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Diversa, diffusa, molteplice

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Un amore di Swann
di Marcel Proust
Traduzione di Giovanni Raboni
Drammaturgia di Sandro Lombardi
Con: Sandro Lombardi (Charles Swann), Elena Ghiaurov (Odette de Crécy), Iaia Forte (Madame Verdurin)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 19 maggio 2013

La volgarità è uno dei temi della Recherche du temps perdu.
Volgarità dei salotti, di una società che vive di snobismo, di pettegolezzi, di meschinità elevate al rango di significati. Madame Verdurin ne costituisce l’emblema. Charles Swann la descrive come un uccello le cui piume sono state bagnate nel vino caldo. Questa donna spregevole articola con i suoni appunto di un uccello il proprio odio per tutto ciò che non riesce a comprendere e che la supera.
Volgarità della seduzione. Della finzione d’amore volta soltanto al dominio sull’altro. Di dolci parole vibrate come pietre a colpire il cuore di chi le ascolta. E sottometterlo. Per poi -una volta ottenuto l’obiettivo di farsi sposare o mantenere- volgere la seduzione in insulto, tradimento, ironia. Odette de Crécy -prostituta d’alto bordo, ignorantella e fasulla- conquista in questo modo il tempo e il rango di Charles Swann.
Volgarità del desiderio. Che non si accorge di come stiano arrivando tempeste di sabbia nella vita, onde di polvere, a intasare la lucidità dei neuroni e la calma dei sentimenti. Charles Swann in verità se ne accorge, tanto da rispondere ai primi gesti seduttivi di Odette dicendole che non vuole conoscerla meglio “per non diventare infelice”. Ma cede poi alla menzogna di una donna della quale, molti anni dopo, dirà «j’ai gâché des années de ma vie, j’ai voulu mourir, j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre!» (À la recherche du temps perdu, “Du côté de chez Swann”, Gallimard 1999, p. 305).
I tre attori che danno vita a questa fenomenologia della ferocia alternano la voce del Narratore con quella dei personaggi, riuscendo in tal modo a trasmettere almeno un’idea della magnifica ricchezza del testo proustiano. Esso ci mostra che L’Altro è un pericolo, l’Altro è un concorrente, l’Altro è un fastidio, l’Altro è anche “l’enfer” (Sartre) ma questa differenza dell’Altro è così drammatica perché l’Altro è la nostra identità, l’Altro siamo noi. L’alterità è costitutiva della vita mentale. Un’alterità che nella vita amorosa diventa  identità. Il soggetto amoroso è un soggetto nichilistico in quanto vorrebbe eliminare la differenza duale a favore dell’identità unica. Ma l’altro rimane irriducibile. È altro perché non è io, è un io che non è me e che non potrà mai diventare me come io non potrò diventare lui. Se lo diventassi, lo annullerei. Se lo diventassimo, ci annulleremmo come alterità. Se infatti l’Altro fosse raggiunto, esso sarebbe negato in quanto Altro. Anche per questo, dato che la ripetizione amorosa è una ripetizione seriale (Deleuze), l’innamorato è un serial killer che opera in base ai due principi della ripetizione e della differenza.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo -fatto di eventi e di memorie, assai più che il corpo fatto di organi e tessuti- a trasfigurare l’oggetto amoroso nella favolosa e asintotica meta della nostra passione. L’oggetto amoroso è dunque un segno. Un segno dell’intero al quale vogliamo pervenire, là dove la scissione tra il tempo che siamo e il tempo che è possa finalmente annullarsi nella totalità. «Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e  invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 41).
La dea del tempo innamorato è una sorta di Madonna del Desiderio. Appare con volti diversi, abita istanti diffusi, occupa luoghi molteplici. Swann la incontra sotto le specie di una cortigiana bella e feroce. È per Swann e tramite Swann che Odette assume la figura di una Dea sotto il cui incedere “si volgono i mondi”: «Tout d’un coup, sur la sable de l’allée, tardive, alentie et luxuriant comme la plus belle fleur et qui ne s’ouvrirait qu’à midi, Mme Swann apparaissait. […] Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (À la recherche du temps perdu, “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, Gallimard 1999, pp. 503 e 506).

