri fondamenti, qualcosa di non così dissimile e così lontano dall’analitica esistenziale: «Non si tratta più di comprendere perché appare un mondo, ma che cosa caratterizza la struttura profonda dell’essere, e questa è accessibile appunto interrogando quell’essere che noi stessi siamo. Mentre la metafisica classica (compresa quella di Spinoza e Schopenhauer), almeno agli occhi di Husserl, cercava di accedere alle strutture dell’essere oltrepassando il fenomeno, per Husserl non si tratterà di niente di simile, bensì di scavare all’interno della vita del soggetto per mettere in luce ciò che ha permesso e permette ogni storia e ogni movimento dell’essere. Per accedere alle strutture profonde della realtà e dell’essere bisogna cioè interrogarsi e interrogare quella vita trascendentale che costituisce ogni mondo, che permette al mondo di apparire» (193).
Sarebbe stato davvero possibile per Heidegger soffermarsi così a lungo e così genialmente sul Dasein senza avere dietro e a fondamento il primato della coscienza genetica e del Leib? Il primato di quel corpo isotropo per il quale «lo spazio si organizza a partire da un luogo privilegiato, quello di volta in volta occupato dal mio corpo vivo, cioè dal mio qui […] cioè dal mio corpo vivo che funge da punto centrale o centro dello spazio» (128-129). Il primato di una «vita dell’io» che «precede il suo sapersi» (186) prima ancora che esso diventi consapevole di se stesso (e qui sembra di vedere il proto-Sé di cui parla Antonio Damasio). Il primato di una volontà non intellettualistica ma neppure irrazionale, per il quale «la genesi della volontà, e di ciò che chiamiamo soggetto del volere, coincide in primo luogo con la formazione di un soggetto padrone dei movimenti del proprio corpo vivo» (195-196).
L’essere avrebbe potuto coincidere con il tempo senza la convinzione husserliana [Ms. A V 21/61a]  che quanto viene «descritto in termini puramente statici è incomprensibile, e non si sa a questo proposito mai che cosa sia radicalmente significativo e che cosa non lo sia» (192) e che dunque «l’assoluto stesso si dispiega in un processo che è temporale da parte a parte» (199)?
Per entrambi, Husserl e Heidegger, la filosofia si genera dalla differenza tra il dato e il significato. Ontologia e fenomenologia sono due modi radicali di pensare questa differenza. L’ontologia di Heidegger è sempre rimasta radicalmente fenomenologica e la fenomenologia husserliana si è sempre posta nell’orizzonte di un’ontologia genetica. Fu facile profeta di se stesso Edmund Husserl quando nel 1935 scrisse a Ingarden che «le generazioni future mi riscopriranno» (214). Riscoprire Husserl significa infatti scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa offre alla vita.

 

Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

Dato / Significato

Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
Palazzo Reale – Milano
A cura di Denis Curti
Sino all‘8 settembre 2013

180 fotografie scelte dall’autore tra un milione e mezzo di scatti. Immagini catalogate e divise in Gente di Milano, Morire di classe -sui manicomi che rinchiudevano i soggetti sociali più deboli-, Dentro le case, Venezia -amatissima dal fotografo-, Comunità romanì in Italia -la vita degli zingari nei loro campi-, I baciLavoro, Fede Religiosità Riti. Gli anni Settanta nella città lombarda sembrano sfilare davanti ai nostri occhi con tutta la loro ingenua radicalità; tra i ritratti sono assai espressivi quelli di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, colleghi di Berengo Gardin; dappertutto, nei baci nelle automobili nei canti, si sente una profonda pietà per gli umani, per l’effimero triste che siamo.
In una conversazione con Giusy Randazzo (Gente di fotografia, numero 56, pp. 94-99) Berengo Gardin afferma che non si sente un artista ma un fotografo. Non per modestia ma, al contrario, perché convinto della specificità e forse della superiorità della fotografia sulle altre arti figurative. Tra i pittori, Berengo afferma di preferire gli astrattisti e in particolare Mondrian. In un’immagine della sezione della mostra dedicata al lavoro –Osaka del 1993- mi è parso di ritrovare la purezza formale di quell’artista. Di fronte alla convinzione di Berengo Gardin che «la macchina fotografica serve per fare foto di documentazione», per dare conto della “realtà”, gli si potrebbe obiettare che quando dei fotografi o non fotografi «guardano qualcosa non stanno riproducendo la realtà ma qualcosa che è sempre filtrato dalla loro mente» e che la cosiddetta realtà è a colori mentre la sua opera è rigorosamente in bianco e nero, affinché chi osserva non venga distratto da altro che non sia il contenuto dell’immagine. La verità è che il mondo è nell’occhio di chi guarda. La sensibilità di Berengo Gardin verso l’accadere è talmente alta che dal suo osservare il flusso -e fermarlo in un istante- non emerge alcuna “documentazione” ma splende, semmai, il significato delle relazioni umane. Non il dato ma proprio il significato.

