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Entropia

Arthur S. Eddington
La natura del mondo fisico
(The Nature of the Physical World, 1928)
Trad. di Charis Cortese de Bosis e Lucio Gialanella
Laterza, Bari 1935
«Biblioteca di Cultura Moderna»
Pagine 385

Dopo i secoli galileiani, nei quali il metodo della nuova fisica sembrava progressivamente oscurare ogni altra prospettiva sul mondo, la riflessione teorica e la pratica empirica hanno reso assai più complesso il rapporto, il legame e la differenza tra la filosofia e la fisica, mostrando in primo luogo l’assoluta ingenuità di ogni visione empirista della natura e delle scienze che la indagano. «La fisica», scrive Eddington, «lavora su di un mondo di ombre» (15). La ripresa dell’ipotesi atomistica e la teoria dei quanti hanno infatti separato il mondo della percezione da quello delle leggi fisiche. Confondere il reale con il concreto è un gesto non scientifico e non filosofico. L’ambito delle scienze contemporanee si mostra con chiari tratti di ‘irrealtà’ se per realtà si intende la dimensione empirica della materia.
Il tempo, concetto complesso e struttura invisibile, per Eddington «rappresenta meglio la realtà fisica che non la materia» (308). E tuttavia in un’affermazione come questa, certamente sensata, si esprime una dualità tra tempo e materia che va anch’essa superata.
Il tempo, infatti, rappresenta il tessuto più intimo della materia, quello di cui gli enti sono composti, compreso l’ente umano. 

Quando chiudo gli occhi e mi ripiego nel mio io interiore, mi sento DURABILE; non mi sento ESTENSIVO. È questo il senso del tempo che ci penetra direttamente, e che non esiste semplicemente nelle relazioni tra eventi esterni: lo spazio invece è sempre percepito come qualche cosa di esterno. È per questo che il tempo ci sembra molto più misterioso dello spazio: non sappiamo nulla della natura intrinseca dello spazio, e così ci è abbastanza facile concepirlo in maniera soddisfacente; abbiamo un’intima conoscenza della natura del tempo, e così esso sfugge alla nostra comprensione (73).

Il divenire è lo sfondo, la sostanza, la dinamica sia della mente umana sia del mondo intero. L’esistenza è comprensibile soltanto perché diviene e in quanto divenire. Che qualcosa ci sia significa che una parte della materia sta mutando rimanendo ciò che è. Comprendere tale dinamica vuol dire utilizzare con lucidità il dispositivo concettuale dell’identità che permane e della differenza che trasforma. L’essere è assoluta identità ed è assoluta differenza.
È anche per questo che la legge più importante della descrizione fisico-chimica del mondo è il secondo principio della termodinamica, il quale «deve, secondo il mio parere, considerarsi come il più grande contributo del secolo decimonono al pensiero scientifico» (127). Esso, infatti, «apre una nuova porta nel dominio della conoscenza, vale a dire lo studio dell’organizzazione; ed è in relazione a questa organizzazione che appaiono per la prima volta una direzione del corso del tempo e una distinzione tra ‘fare’ e ‘disfare’» (89).
Questa legge individua nell’entropia uno degli elementi fondamentali dei quali la materia è composta e con i quali il suo divenire va compreso. Partendo da uno stato iniziale di grande ordine, e dunque di stasi, la materia si esplica in un progressivo e crescente disordine. La misura di tale divenire del disordine si chiama entropia. Essa può quindi soltanto crescere. «La legge che l’entropia aumenta sempre -secondo principio della termodinamica- occupa, io credo, il primissimo posto fra le leggi della Natura» (96).
L’entropia è dunque l’irreversibilità stessa. Anche questa caratteristica rende fondamentale tale concetto/struttura per comprendere l’essere e l’accadere. Solo l’entropia segna la discontinuità temporale e rende dunque conto dell’effettivo accadere degli eventi e dei processi.
L’entropia è una delle forme essenziali del tempo, anche perché è la struttura che segna una differenza con lo spazio, il cui movimento rimane sempre reversibile mentre il tempo è pura irreversibilità: «Vi è una curvatura di esso per la quale l’Oriente una buona volta diviene Occidente, ma nessuna curvatura per la quale Prima divenga Dopo» (105).
L’entropia è anche molto altro.
È anche misura del caso, da intendere naturalmente non come arbitrio -e quindi irrazionalità- ma come progressivo ampliarsi delle potenzialità, delle varianti, della differenza. Il caso così inteso coincide ancora una volta con il tempo, poiché «l’effetto del caso è la sola cosa che la Natura non può disfare» (86).
L’entropia è anche evento mentale, al modo stesso degli arcobaleni, dei segni, delle costellazioni: «Ciò che è ordinato è oggettivo, come sono le stelle che compongono una costellazione; ma nell’associazione di queste stelle il maggior contributo è portato dalla mente che le contempla. Se il colore è una creazione della mente, anche l’entropia è la creazione della mente dello statistico» (119).
In quanto struttura del reale e manifestazione della mente, l’entropia è dunque la stoffa stessa del mondo. La sua stretta relazione con la coscienza ne esalta la funzione conoscitiva e la struttura universale. Giustamente quindi Eddington fa della coscienza «la via che conduce alla realtà e al significato del mondo, come è la via che conduce ad ogni conoscenza scientifica di esso» (383).
Il dualismo tra mente e natura viene così superato nell’identità/differenza che il tempo è.