 

Ignoranza e altri crimini

Mente & cervello 100 – aprile 2013

Il terremoto che il 6 aprile del 2009 colpì l’antica e splendida città dell’Aquila fu forse -nonostante i 308 morti e i 1600 feriti- il minore dei mali che da allora si sono riversati su quella terra. La catastrofe foriera di angoscia, di perdita dell’identità storica, di gravi sindromi tra i quali la depressione, è arrivata dopo ed è stata portata non dalla Terra e dalla sua energia ma dai potenti e dalla loro ignorante avidità.
È quanto emerge con chiarezza da un’inchiesta di Mente & cervello dal titolo «Il terremoto dell’anima». Si accenna alla corruzione profonda che guidò le scelte del governo Berlusconi e della Protezione civile in mano ai suoi complici. Al di là della stessa corruzione fu -ed è- una profonda ignoranza antropologica e filosofica a ispirare i delitti di costoro. Ignoranza del fatto che «una città, e tanto più una città italiana, con una storia millenaria, non è solo un luogo dove le persone abitano. È un luogo dove le persone vivono» (M. Cattaneo, p. 3). E invece le fredde e artificiali New Town sono «non luoghi, spazi replicati a cui non si riesce a dare significato» (R. Salvadorini, 32). Soltanto un’ideologia politicotelevisiva come quella di Berlusconi poteva scambiare il gelo di una scenografia pubblicitaria -la New Town appunto- con il calore dei luoghi dove si stratifica la vita. La decisione di non ricostruire subito il centro dell’Aquila deportando invece i suoi abitanti in tali non luoghi è uno dei più gravi crimini dei governi berlusconiani. Ma non è bastato neppure questo: la menzogna televisiva -sempre guidata dallo stesso soggetto- si è accanita a produrre quello che lo psicoterapeuta Massimo Giuliani ha definito il trauma mediatico, vale a dire «la negazione degli eventi e della sofferenza. A partire dalla frase di Berlusconi che invitava a prendere le tendopoli come una “vacanza in campeggio”. Un invito a non credere alle proprie percezioni. […] Quando in certe trasmissioni si sentiva dire che gli aquilani stavano bene, molti vivevano l’ingiustizia di vedere negato il proprio disagio concreto; così quello che è successo all’Aquila ha fatto sentire molte persone violentate nella propria sofferenza. […] Perché non c’è niente di peggio che raccontare bugie sul dolore delle persone». E quindi è adesso necessaria la «ricostruzione dei luoghi, dello spazio e di una “saldatura” del tempo» (Id., 33).