 

Antirealismo

La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
Con: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio, Sabrina Ferilli (Ramona), Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,  Massimo De Francovich, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luciano Virgilio, Serena Grandi, Lillo Petrolo
Italia – Francia, 2013
Trailer (da vedere, un film in sé)

Vuota, notturna e luminosa, cafona e splendente, edonistica e mistica. Irreversibilmente corrotta e del tutto inventata. Questa è la città che scorre tra le parole di Jep Gambardella, colui che non voleva essere soltanto il re delle feste ma chi le feste le faceva fallire. Scorre Roma tra i pensieri di quest’uomo, i suoi desideri finiti, la sua profonda saggezza e la totale calma. Scorre rassegnata ed eterna tra attrici fatte e disfatte, cardinali gastronomi, presuntuose performer, chirurghi taumaturghi e cialtroni, mafiosi in incognito, sessantottini ricchissimi, drammaturghi delusi, badanti cosmopolite, turisti morenti, industriali danzanti, sante spente e centenarie, candide spogliarelliste, padri infantili, nane giornaliste, maghi e giraffe, aristocratici a noleggio.
Scorrono i ricordi di Jep Gambardella, le sue memorie di un amore lontano dentro il mare. Il soffitto si trasforma in acqua, solcata dalla nostalgia e dal sogno. Il Tevere scorre tra palazzi irreali, tra argini lenti, tra sogni perduti e incanti mai avuti. Scorre il film tra musiche raffinatissime e banali. Scorrono gli occhi dello spettatore immerso nella placenta che il cinema è sempre stato e che qui trionfa, grembo colorato, suadente, onirico e ironico.
Una Babilonia nichilistica.
Se fossi un regista, vorrei girare in questo modo i miei film. Pura forma, puro linguaggio, puro miraggio. Trionfo sulla volgare ingenuità di ogni realismo cognitivo e metafisico. Grande bellezza della mente.
L’epigrafe è tratta da Céline.

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15.6.2013

Ho rivisto il film e ne ho gustato ancor di più la profondità antropologica e la bellezza formale. Di essa è parte essenziale la colonna sonora. Senza la musica sarebbe un altro film. L’alternarsi di composizioni raffinatissime -come quelle di Zbigniew Preisner, David Lang, Magnus Perotinus, Henryk Górecki, Arvo Pärt- e di brani pop esprime perfettamente la cifra duplice dell’opera. Che, ribadisco, è un’opera sulla mente, sui ricordi, sul mondo interiore che la memoria corporea produce.

Credo che uno degli equivoci di molti critici e di numerosi spettatori sia stato confrontare La grande bellezza con i film felliniani. Si è trattato di un riflesso quasi condizionato ma radicalmente errato. Rivedendolo, mi è stato ancor più chiaro che al centro del film non c’è Roma ma «la grande bellezza che ho cercato, senza trovarla» come afferma verso la fine il protagonista. Non è un film sulla Roma barocca ma è un film barocco. Un’opera quindi sul tempo, sulla morte e sui loro simboli.

