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Il virus come tramonto

Non so chi sia l’autore del testo che pubblico qui sotto (letto in Rete) e sono pronto ad aggiungere il suo nome, se mi sarà segnalato. Anche se l’estensore confonde il green pass del gennaio 2021, necessario per uscire e rientrare dall’Italia, con quello imposto con il DPCM del 6.8.2021, universale e quindi assai più grave, credo che in queste righe si colga uno degli elementi profondi e capaci di descrivere ciò che sta accadendo. I filosofi, e più in generale gli studiosi, dovrebbero avere la funzione di comprendere e comunicare tali dinamiche ma uno degli elementi più tristi del presente è proprio la trahison des Clercs (Jules Benda), il tradimento degli intellettuali.

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OBBEDISCI

Fin dall’inizio la gente si è siringata per poter continuare a fare le cose di prima.

Senza il green pass, di cui si è parlato a gennaio, in piena concomitanza con l’inizio della campagna va**inale, solo il 10% della popolazione, si sarebbe va***nata. Altro che 50%. Qui, dunque, non siamo di fronte a un’umanità dedita alla scienza. Qui siamo al nichilismo puro. Non c’è nessuna fede nella scienza. C’è semplicemente il doversi siringare. Ma il bello è che questo siringarsi, per-poter-fare (lavorare, andare a un concerto, prendere un treno), è quel crepuscolo degli idoli di cui parlava un filosofo il secolo scorso. È di fatto, la piena attuazione, della fine delle ideologie. Di ogni valore, finora conosciuto. È l’abbattimento della coscienza, della libertà, della persona, della storia. È la fine dell’uomo, come l’avevamo conosciuto. È chiaro che eravamo già pronti. Ma qualcosa avrebbe ancora resistito. Grazie alla pandemia, abbiamo definitivamente abbandonato tutto quel mondo. Ci siamo scoperti ‘niente’. Cioè, oltre il lavorare, andare a un concerto, andare a un museo, non siamo niente. Solo fruitori, utenti, clienti. Più nessuna idea sulle cose e sul mondo. Sulla vita, e sugli altri. Nessuna idea. Nessun pensiero. Nessuna visione. Nessun desiderio. Nessun io. Nessuna prospettiva. Solo, la pura obbedienza. Obbedire, per poter fare le cose di prima. Obbedire, perché altrimenti non era possibile farle. Tutta la pandemia è stata indirizzata sul nulla dell’uomo, e nell’uomo. E la scienza è stato il disperato tentativo di far reggere un’ideologia che ti chiedeva invece di sottomettere il tuo corpo per prendere un treno, o mangiare una pizza al chiuso. Il nulla, quindi, se il discorso verte sul lato ‘ideale’. 

Nietzsche, senza dubbio, ha visto tutto. E credo lo si capirà bene quando dei racconti di Zarathustra si saprà cogliere l’aspetto conoscitivo, più che quello esortativo. Zarathustra, vede, e non necessariamente vuole, quello che racconta. La sua partecipazione è una finzione scenica. È probabilmente l’umano troppo umano che c’è in lui, la sua ‘malinconia’. La scena del siringaggio al mercato, tra la frutta e la verdura, di una persona che non sa neppure quello che sta facendo, con una risata senza senso, ricorda certe figure dello Zarathustra, nella sua forza dirompente, nell’intensità distruttiva che emana. 

L’uomo covidiano è l’uomo privo di un qualunque pensiero sul mondo, senza più una ragione, una comprensione di quello che ha intorno. È la risata ebete del pazzo, completamente staccato da ogni universo di valori e significati condivisi.
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Con l’invenzione politica (e non sanitaria) del SuperGreenPass la tonalità sociale è ulteriormente peggiorata; dilagano l’intolleranza, la violenza, la discriminazione verso chi esercita il diritto -sempre più fragile- al controllo del proprio corpo.
Lo ha chiarito assai bene Giorgio Agamben in due recenti occasioni: nella sua audizione in Senato il 7.12.2021, quando ha parlato in modo esplicito di terrore politico e tradimento medico, ricordando che il primo governo europeo a imporre leggi invasive della corporeità fu il governo nazionalsocialista; in un breve intervento a un convegno, nel quale ha affermato con chiarezza che «il governo attuale ha abbandonato ogni legalità»:

Una conferma alle parole di Agamben è costituita da quanto accadrà tra due giorni, a partire dal 15.12.2021, con l’espulsione di tanti docenti, maestri e professori, dalla scuola italiana. Qualcosa di inaudito, che ricorda gli anni più oscuri del Novecento. Riporto qui sotto la testimonianza di uno di questi maestri e la dichiarazione di piena solidarietà ai colleghi delle scuole da parte dei docenti universitari firmatari del manifesto contro il lasciapassare sanitario. Le preoccupazioni sulla gravissima discriminazione in atto (denunciata da quello e da altri analoghi documenti) si stanno rivelando fondate.

 

 

Gli «effetti collaterali» dei vaccini, i rischi anche gravi e persino fatali che si corrono, sono oggetto dei due documenti che allego qui sotto. Il primo è una sintesi dei rischi accertati sino alla data della sua stesura, 17.2.2021; il secondo è un breve articolo di Panorama del 1.12.2021, che consiste di due elementi: una serie di dati ufficiali -e quindi assai probabilmente sottostimati- e alcune testimonianze di persone che hanno subìto gravi danni dopo l’inoculazione.

Secondo alcune letture di questi due anni di epidemia, al fondo della vicenda ci sarebbero anche le preoccupazioni maltusiane già sollevate dal Club di Roma con I limiti dello sviluppo (Rapporto Meadows, 1972), vale a dire l’assillo per l’incremento demografico assolutamente fuori controllo della specie umana, sicura ragione di esaurimento delle risorse del pianeta e dunque della vita su di esso. Anche per questo ai danni immediati dei vaccini, e ovviamente a quelli del virus, sembra che si aggiunga un probabile effetto di sterilizzazione sui giovani vaccinati.
Se fossero davvero queste alcune delle motivazioni del diffondersi sia del virus Sars-Cov-2 sia di vaccini molto pericolosi, si potrebbe essere disponibili ad accettare la loro funzione di salvaguardia dell’intero rispetto al dilagare di una sua parte, rispetto dunque all’effetto tumore che Homo Sapiens esercita sulla biosfera.

Naturacultura

Nel 1972 il Rapporto Meadows indicava i limiti dello sviluppo, l’impossibilità logica e ontologica di uno sviluppo illimitato in un pianeta dalle risorse finite. Questo richiamo non ebbe naturalmente alcun sèguito effettivo, in quanto «troppo radicale nelle sue conclusioni, è politicamente inascoltabile, poiché erode le fondamenta stesse dell’economia moderna, ossia il principio della crescita infinita sul quale è costruito il nostro mondo da due secoli» (Éric Maulin, in Diorama letterario 351, p. 14), quel principio che indusse George Bush -come i suoi predecessori e successori– a dire nel 1992 che «il nostro livello di vita non è negoziabile».
Conta ben poco che stia diventando un livello di morte; gli umani hanno la vista corta. Quando serve, però, vedono abbastanza lontano da comprendere a che punto sia il presente e da agire in vista di un obiettivo di media distanza: «A naso, e secondo l’agenda Attila del capitalismo, il pianeta va saccheggiato prima del 2050. Al di là di questo termine, il prodotto ‘Mondo’ non sarà più consumabile: troppo caldo, troppo popolato e troppo tossico -monouso in fondo, secondo i criteri dell’economia mercantile» (François Bousquet, ivi, 13).
Non si tratta ‘soltanto’ di economia, si tratta di politica, di ‘grande politica’. Lo scenario che comincia infatti a prendere vita –come testimoniano già e ormai le pratiche delle multinazionali contemporanee- è un ritorno alla schiavitù, seppur in forme giuridicamente diverse rispetto al passato. Se la schiavitù, infatti, «è stata abolita grazie alle risorse fossili (Arendt), è probabile che rinasca con il finire di queste energie» (Jean de Juganville, ivi, 17). Un finire inevitabile non soltanto perché le soglie prospettate dal Rapporto Meadows sono state oltrepassate ma anche perché non si tratta più di opzioni etiche dei singoli ma di strutture ontologiche oggettive:

Solo un quarto dell’insieme del consumo è imputabile direttamente agli individui. Il resto è dovuto all’industria, all’agro-alimentare, all’esercito, ai governi e alle multinazionali. Il Sistema stritola e digerisce dunque tutti i nostri gesti irrisori e prosegue la sua opera distruttrice. Solo una parte infima della popolazione si mobilita poiché l’immensa maggioranza vive sotto perfusione delle industrie del divertimento. In mezzo a questa minoranza, i movimenti sociali ed ecologisti non riescono neanche a frenare il crollo in corso. Perché? Perché nessun cambiamento radicale ha mai avuto successo con la discussione e nemmeno con l’esemplarità. La non-violenza è una grande amica dei governi, della polizia e delle Ong, la non violenza protegge lo Stato e ancor più il Sistema (Id., 18-19).

L’estremismo liberista ha bisogno di schiavi, per quanto mascherati, e ha bisogno di illusioni di sostenibilità. Ha bisogno della servitù volontaria, soddisfatta e inconsapevole. Ha bisogno della dissoluzione di ogni identità -soprattutto collettiva– a favore di un individualismo poietico, liquido, volatile. Come quello che si esprime in modo paradigmatico nei Gender Studies, che tra gli altri limiti possiedono anche quello di un costruzionismo totale.
L’umano, invece, non è certo soltanto biologia e innatismo ma non è neppure soltanto cultura e costruzione. «Come nella cosmogonia cristiana Dio crea il mondo dal nulla, così l’individuo delle teorie gender (transessuali, lgbt), in un delirio di onnipotenza, si pensa come una sorta di ‘dio unico che non deve niente a nessuno, né agli altri (attraverso la cultura), né alle potenze celesti o telluriche (attraverso la natura)’» (Giuseppe Giaccio, ivi, 37-38).
I mandarini del politicamente corretto hanno fretta; devono e vogliono sbarazzarsi quanto prima possibile di ogni differenza, in modo da garantire un pensare e un sentire uniformi, indifferenti alla varietà del reale, alla varietà culturale, etica, etnica, sessuale. Uno degli strumenti a questo scopo è l’attacco –davvero sconcertante– nei confronti del suffragio universale. Nel XIX e XX secolo una delle principali battaglie della sinistra e di ogni movimento di emancipazione fu

il diritto di ‘bifolchi’ e ‘cafoni’ di esprimere con il voto le loro preferenze ‘di pancia’, sperando che scegliessero chi prometteva di varare provvedimenti che colmassero almeno un po’ il vuoto dei loro stomaci. Oggi, invece, il progressismo professorale giudica con sdegno quei ‘rozzi’ strati collocati nei gradini più bassi della scala sociale che si ostinano a ‘votare male’ e, non riuscendo a smuoverli con le armi del ricatto psicologico e della propaganda, si propone di rimetterli in riga minacciando di escluderli dalla competizione politica. Per loro dovrebbero votare altri, gli ‘abilitati’ da un’élite di colti che si occuperebbe di sottoporli a un esame di educazione civica ‘a crocette’, con risposte prestabilite e adeguate allo scopo che si vorrebbe ottenere. Costoro, di fatto, ne diverrebbero i paternalistici custodi, i tutori politici fino alla ‘maggiore età’ politica, che soltanto una conclamata conversione al politicamente corretto potrebbe permettere di raggiungere. Uno scenario che merita un solo aggettivo: aberrante (Marco Tarchi, ivi, 40).

Un capovolgimento che testimonia in modo plastico il mutare delle cose umane, anche nell’ambito politico. Di fronte a simili rigurgiti di classismo e di esclusione sociale, è necessario difendere e garantire le differenze, difendere e garantire ogni spazio di libertà.

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