Sirio

Sullo statuto del presente: ontologia e storia
in Vita pensata, n. 23 – Novembre 2020
pagine 24-30

La sezione monografica del numero 23 di Vita pensata è dedicata al tema del presente.
Nel mio contributo ho cercato di mostrare quale possa essere il suo statuto sia in ambito ontologico-metafisico sia in quello storico.
Il testo si può leggere:
sul sito della rivista
in pdf.

Nel breve paragrafo conclusivo ho sintetizzato quanto credo di avere appreso negli ultimi anni. Ne riporto qui un brano:
«La filosofia si radica in ogni possibile presente in almeno tre modi: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.
Esistere nel presente significa esserci non nel semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma nel presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto. L’esistere ha una struttura asintotica, sempre aperta e mai definitiva. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato».

Metafisica

Giovedì 5 aprile 2018 alle 16,00 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania terrò un seminario dal titolo «Metaphysics is now respectable again». Si  tratta della prima lezione di un laboratorio organizzato da alcuni docenti e studenti del Disum, dedicato a Filosofia analitica e continentale.
La linea teoretica sulla quale mi muoverò parte dall’assunto che la filosofia consista  anche nel comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo. Per questo il  metodo e la natura del lavoro filosofico sono fenomenologici e consistono anche nell’autocorrezione della tendenza idealistica, la quale subordina gli enti alla loro conoscenza da parte di un corpomente,  e nell’autocorrezione della tendenza realistica di un corpomente che ritiene di poter conoscere il mondo prescindendo da sé.
In realtà, ogni pensiero che si esprime sul mondo, ogni parola che dice il reale, ogni sentire estetico, concetto logico, legge fisica, hanno come fondamento una metafisica, esplicita  o implicita che sia. E questo va detto anche al di là di Nietzsche, al di là di Heidegger. E certamente al di là di ogni riduzionismo.

Enciclopedia

Aa. Vv.
Enciclopedia Einaudi
Volume 15 – SISTEMATICA
Einaudi, 1982
Pagine XXIII – 1146

