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Lecce

Barocco, ancora barocco sì, come gran parte del Sud dell’Europa. La grande arte della gloria, trionfante sugli impulsi ascetici del Nord. Ma Lecce, questo gioiello, non è soltanto il barocco, è l’amicizia con la bellezza, con la terra, con il Sole. «Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint / Furono chiamati salentini perché avevano consacrato legami di amicizia in mare» (Varrone, Antichità, III).

Lecce antica

Lecce, Museo Castromediano, Trozzella messapica a figure nere con fatica di Eracle, V sec. a.e.v.

Le maggiori testimonianze della Lecce greco-romana sono avvolte dai teli dei ‘lavori in corso’. Prima di tutto il grande Anfiteatro romano che domina lo spazio della piazza dedicata a Sant’Oronzo. Dalle strutture emerse dell’edificio si indovinano il volume, l’armonia, le funzioni di centro della vita sociale del mondo romano. Assai peggio sistemato è il Teatro romano, che si apre accedendo da un vicoletto ma che appare in una condizione di lavori permanenti che somiglia a un permanente degrado.
Le testimonianze della fecondissima vita e attività di Lecce e del Salento nel mondo antico, dal Paleolitico ai Bizantini, sono raccolte nel Museo Castromediano, riaperto nel 2019, allestito in modo dinamico, con delle spirali che conducono alle cinque sezioni dedicate alla Terra, al Mare, ai Vivi, ai Morti e al Sacro.
Le raccolte di questo museo vengono periodicamente poste in dialogo con l’arte contemporanea. In questi mesi sono ospitate sette opere dello scultore greco Costas Varotsos, dedicate a Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa. Opere forse un po’ troppo ambiziose e alla fine fredde – anche per il vetro del quale sono in gran parte composte -, tranne l’ultima che dialoga con il mondo dei morti attraverso un’installazione dal titolo Soffi,  fatta di vetroresina che sembra muoversi nel vento.

Lecce, Museo Castromediano, Lekytos attica e cratere attico, III-II sec. a.e.v.

Uno spazio davvero unico è il Museo archeologico Faggiano, vicino a Porta San Biagio e scoperto per caso nel 2001 in seguito a dei lavori condotti in una casa privata. Sotto l’edificio contemporaneo furono individuate stratificazioni molto profonde, cripte e resti di un monastero, cisterne e granai, migliaia di reperti delle epoche più varie. Il restauro è stato posto per intero a carico dei proprietari – Luciano Faggiano e la sua famiglia -, i quali nei limiti delle loro forze ma con grande passione hanno predisposto un percorso didatticamente assai chiaro che permette di comprendere la complessità a volte labirintica del luogo.

Lecce romanica

Lecce, Basilica di Santa Maria di Cerrate

Davvero la pace spira tra gli spazi e la luce dell’Abbazia di Santa Maria di Cerrate, a poco meno di venti chilometri dalla città. Il FAI (Fondo Ambiente Italiano) ha restaurato un insieme di edifici assai antichi, per secoli abbandonati e utilizzati in vari modi, e che ora sono una luce per gli occhi, per il tatto, per l’udito che può immergersi nel silenzio.
La struttura è costituita da una chiesa romanica dalla splendida facciata e piena di affreschi, da un porticato che si apre su uno dei lati dell’edificio sacro, da un bel pozzo cinquecentesco accanto al porticato, da spazi di trasformazione del grano e delle olive in farina e in olio, da ciò che rimane del monastero. Un piccolo agrumeto accompagna gli edifici, con la luce del Sud che trasforma le arance in oro.
Già rinascimentale, ma radicato nell’architettura medioevale, è in città il Castello di Carlo V, voluto dall’imperatore asburgico dopo la tragedia dell’assedio di Otranto e della distruzione di parte del Salento operata nel 1480 dagli Ottomani.