A quanti -siano essi fisici o metafisici- si ostinano a negare l’esistenza e la pervasività del tempo risponde la realtà stessa dei loro cervelli, i cui neuroni hanno bisogno di un continuo dinamismo spaziotemporale anche soltanto per continuare a percepire suoni, colori, immagini, odori, sapori.  Quegli odori e quei sapori dei quali «il neuroscienziato Proust» (così lo definisce Jonah Lehrer nel titolo di un suo libro) era perfettamente consapevole. Un articolo di Daniela Ovadia riassume la fisicità del tempo proustiano, la potenza della memoria corporea sulla quale è edificata l’intera Recherche, la scoperta che i ricordi sono continuamente riscritti dalla condizione presente in vista degli obiettivi futuri, la consapevolezza che il tempo è anche tutto questo poiché a essere corporea è la vita.
«Per diventare stabili, i ricordi devono creare nuove sinapsi e ogni rievocazione ne modifica la struttura biologica, consolidando i legami tra alcuni neuroni e rimuovendone altri. Ecco perché ciò che ricordiamo è fallace e contiene sempre una quantità più o meno grande di “invenzione”, una situazione che Proust, terrorizzato dall’idea di perdere tracce di sé, aveva già magistralmente descritto nella sua opera» (45).
Il corpomente intriso di memorie e di attese, il corpomente fatto di tempo, è sempre stato il vero obiettivo anche di coloro che dicono di dedicarsi all’“anima”. Il Museo laboratorio della mente, allestito a Roma nell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, mostra ancora una volta come ogni potere sia un biopotere. Nei suoi spazi si fa evidente «come l’istituzione prenda possesso del corpo, l’ultima cosa che davvero apparteneva al paziente e lo distingueva dagli altri» (G. Sabato, 85-86).
È quanto testimoniano anche il celebre esperimento che Stanley Milgram condusse nel 1963 -a partire dal caso Eichmann- e che trasformò dei semplici volontari in aguzzini di altre persone soltanto perché qualcuno in camice bianco ordinava loro di trasmettere delle scariche elettriche “in nome della scienza”. (D. Ovadia, 66 e sgg.).
Lo testimonia la persistenza di una pratica come la vivisezione, ormai tenuta in piedi soltanto per ragioni finanziarie e non scientifiche, tanto che persino Steven Hyman, già direttore del National Institut of Mental Health (NIMH) e ora docente ad Harward, sostiene che «i ricercatori e le autorità dovranno trovare il coraggio di saltare la sperimentazione animale, che rischia di essere fuorviante» (intervista di G. Sabato, 39). Che si tratti di una pratica tanto feroce quanto insensata è dimostrato da un “esperimento” di questo genere: «Come modello della depressione si prendono topi appesi per la coda o messi in un recipiente d’acqua e si misura quanto tempo impiegano a smettere di dimenarsi, segno che ormai sono “disperati”. Ovviamente il test non riproduce le tante manifestazioni e meccanismi biologici della depressione. Ma l’imipramina, uno dei primi antidepressivi, prolunga il tempo per cui i topi lottano, e questa capacità di “contrastare la disperazione” è presa a segno dell’efficacia. […] Questi studi non hanno aggiunto nulla alla comprensione della patologia depressiva. In questo caso del resto neanche la biologia del fenomeno è rispecchiata: i test nei roditori individuano composti che agiscono dopo un’unica somministrazione, mentre l’umore dei depressi migliora solo dopo settimane d’uso» (36).
Ci sono tanti modi di essere ignoranti ma gli effetti sono sempre criminali. Su questo Socrate aveva ragione.

Leggere

Il numero 27 di Alfabeta2 (marzo 2013) dedica alcuni articoli alla lettura. In particolare ai rapporti del Libro con la Rete e alla questione tradizione/innovazione. Socrate criticava -nel Fedro- il nuovo strumento rappresentato allora dal testo scritto rispetto alla trasmissione orale. Il capovolgimento si esprime anche nel paradosso per il quale gli eBook reader rendono ora di nuovo possibile la lettura a scorrimento -dall’alto in basso- che era tipica del volumen antico, prima che fosse inventato il libro rilegato e diviso in pagine. E la continua distrazione che la Rete favorisce? E il forsennato multitasking al quale siamo indotti, visto che leggere un libro avendo davanti un computer acceso significa aprire continuamente pagine (della Rete), ricevere delle mail, chattare? Tutto questo descrive un mondo di rischi e di possibilità rispetto al quale il libro -il libro stampato- rimane un oggetto perfetto perché non ulteriormente migliorabile in vista del suo scopo, come una forchetta.
Ho letto di recente dei ponderosi volumi in pdf e l‘esperienza è nella sua sostanza assai simile a quella della lettura di un libro stampato. Solo che non potevo toccarlo, scriverci sopra, portarlo davvero con me. Rispetto a un pdf il libro vince. E pareggia invece nei confronti di un eBook, poiché quest’ultimo è altra cosa, rappresenta una modalità diversa di ricevere informazioni, apprendere concetti, elaborare idee.
Perché dunque vedere un aut aut dove si può scorgere un et et? Il reperimento immediato e veloce di notizie  dalla Rete -che poi vanno filtrate in modo critico, naturalmente- è uno straordinario strumento di supporto alla lettura lenta, ripetuta, profonda. È questa lettura che ci rende umani.
Maryanne Wolf -che ha scritto un libro dal titolo Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge– osserva che «poche invenzioni hanno fatto più della lettura, in termini di progresso della nostra specie. Strutturalmente il nostro cervello non è molto diverso da quello degli uomini prealfabetizzati di milioni di anni fa. Tuttavia i diversi sistemi di scrittura e, di conseguenza, la lettura hanno creato uno spartiacque, comprovando che il nostro cervello ha un’attitudine innata a riorganizzarsi per svolgere nuove funzioni (la lettura, appunto)». E -andando al cuore della questione- continua affermando che «la lettura, già lo aveva capito Marcel Proust, apre un tempo oltre il tempo. La lettura è, precisamente, il tempo del pensare oltre. […] Per questo, anziché rivolgerci a quel surplus informativo che ci rende terribilmente soli nel cuore di una folla e finisce col soffocare ogni capacità di lettura, dovremmo con lo stesso Proust ricordare che leggere, forse, “nella sua essenza originaria” altro non è che il “fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo di una solitudine”» (Alfabeta2, 27, p. 22).
Leggere significa, come ancora Proust ci suggerisce, dialogare con noi stessi prima che con l’autore del libro; significa legare nel profondo il tempo che noi siamo con quello -non importa quanto distante- nel quale vennero pensate le parole che ora incontriamo; significa aver trovato la chiave universale che apre gli spazi sconfinati del sapere. «Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane» (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [1632], Einaudi, 1982, Dialogo I, p. 130).