«Il libro conservò a lungo, genericamente, un carattere magico» (J. Le Goff, Sacro/profano, p. 558).  E tale carattere continua a possedere, se magia significa anche vedere l’invisibile attraverso dei segni impressi sulla carta o altrove. Una magia che l’Enciclopedia Einaudi ha rinnovato creando tra gli anni Settanta e Ottanta un’opera da leggere e non soltanto da consultare, nonostante il suo impianto alfabetico e sistematico. Non nel senso di un sistema del sapere che immobilizza il fluire della conoscenza ma di una sistematica che si propone e tenta di fare da guida dentro il labirinto di ciò che ignoriamo, attraverso la guida di quello che sappiamo.
Una conoscenza quindi antica e rinnovata. Antica perché dialettica, anche nel senso platonico di «analisi dei concetti e delle loro relazioni» (D. Marconi, Dialettica, 174); rinnovata perché questa Enciclopedia ha inventato e prefigurato la Rete digitale prima ancora che essa vedesse la luce. Il volume dedicato alla Sistematica ben lo dimostra con i suoi continui rimandi interni, veri e propri link contenuti in due grandi sezioni: Sistematica locale e Ricoprimenti tematici.
L’Enciclopedia mostra anche quanto superficiale sia diventato l’approccio al sapere negli ultimi decenni, che hanno visto il riemergere mediatico di un realismo tanto plausibile quanto banale, che sembra ignorare secoli di complessità. Perché è certamente vero che la realtà materica è indipendente da chiunque la osservi ma filosofia è anche ed esattamente indagare il modo nel quale individui e culture guardano, intendono, interpretano e dunque vivono. Un esempio soltanto, riferito a una delle tesi più importanti di Peirce: «Un segno (un significante, una espressione) può essere interpretato solo da altri segni, ma non una volta per tutte, bensì all’infinito -una idea che può essere rintracciata in Abelardo e persino in Aristotele, dove continuamente si sospetta che la definizione possa non essere una e una sola» (U. Eco, Segno, 571-572).
I segni si stratificano nella memoria, negli enti, negli eventi. E in tal modo l’esistere umano diventa ciò che è perché diventa tempo, diventa un «mettersi in rapporto, sempre restando nel presente, con il passato, a seconda dei casi, esclusivamente con il proprio, con quello della specie, con quello degli altri individui» (K. Pomian, Memoria, 389). Sul fondamento di tale memoria, l’esistere dà senso al presente e apre al futuro individuale e collettivo. «Materiale fondamentale della storia è il tempo» (J. Le Goff, Storia, 629). il quale intesse i corpi, il loro agire, i loro ricordi e l’essere stesso di tutte le cose. Il tempo, questo «oggetto paradossale che è contemporaneamente invisibile e misurabile, e che si incomincia con il riconnettere ad altri oggetti invisibili» (K. Pomian, Tempo/temporalità, 654). L’interazione senza sosta dei moti visibili della materia e dei moti invisibili della mente produce una stratificazione la quale costruisce «un’architettura temporale che non è solo una creazione della ragione, perché è incorporata nelle azioni umane, nelle istituzioni sociali, negli strumenti e nelle tecniche; essa pertanto s’impone a ogni individuo come un dato su cui egli può influire molto poco. Quest’architettura temporale, prodotto dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente, è insieme ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’ o, più precisamente, dipende dalle caratteristiche biologiche e storiche dell’uomo come pure da quelle proprie delle cose» (Ivi, 655).
L’approfondirsi e l’intrecciarsi delle questioni antropologiche, mentalistiche, fisiche, cosmologiche, va dimostrando con sempre maggiore forza che fare a meno del tempo nella comprensione del mondo è cosa del tutto illusoria. Simmetrie e squilibri, cicli e irreversibilità, costituiscono insieme l’essere e il divenire di tutte le cose. «È infatti la temporalità a consentire, al contrario di una unilaterale ed esclusiva spazialità, di scorgere l’unità profonda pur sempre dall’interno del campo qui delineato, di fenomeni apparentemente eterogenei e di chiarire, senza dissolverlo, il loro specifico paradosso» (E. Garroni, I  paradossi dell’esperienza, 895).