Filosofia e verità

Edmund Husserl
RICERCHE LOGICHE I

(Logische Untersuchungen I, 1900)
A cura di Giovanni Piana
Net, Milano 2005 (Prima edizione: Il Saggiatore 1968)
Pagine XLVII-494

Husserl definisce le sue Ricerche logiche un punto di inizio e non certo di arrivo, riferendosi in particolare alla VI, la più importante dal punto di vista fenomenologico. In questo primo volume compaiono gli ampi Prolegomeni a una logica pura e le Ricerche I e II. In esse si consuma un articolato distacco dallo psicologismo della prima opera di Husserl –Filosofia dell’aritmetica– mediante un’argomentata difesa della prospettiva logicistica.

A dire il vero, le tendenze sono soltanto due. L’una ritiene che la logica sia una disciplina teoretica, indipendente dalla psicologia e al tempo stesso una disciplina formale dimostrativa. Per l’altra, essa rappresenta una tecnologia, dipendente dalla psicologia, e con ciò si esclude naturalmente che essa possa avere il carattere di una disciplina formale e dimostrativa nel senso in cui, per la tendenza opposta, lo è in modo tipico l’aritmetica. (Prolegomeni, § 3, p. 27).

Le condizioni psicologiche della conoscenza di una legge non vanno infatti confuse con le sue premesse logiche. Una simile confusione renderebbe di per sé impossibile la distinzione tra un pensare corretto e un pensare erroneo, in quanto anche i modi errati del giudizio procedono senz’altro dalle condizioni psicologiche del pensare. Il cuore del discorso consiste quindi in una teoria del significato che si costituisca nel modo più formale possibile e per la quale la verità mostri di essere indipendente dalla mente -qualsiasi mente- che la pensa.
È questo il cosiddetto realismo delle Ricerche logiche, il quale non ha nulla a che fare con le forme ingenue di realismo ma, invece, con la gnoseologia platonica. Husserl cerca infatti una fondazione radicale, universale e certa della scienza. Cerca un’evidenza apodittica per la quale spiegare non significhi pervenire al generale attraverso il particolare, alla legge ideale mediante le intuizioni empiriche ma, al contrario, «rendere comprensibile il singolare a partire dalla legge generale, e quest’ultima a partire dalla legge fondamentale» (Introduzione alle Ricerche, § 7, p. 285).
La fondazione si radica nell’evidenza, senza la quale non c’è sapere. Un’evidenza categoriale e non empirica. Dei tre nessi che coniugano conoscenza e realtà -il nesso psicologico dei vissuti di coscienza, il nesso oggettuale delle cose teoreticamente conosciute e il nesso logico delle idee teoretiche che costituiscono la conoscenza- soltanto il terzo fonda per Husserl il luogo della verità, la quale è appunto indipendente da qualunque forma -umana, animale, divina, artificiale- di vita psichica e persino di realtà effettuale e si costituisce come puro formalismo delle regole e dei significati. La legge di gravitazione in quanto legge continuerebbe a valere anche se non ci fossero più o non ci fossero ancora masse gravitazionali. A venir meno sarebbe la sua applicazione fattuale e non il suo valore di verità.
Ogni scienza -e la scienza in quanto tale- «è una complessione ideale di significati» e non l’atto del significare; è -nei termini di Fregeder Gedanke e non das Denken: «Ciò che è essenziale e decisivo nella scienza non è il significare ma il significato, non la rappresentazione e il giudizio ma il concetto e la proposizione» (Prima ricerca, § 29, pp. 362-363). La scienza è scienza delle specie e non degli enti singoli, è scienza dei significati universali e non della «formazione fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole che non ritorna mai identico» (Prima ricerca, § 11, p. 309). Nelle formazioni linguistiche universali e nelle idee generali si realizzano la stessa specie e il medesimo significato che poi si differenziano nei momenti individuali e nei diversi casi empirici. Ancora una volta la realtà e la sua conoscenza sono sistole e diastole dell’identità e della differenza.