À l’ombre des jeunes filles en fleurs

All’ombra delle fanciulle in fiore
di Marcel Proust
(À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919)
Trad. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XX- 604

L’adolescenza, «quell’adolescenza che –come scrive Proust in una variante- pur restringendosi, riducendosi ad un esile filo d’acqua spesso asciutto, si prolunga tuttavia talvolta per tutto il corso della vita» (pag. 563), è uno dei temi che percorre il secondo volume della Recherche.
Il Narratore adolescente si introduce alla vita di società, ai salotti mondani, ai “bagni di mare”, ai primi amori, alla solitudine profonda della sua natura, una solitudine tanto naturale quanto necessaria:

Nello stare in sua compagnia, nel conversare con lui non provavo –e, certo, sarebbe stato lo stesso con chiunque altro- nulla di quella felicità che mi era invece possibile raggiungere quando ero senza compagno (336) 1

Ma, in mancanza di una compagnia sopportabile, [Elstir] viveva nell’isolamento, con una selvatichezza che le persone della società chiamavano posa e cattiva educazione, i poteri pubblici spirito di contraddizione, i suoi vicini follia, la sua famiglia egoismo ed orgoglio (431) 2

Noi non siamo simili a costruzioni cui si possano aggiungere pietre dall’esterno, ma a piante che traggono dalla loro propria linfa il nodo successivo del loro fusto, il piano superiore del loro fogliame (512) 3

E, sempre a proposito del pittore Elstir, «la pratica della solitudine gliene aveva dato l’amore» (431) 4 . Anche l’apertura al mondo misterioso, dolce e terribile dei sentimenti è pervasa di un profondo costruzionismo gnoseologico ed esistenziale: «Quell’Albertine era soltanto una sagoma; tutto quel che vi si era sovrapposto era opera mia» (462) 5 ; «Certamente pochi capiscono il carattere puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore, e com’esso sia una specie di creazione d’una persona supplementare, distinta da quella che porta lo stesso nome in società, una persona di cui la maggior parte degli elementi sono opera nostra» (45) 6

Quando siamo innamorati di una donna proiettiamo semplicemente in lei uno stato della nostra anima; di conseguenza, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità dello stato d’animo; e le emozioni che una ragazza mediocre ci dà possono permetterci di far risalire alla nostra coscienza parti più intime di noi stessi, più personali, più lontane, più essenziali, di quanto non farebbe il piacere che ci dà la conversazione di un uomo superiore o anche la contemplazione ammirata delle sue opere (436) 7

Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce di quanto fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi (196) 8

In Proust una saggezza immensa svela gli enigmi, le meschinità, lo splendore della società umana, i suoi meccanismi più nascosti, i dolori e le speranze più potenti.
E mentre Odette de Crécy, ormai diventata Madame Swann, così incede nello spazio della pagina e del mondo: «Non meno che dall’apice della sua nobile ricchezza, era dal glorioso colmo della sua estate matura ed ancora così saporita che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, inoltrandosi lungo l’avenue del Bois, vedeva, come Ipazia, sotto il lento incedere dei suoi piedi, volgersi i mondi» (229) 9,  “la petit brigade des jeunes filles en fleurs” sboccia di una vita indeterminata e collettiva, voluttuosa e sorridente, sensuale e candida.