Pur nell’impianto illuministico -dal quale nessuna pensabile enciclopedia può uscire- l’Enciclopedia Einaudi riconosce la presenza e la potenza dell’irrazionale dal quale sgorga anche ciò che chiamiamo ragione: «Nozione di razionalità, intesa come un tipo di conoscenza che presenta i caratteri dell’universalità, della necessità e dell’obiettività: i suoi contenuti sono cioè comprensibili, almeno in linea di principio, da tutti gli uomini, sono vincolanti in virtù della loro stessa intelligibilità e presumono di svelare aspetti della realtà naturale e umana. La conoscenza razionale della realtà è, infatti, solo una delle componenti della cultura occidentale, anche se per certi aspetti ne è la componente caratteristica; essa ha sempre dovuto, oggi come nel periodo delle origini, cimentarsi e confrontarsi con le concomitanti esigenze rappresentate dalla conoscenza empirica e dalla conoscenza religiosa; sempre risorgenti e mai sopite o controllate in modo totale. Si spiega così come la conoscenza razionale non sia mai stata un dato acquisito una volta per sempre. […] E si spiega anche come nella civiltà greca sia esistita, e sia rimasta in modo concomitante e parallelo alla conoscenza razionale, la dimensione irrazionale della conoscenza. Le radici del razionalismo e dell’irrazionalismo occidentale ed europeo emergono da un medesimo humus culturale. […] La peculiarità che la cultura occidentale manifesta fin dall’inizio, quella di essere profondamente divisa e dilacerata; questo fatto, lungi dall’essere un elemento di debolezza, è la ragione principale della sua straordinaria fecondità ed efficacia» (G. Micheli, Natura, 436).
Va dunque superata anche la contrapposizione tra Mythos e Logos, va oltrepassata la dualità «tra una psiche fondamentalmente razionale e un corpo sostanzialmente carico di desideri contingenti, di emozioni labili, di bisogni caduchi e marcescibili» (G. Trentini, Soma/psiche, 602), come vanno superati altri dualismi, in modo da comprendere che ciò che chiamiamo essere, realtà, mondo, è un insieme complesso, stratificato e molteplice di differenze che vivono nella identità di un comune fondamento.

Mimesis

Segantini
Palazzo Reale – Milano
Sino al 18 gennaio 2015

Segantini-Il-Naviglio-a-Ponte-San-MarcoMimesis. Il realismo nella letteratura occidentale è il titolo del grande libro che Erich Auerbach dedicò a questo tema. E tuttavia il sottotitolo della prima edizione era Eine Geschichte des abendländischen Realismus, als Ausdruck der Wandlungen der Selbstanschauung der Menschen, vale a dire una storia del realismo occidentale come espressione delle trasformazioni dell’autorappresentazione umana. Neppure per Auerbach, insomma, il realismo è separabile dal modo in cui la mente individuale e collettiva percepisce di volta in volta il mondo.
Su questo punto non possiamo più permetterci di essere ingenui. La realtà assoluta non esiste, semplicemente. È probabilmente anche a causa di questa consapevolezza che il mio sguardo è sempre critico nei confronti di tutto ciò che intende rappresentare la ‘realtà’. Nella sua opera Giovanni Segantini sembra stare stretto dentro il reale, sembra ogni volta voler uscire da un figurativismo che tuttavia lo attraversa e rinchiude dall’inizio alla fine. I suoi quadri, per quanto un po’ uniformi nei temi e nell’ambiente, rappresentano anche una sorta di riepilogo dell’arte europea dal Rinascimento (Mantegna) al Divisionismo, passando per il Naturalismo. Nelle nature morte, nei crepuscoli, nelle madri, nelle mandrie, nelle montagne dell’Engadina, diagonali di luce separano la tela in una molteplicità di spazi o sembrano vibrare dai corpi animali e umani.
L’ispirazione è panica, sacra, panteistica. «Ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo», scrisse. E aggiunse che «tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di Vita vera vita palpitante». Intenzioni del tutto condivisibili ma che già alla fine dell’Ottocento non potevano più essere realizzate rimanendo ancorati alla figura. Il simbolismo di Segantini è -insieme a quello di altri artisti a lui contemporanei, compreso lo stesso Klimt– forse l’ultima possibile espressione di una imitazione del reale che aveva ormai perduto ogni referente. Da questo tramonto sarebbe nata la grande arte del Novecento, quella che ormai non vuole descrivere un modello che non esiste ma fa della forma stessa il proprio oggetto.
La mostra di Palazzo Reale permette di attraversare per intero questo itinerario dentro l’impossibilità della mimesis. Tra le tante opere esposte, mi ha particolarmente attratto un dipinto di Segantini poco più che ventenne –Il naviglio a ponte San Marco (1880)- e non soltanto perché descrive un luogo milanese. Soprattutto perché qui l’imitazione va dissolvendosi: umani, palloncini, architetture, acque sono la pura luce del corpomente, il suo desiderio di una gioia che nessuna realtà può dare.