Le singolarità molteplici che formano il significato idealmente unico sono naturalmente i momenti d’atto corrispondenti del significare, le intenzioni significanti. Il significato si trova, rispetto agli atti singoli del significare (la rappresentazione logica rispetto agli atti rappresentazionali, il giudizio logico rispetto agli atti di giudizio, l’inferenza logica rispetto agli atti inferenziali) in una relazione simile a quella che il «rosso» in specie ha verso queste strisce di carta, che «hanno» tutte lo stesso rosso. […]
I significati formano, potremmo anche dire, una classe di concetti nel senso di «oggetti generali» essi non sono perciò oggetti che, se non si trovano in qualche luogo nel «mondo», si troveranno tuttavia in un tópos ourànios o nello spirito divino; una simile ipostatizzazione metafisica è infatti assurda. […]
In realtà: dal punto di vista logico i sette corpi regolari sono sette oggetti, così come i sette saggi; il teorema del parallellogramma delle forze è un oggetto così come la città di Parigi.
(Prima ricerca, § 31, pp. 368-369)

Una pagina, questa, assai vicina alla Teoria dell’oggetto di Meinong e nella quale il rifiuto del realismo metafisico di Platone si coniuga con la piena accettazione e condivisione del suo realismo concettualista. Il fondamento platonico dell’intero pensiero husserliano è del tutto evidente non solo nelle Ideen ma anche in queste Logische Untersuchungen. In esse la conoscenza delle leggi generali precede sempre quella dei fatti singolari; alla legge naturale come regola empirica viene contrapposta la legge ideale come legalità fondata sui concetti; viene posta una netta distanza tra le unità ideali -identiche ovunque- e i singoli segni linguistici nei quali esse si esprimono e che sono culturalmente differenti nello spazio e nel tempo.
Negli atti di riempimento dei significati è sempre necessario distinguere rispetto all’oggetto che viene percepito il contenuto semantico della percezione, poiché soltanto quest’ultimo è passibile di giudizio ed espressione linguistica. I numeri sono per Husserl indipendenti dall’atto empirico del contare, essi sono indipendenti persino dal fatto che siano espressi o pensati. Il logicismo antipsicologistico è quindi sotto il segno della teoresi platonica: «Nessuna arte interpretativa del mondo è in grado di eliminare gli oggetti ideali dal nostro linguaggio e dal nostro pensiero» (Seconda ricerca, § 8, p. 397).
Per lo Husserl delle Ricerche logiche la verità è del tutto ideale, non empirica e atemporale. A essere nel tempo e come tempo sono i fatti, non le leggi e i significati concettuali dei quali essi sono espressione. Leggi e significati sono fuori dal tempo, senza origine e senza fine. L’affermazione che segue è a questo proposito chiarissima:

Ciò che è vero è assolutamente vero, è vero «in sé»; la verità è unica ed identica, sia che la colgano nel giudizio uomini o mostri, angeli o dei. Le leggi logiche parlano della verità in questa unità ideale, di fronte alla molteplicità reale di razze, individui, vissuti, e noi tutti parliamo della verità in questa unità ideale, a meno che non siamo confusi dall’errore relativistico.
(Prolegomeni, § 36, pp. 132-133)

È da qui, è da tale concezione semantico-veritativa e logicistica del mondo, che discende il costante invito di Husserl a «tornare alle “cose stesse”» (Introduzione alle Ricerche, § 2, p. 271). Se le singole scienze e i diversi saperi hanno tutti bisogno della ricerca filosofica per raggiungere gli obiettivi di senso e universali che si propongono; se la filosofia scientifica rappresenta il culmine del sapere e della vita degli umani -in quanto dalle sue scoperte «è assente qualsiasi aspetto clamoroso; manca qui il riferimento utilitario, immediatamente percepibile, alla vita pratica o alla promozione di bisogni spirituali più elevati» (Introduzione alle Ricerche, § 3, p. 277)- è perché «la sistematicità propria della scienza, naturalmente della scienza vera ed autentica, non è una nostra invenzione, ma risiede nelle cose, e noi non facciamo altro che scoprirla e portarla alla luce» (Prolegomeni, § 6, p. 34).
La filosofia così intesa è gratuita come la matematica, indispensabile come essa, vera al suo stesso modo.

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