Note

1. «Je n’éprouvais à me trouver, à causer avec lui -et sans doute c’eût été de même avec tout autre- rien de ce bonheur qu’il m’était au contraire possible de ressentir quand j’étais sans compagnon» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 582).

2. «Mais faute d’une société supportable, il vivait dans un isolement, avec une sauvagerie que les gens du monde appellaient de la pose et de la mauvaise éducation, les pouvoirs publics un mauvais esprit, ses voisins de la folie, sa famille de l’égoïsme et de l’orgueil» (p. 651).

3. «Nous ne sommes pas comme des bâtiments â qui on peut ajouter des pierres du dehors, mais comme des arbres qui tirent de leur propre sève le nœud suivant de leur tige, l’étage supérieur de leur frondaison» (p. 710).

4. «La pratique de la solitude lui en avait donné l’amour» (p. 651)

5. «Cette Albertine-là n’était guère qu’une silhouette, tout ce qui s’y était superposé était de mon cru» (p. 674)

6. «Sans doute peu de personnes comprennent le caractère purement subjectif du phénomène qu’est l’amour, et la sort de création que c’est d’une personne supplémentaire, distincte de celle qui porte le même nom dans le monde, et dont la plupart des élements sont tirés de nous-même» (p. 375)

7. «Je m’étais mieux rendu compte depuis, qu’en étant amoureux d’une femme nous projetons simplement en elle un état de notre âme; que par conséquent l’important n’est pas la valeur de la femme mais la profondeur de l’état; et que les émotions qu’une jeune fille médiocre nous donne peuvent nous permettre de faire monter à notre conscience des parties plus intimes de nous-même, plus personelles, plus lointaines, plus essentielles, que ne ferait le plaisir que nous donne la conversation d’un hommes supérieur ou même la contemplation admirative de ses œuvres» (p. 655).

8. «Quand on aime, l’amour est trop grand pour pouvoir être contenu tout entier en nous; il irradie vers la personne aimée, rencontre en elle une surface qui l’arrête, le force à revenir vers son point de départ et c’est ce choc en retour de notre propre tendresse que nous appelons les sentiments de l’autre et qui nous charme plus qu’à l’aller, parce que nous ne reconnaissons pas qu’elle vient de nous» (pp. 482-483).

9. «Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (p. 506).

Du côté de chez Swann

La strada di Swann
di Marcel Proust
(Du côté de chez Swann, 1913)
Trad. di Natalia Ginzburg
Einaudi, 1978 (1964)
Pagine LXXIX- 491

Il massiccio edificio del reale si sgretola nella luce di una prosa, di un linguaggio, di un ritmo narrativo che è aurora e insieme è l’imbrunire. Ricchezza sempre eguale e sempre nuova di paesaggi, sfumature, ombre, amori, infanzie, viaggi. L’affresco di un’aristocrazia che è tale non soltanto per il ceto. Dipinti, scritti, sonate che diventano il tessuto dei giorni. La passione di Charles Swann per Odette de Crécy come archetipo di ogni innamorarsi.

Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia, fa della nostra vita come una commovente distesa in cui sarà più o meno vicino a noi. (p. 251)
[Les êtres nous sont d’habitude si indifférents que, quand nous avons mis dans l’un d’eux de telles possibilités de souffrance et de joie pour nous, il nous semble appartenir à un autre univers, il s’entoure de poésie, il fait de notre vie comme un étendue émouvante où il sera plus ou moins rapproché de nous. (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 194) ]

Innamorarsi significa vivere una meraviglia e un incanto senza pari, che hanno poco a che fare con la natura reale dell’Altro. Reale? Tutto avviene nella mente e quindi tutto è in qualche modo vero. È ben poco esperto di umanità chi, come la signora di Saint-Euverte, compatisce Swann -uomo molto intelligente- per essere tanto preso da «una persona di quel genere e che non è nemmeno interessante, poiché dicono sia idiota, -soggiunse con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che un uomo d’ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne mettesse conto; all’incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del colera per opera d’un essere così piccolo come il bacillo virgola» (p. 363) [« “Je trouve ridicule au fond qu’un homme de son intelligence souffre pour une personne de ce genre et qui n’est même pas intéressante, car on la dit idiote”, ajouta-t-elle avec la sagesse des gens non amoureux qui trouvent qu’un homme d’esprit ne devrait être malheureux que pour une personne qui en valût la peine; c’est à peu près comme s’étonner qu’on daigne souffrir du choléra par le fait d’un être aussi petit que le bacille virgule» (Gallimard, pp. 275-276) ]