Anassimandro / Gravità quantistica

Il_manifesto_3.9.2014

 

 

Nel campo unificato del tempo e dello spazio
il manifesto
3 settembre 2014
pag. 11

Alla ricerca della struttura elementare delle cose. Una spiegazione che ruota attorno a un sistema primordiale in continuo divenire.

[Segnalo un refuso: la frase “una costante e passabile incostanza” va intesa come “una costante e inoltrepassabile incostanza”]

Riscoprire Husserl

Husserl
di Vincenzo Costa
Carocci, 2009
Pagine 232

 

Costa_HusserlLa fenomenologia fu dal suo fondatore sempre concepita e praticata come un metodo, anzi «come il metodo stesso della filosofia», in grado di «abbracciare la totalità dei problemi filosofici» (p. 24).
Il rifiuto del naturalismo non è soltanto metodologico ma è anche metafisico e consiste nella critica a ogni forma di ingenuo realismo che ritiene di poter cogliere un mondo indipendente dal fenomeno, vale a dire da come la soggettività trascendentale (non quella empirica) costruisce la realtà stessa mentre la percepisce, la valuta, la vive. Il contenuto di qualsiasi percezione può costituire un errore ma il fatto che io veda ciò che vedo non può essere mai un inganno, proprio in quanto è ciò che la mia coscienza sta in questo momento vivendo. Come anche Meinong sostiene, gli enti possono consistere (Bestehen) anche quando il loro correlato fisico ed empirico non esiste: «L’albero che vedo forse non esiste, ma non vi è dubbio che io vedo un albero» (27). Se «posso essere colpito da oggetti che non esistono» questo significa che a costituire il mondo della coscienza, e dunque il mondo, non sono le cause empiriche bensì le motivazioni intenzionali poiché -scrive Husserl- «la relazione reale viene meno quando la cosa non esiste, la relazione intenzionale invece sussiste» (134). La riduzione fenomenologica è quindi il darsi del mondo senza presupporne l’esistenza al di là del suo apparire, della sua radicale fenomenizzazione. Possiamo essere certi dell’immanenza degli enti, del modo in cui ci appaiono, non della loro trascendenza, del mondo in cui sarebbero al di là del loro apparire. È esattamente questo il luogo della certezza filosofica. Esso si chiama intenzionalità ed è fatto della materia sensibile che appare (hyle), del modo in cui appare -come percezione, immaginazione, credenza, calcolo o altro- (noesi), del contenuto di tale apparire in quanto apparire, dell’ente/evento come viene percepito, immaginato, creduto, calcolato (noema).
Materia, noesi e noema sono sempre semantici e temporali; sono «il senso che lega in unità una molteplicità di sensazioni» (46); sono « la forma che essi delineano» (90); sono l’insieme degli enti, degli eventi e dei processi per noi colmi di significato. E tutto questo è possibile perché questo senso e tale forma costituiscono se stesse come strutture temporali, essendo la temporalità «una forma di ordinamento senza della quale niente potrebbe apparire» (51). Non, però, come struttura esterna ed estranea agli enti, agli eventi e ai processi ma come il modo stesso della loro manifestazione, che in fenomenologia equivale al modo stesso del loro costituirsi ed essere.
È anche a motivo di questo nostro percepire il tempo che intesse le cose e le loro relazioni che «noi vediamo costantemente più di quanto ci è dato sensibilmente» (82), poiché ciò che Aristotele e Kant hanno chiamato ‘categorie’ non viene soltanto pensato ma ci è dato intuitivamente attraverso la capacità che il nostro corpomente possiede di collocare ogni singolo ente e ogni evento in un tessuto semantico e temporale che non sta evidentemente nella materia ma abita nel modo in cui essa si costituisce nella coscienza, sta -appunto- nel fenomeno.