Lecce barocca

Lecce, Santa Croce

Stupefacente è lo splendore dei palazzi; l’uniformità del colore fatto di una terra luminosa; l’armonia del tessuto urbano, con le vie Palmieri, Libertini, Vittorio Emanuele, Principi di Savoia che si intersecano tra di loro creando un armonioso labirinto di strade; cortili che introducono a palazzi sontuosi e a più semplici ma sempre ricche dimore.
Fortuna ha voluto che alcuni di questi cortili, tutti privati, fossero aperti una sera alla fruizione pubblica e alla sonorità di musiche diverse.
E sono soprattutto magnifiche le chiese, centinaia, che hanno valso a Lecce la definizione appunto di città-chiesa. Tra queste le più imponenti ed eleganti nelle facciate concave/convesse, nello strabordare delle decorazioni, colonne, statue e simboli sono: il Duomo che si apre sulla piazza accanto agli armoniosi volumi del Palazzo Vescovile e del Seminario, quest’ultimo visitabile e sede di un ricco Museo d’Arte sacra, con al centro del cortile un bel pozzo e un chiostro nel quale è piacevole passeggiare; Santa Chiara, con una più sobria facciata ma con l’interno ottagonale scandito da ricchissimi altari; San Matteo, dalla facciata in basso concava e in alto convessa e con l’altare maggiore straripante di decorazioni e forme; Sant’Irene, chiesa dei Teatini esemplata sulla romana Sant’Andrea della Valle. E infine la Basilica di Santa Croce, potente e armoniosa, sulla facciata della quale la luce e le ombre giocano e costituiscono esse stesse un’opera sovrumana volta al tentativo umano di attingere la gloria.
A questi incanti sacri si aggiungono gli archi delle porte che delimitano l’antico centro seicentesco e che costituiscono tuttora dei veri ingressi alla città antica, ben separata dalle spente costruzioni contemporanee che la circondano, prive di valore: Porta S. Biagio a sud, Porta Rudiae a sud-ovest, Porta Napoli a nord-ovest, mentre il lato est della città è difeso dal Castello. Tra Porta Rudiae e il Duomo si estende il quartiere delle Giravolte (immagine di apertura), lo spazio forse più consono per comprendere che cosa sia Lecce.

Lecce, Cortile del Seminario

Lecce contemporanea

L’ex convento dei Teatini ha ospitato sino al 6 gennaio 2025 un’affascinante mostra dedicata ai 100 anni della radio in Italia. Il collezionista Alberto Chiàntera ha raccolto centinaia di oggetti radiofonici, dai primi trasmettitori agli anni Ottanta del Novecento. Molti di questi oggetti sono di grande eleganza e possiedono un’aura del tutto particolare, quella della voce e dei simboli umani che Guglielmo Marconi – la cui sagoma è onnipresente – rese comunicabili a tutte le distanze e in ogni luogo. Per farlo, oggi basta possedere un ricettore, anche minuscolo, come appunto sono i telefoni cellulari del XXI secolo.
Vertice del contemporaneo a Lecce è la Fondazione Biscozzi-Rimbaud, della quale ho parlato in questo sito qualche settimana fa: Puglia.

Infine

I messapi inventarono questo luogo nel V sec. a.e.v. I romani lo chiamarono Lupiae e infatti un lupo sotto un albero di leccio è ancora il simbolo della città, un nome che si riferisce certamente all’albero ma che forse è anche un gesto di devozione verso Apollo Licio. Lecce risorse e divenne ricca in età appunto barocca. Che è uno stile architettonico e un’espressione estetica ma è soprattutto il vortice di un tempo fatto di gloria, il tempo degli dèi.

Puglia

La Puglia vista dai fotografi dell’Agenzia Magnum
Lecce  – Fondazione Biscozzi-Rimbaud
A cura di Walter Guadagnini
Sino al 5 gennaio 2025

In una piazzetta, accanto a una delle centinaia di chiese che formano il tessuto urbano di Lecce (la chiesa delle Alcantarine), ricavata dal restauro assai sapiente di un antico palazzo, la Fondazione Biscozzi-Rimbaud è uno dei più rigorosi e piacevoli musei d’arte contemporanea che abbia visitato. Attraversando i suoi spazi, salendo per le scale, ammirando la luminosa collocazione di ogni opera, si comprende che l’arte del secondo Novecento non è soltanto truffa, fuffa, narcisismo e «sistema» (lo è in gran parte) ma può costituire – come sempre l’arte fa – anche una espressione profonda della dolente geometria che dalla Prima guerra mondiale in avanti fa del mondo un luogo che è insieme matematico e feroce. Emerge e appare soprattutto una grande pulizia formale nelle opere raccolte dai coniugi Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud. E questo al di là dei nomi (Burri, Melotti, De Pisis e soprattutto Licini), delle correnti, delle tendenze che il museo accoglie e testimonia. Tutte sembrano avere in comune il respiro di una geometria della vita.

Osvaldo Licini, Notturno

Il Museo ospita sino a domani (5.1.2025) una raccolta di immagini che dodici fotografi dell’Agenzia Magnum hanno dedicato alla Puglia dal secondo dopoguerra al presente. 35 fotografie che parlano dell’antropologia, dell’architettura, della miseria, della bellezza che intesse le città, la terra, il mare. E che mostrano quale tesoro di storia, identità, tradizioni, miti sia questa regione. Emblematica è un’immagine di Burt Glinn del 1963. Si intitola semplicemente Bari: tre donne e un uomo, vestiti di scuro. Due di loro emergono come dalle tenebre domestiche, l’uomo è scolpito sullo sfondo chiaro di un muro. La terza donna, seduta, sembra una Parca che fila, aspetta, tronca. Nessuno dei loro sguardi si incontra. I corpi si concentrano tutti nelle mani, in gesti che costituiscono un lungo parlare. Un braccio è diretto verso l’alto, due mani indicano il divenire, altre mani più in basso accolgono il comando. Le ultime sono pronte a recidere. Sono dei corpimito. Stupefacente.

Burt Glinn, Bari (1963)

Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

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