Germinazione, nascita, declino di vite e di storie, di eventi e di sogni, in uno sforzo immane di evocazione che ricrea il mondo. La Recherche, questa grande fenomenologia della vita, ha il suo nucleo pulsante nella dinamica di identità e differenza tra il passato e il presente, fra ciò che non è più e ciò che rimane ancora poiché tutto in realtà accade dentro di noi. Un umano è vivo sino a che altri restituiscono linfa alla sua persona, la linfa potente del ricordo.

Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto son prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all’albero, che veniamo in possesso dell’oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi. (p. 49)
[Je trouve très raisonnable la croyance celtique que les âmes de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque être inférieur, dans une bête, un végétal, une chose inanimée, perdues en effet pour nous jusqu’au jour, qui pour beaucoup ne vient jamais, où nous nous trouvons passer près de l’arbre, entrer en possession de l’objet qui est leur prison. Alors elles tressaillent, nous appellent, et sitôt que nous les avons reconnues, l’enchantement est brisé. Délivrées par nous, elles ont vaincu la mort et reviennent vivre avec nous. (Gallimard, p. 44) ]

La memoria, immensa, ricostruisce la vita, la parola, il senso enigmatico della favola umana, in una fisicità intrisa di luce:

Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo. (p. 52)
[Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir. (Gallimard, p. 46) ]

La realtà non è il pratico e banale susseguirsi di istanti smarriti nel momento stesso in cui la vita fugge. La realtà è la scrittura che nell’infinito intrattenimento della memoria fonda l’esistere e il suo significato.

Alla ricerca

C’era una volta in Anatolia
(Bir zamanlar Anadolùda)
di Nuri Bilge Ceylan
Con: Yilmaz Erdogan (Commissario Naci), Taner Birsel (Procuratore Nussret), Muhammet Uzuner (Dottor Cemal), Firat Tanis (Sospettato Kenan)
Turchia, 2011
Trailer del film

 

Una strada sterrata fra le alture dell’Anatolia. Dal silenzio della notte emergono le luci di alcune auto. Dentro ci sono un commissario di polizia, un giudice, un medico, due sospettati e alcuni militari. Cercano il luogo nel quale è stato nascosto un cadavere. Gli assassini non ricordano, sono confusi, non trovano. Di collina in collina, si arriva a un piccolo villaggio dove si riposano. La ricerca riprende. Frammenti di motivazioni da parte del presunto colpevole accompagnano il ritrovamento della vittima. Nell’ospedale della città l’autopsia svela altri segreti, insieme al pianto sommesso e dignitoso della giovane vedova.

La notte accompagna la solitudine di questi uomini alla ricerca della propria vita, dei mali, della morte. Ciascuno ha un dolore, ciascuno ha un segreto. L’assassino è un colpevole tra i tanti, che ha assunto su di sé i peccati di altri, come il suo aspetto cristologico conferma. Primi piani assai intensi. Profili dentro onde di luce. Silenzi eloquenti dentro parole che non dicono niente. Metafore enunciate tra una curva e l’altra. Il momento della grazia è l’apparire durante la cena di una ragazza bellissima e silenziosa che offre da bere a questi uomini rassegnati, allo stesso modo in cui per il Narratore della Recherche l’apparire della figlia di Gilberte Swann e di Robert de Saint-Loup rappresenta una promessa di redenzione. Nel fuoco della lampada che fa splendere il volto della ragazza sembra infatti rilucere una speranza. Ma «le donne a volte sono molto crudeli».
La prima ora e mezza del film è girata tutta nella notte. Ombre e luci vengono esaltate da una fotografia magnifica e saggia. All’arrivo del giorno e della città l’enigma e l’incanto si stemperano un poco ma nulla tolgono alla bellezza profonda di un film interiore e insieme immerso nei luoghi e nell’andare. Alla ricerca.

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