Un radicale teleologismo della ragione sta al cuore della rigorosa presentazione che Vincenzo Costa ci offre del filosofo. Dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee e alla mole sterminata di manoscritti, la fede -non c’è altro modo di definirla- di Husserl consiste nella convinzione che «storia non significa semplicemente cambiamento, ma sviluppo guidato da un’idea infinita, orientato verso un telos» (178) che affonda nel Wille zum Leben inteso non come volontà senza senso e senza scopo ma in quanto «nucleo di assoluta razionalità in via di dispiegamento, in corso di manifestazione» (203). Non dunque l’accoglimento dell’umano come finitudine consapevole di se stessa ma come vita di un io trascendentale che -scrive Husserl- «è la vita di un essere finito diretto verso l’infinità» (cit. a p. 206).
Qui la differenza con Heidegger è chiara e fu anche esistenzialmente drammatica nel passaggio dalla formula «la fenomenologia siamo io e Heidegger» (anno 1916) al netto distacco testimoniato da una lettera a Ingarden del dicembre 1929: «Sono giunto alla conclusione che non posso inquadrare l’opera [Sein und Zeit] nell’ambito della mia fenomenologia, e purtroppo, anche dal punto di vista del metodo e addirittura nell’essenziale, dal punto di vista del contenuto (sachlich), la devo rifiutare» (pp. 211 e 213).
E tuttavia -e pur nella differenza- Husserl e Heidegger condivisero sempre e sino in fondo lo sguardo fenomenologico verso enti eventi e processi, pur diversamente declinato. Il logicismo si declina -nei manoscritti che via via vengono pubblicati- anche come metafisica fenomenologica che ha nella soggettività trascendentale e nel richiamo all’esperienza i propri fondamenti, qualcosa di non così dissimile e così lontano dall’analitica esistenziale: «Non si tratta più di comprendere perché appare un mondo, ma che cosa caratterizza la struttura profonda dell’essere, e questa è accessibile appunto interrogando quell’essere che noi stessi siamo. Mentre la metafisica classica (compresa quella di Spinoza e Schopenhauer), almeno agli occhi di Husserl, cercava di accedere alle strutture dell’essere oltrepassando il fenomeno, per Husserl non si tratterà di niente di simile, bensì di scavare all’interno della vita del soggetto per mettere in luce ciò che ha permesso e permette ogni storia e ogni movimento dell’essere. Per accedere alle strutture profonde della realtà e dell’essere bisogna cioè interrogarsi e interrogare quella vita trascendentale che costituisce ogni mondo, che permette al mondo di apparire» (193).
Sarebbe stato davvero possibile per Heidegger soffermarsi così a lungo e così genialmente sul Dasein senza avere dietro e a fondamento il primato della coscienza genetica e del Leib? Il primato di quel corpo isotropo per il quale «lo spazio si organizza a partire da un luogo privilegiato, quello di volta in volta occupato dal mio corpo vivo, cioè dal mio qui […] cioè dal mio corpo vivo che funge da punto centrale o centro dello spazio» (128-129). Il primato di una «vita dell’io» che «precede il suo sapersi» (186) prima ancora che esso diventi consapevole di se stesso (e qui sembra di vedere il proto-Sé di cui parla Antonio Damasio). Il primato di una volontà non intellettualistica ma neppure irrazionale, per il quale «la genesi della volontà, e di ciò che chiamiamo soggetto del volere, coincide in primo luogo con la formazione di un soggetto padrone dei movimenti del proprio corpo vivo» (195-196).
L’essere avrebbe potuto coincidere con il tempo senza la convinzione husserliana [Ms. A V 21/61a]  che quanto viene «descritto in termini puramente statici è incomprensibile, e non si sa a questo proposito mai che cosa sia radicalmente significativo e che cosa non lo sia» (192) e che dunque «l’assoluto stesso si dispiega in un processo che è temporale da parte a parte» (199)?
Per entrambi, Husserl e Heidegger, la filosofia si genera dalla differenza tra il dato e il significato. Ontologia e fenomenologia sono due modi radicali di pensare questa differenza. L’ontologia di Heidegger è sempre rimasta radicalmente fenomenologica e la fenomenologia husserliana si è sempre posta nell’orizzonte di un’ontologia genetica. Fu facile profeta di se stesso Edmund Husserl quando nel 1935 scrisse a Ingarden che «le generazioni future mi riscopriranno» (214). Riscoprire Husserl significa infatti scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa offre alla vita.

 

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