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La mente amorosa

Bellerofonte Castaldi
«O crudel Amor»
Laura Fabris – Ensemble ‘Il Furioso’

[audio:Bellerofonte_Castaldi_O_ crudel_amor.mp3]

«Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait souffrir?» (M. Proust, Sodome et Gomorrhe, in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1673)
Ritorno su questo tema -affrontato qui altre volte- anche sollecitato dalla lezione che ho tenuto ieri ai  giovani artisti e attentissimi allievi del Maestro D’Ascola al Conservatorio di Milano. L’amore dunque nascerebbe dalla menzogna e consisterebbe nel bisogno di vedere le nostre ferite curate proprio da chi le ha inferte. Paradossi? No, naturalmente. Esatta fenomenologia del sentimento, piuttosto. Che si tratti di esperienze universali lo mostra anche la consonanza tra Proust e il poeta/compositore Bellerofonte Castaldi (1580-1649) il quale si rivolge al crudele dio d’amore chiedendogli di volgere «lo sguardo  / a costei ch’ogn’or m’ancide, / per cui mi struggo & ardo / mentre del mio mal si ride»; ricorda poi al dio l’ipocrisia della donna, che «con faccia pietosa / ma con mente nera, / sta ver me sempre orgogliosa. // Con finto riso / mostra ogn’hor di darsi vinta, porgendo il Paradiso / con la sua pietà dipinta». Alla «dipinta» e cioè fasulla e apparente pietà dell’amata si contrappone la densa realtà del «crudo inferno di dolor» nel quale l’innamorato si sente precipitare. Un inferno che consiste esattamente nel «monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge».
Naturalmente non si tratta qui di banale strategia amorosa, di psicologiche bugie. Si tratta del fatto che «nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale, che può essere raggiunto soltanto con la completa identificazione di oggetto e soggetto. L’impenetrabilità della più volgare e insignificante creatura umana non è semplicemente un’illusione della gelosia del soggetto […]. Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità», impermeabilità che contribuisce in modo determinante alla trasformazione di ogni istante della vita «in un veleno che esaspera il suo amore o il suo odio o la sua gelosia (termini, questi, intercambiabili) e corrode il suo cuore» (S. Beckett, Proust, SE, 2004, pp. 41-42).
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che non potrà mai conseguire alcuna certezza poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
Ed è questo che la splendida voce del soprano Laura Fabris ci racconta in un brano dolce e struggente come può essere la nostalgia del paradiso perduto.

 

Sodome et Gomorrhe

Sodoma e Gomorra
di Marcel Proust
(Sodome et Gomorrhe, 1921-22)
Trad. di Elena Giolitti
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 631

 

Proust-Sodoma_e_GomorraDalla lucida descrizione della “stirpe” di Sodoma e Gomorra alla sofferenza di vederne discendere Albertine, si compie la fase di vita del Narratore prima della drammatica rivelazione che muterà  la sua esistenza. Dentro questo tempo la mondanità si rivela sempre più superficiale e insulsa decadendo, tra l’altro, dai Guermantes di Parigi alla «setta» dei Verdurin alla Raspelière.
Se la protagonista dei timori del Narratore è Albertine, dall’altro lato della stirpe maledetta trionfa nel suo fascino complesso e profondo la figura del Barone di Charlus, il capolavoro di Proust, una scultura fatta di intelligenza e di lussuria, di smisurato orgoglio e di affettuosa umiltà, di malvagità e di cortesia.
Il Desiderio mostra come l’Altro sia sempre un essere di fuga, poiché il destino di chi ama è «quello d’inseguire solo fantasmi, esseri la cui realtà per buona parte dimorava nella mia fantasia; vi sono infatti esseri [che] rinunciano a tutto il resto, mettono tutto in opera, si servono d’ogni cosa per incontrare un fantasma»1, desiderio che è parte e forma della potenza stessa della Natura, dell’energia eternamente ritornante del «querulo avo della terra», il mare, «che proseguiva ancora, come nel tempo in cui non esistevano esseri viventi, il suo demente e immemore tumulto»2 (pag. 439).
Il quarto volume della Recherche si chiude con il presentimento tragico e fatale di inaudite sofferenze future ma anche con la percezione di una nuova vita, che sarà dedicata all’Adoration perpétuelle, al Tempo. Il giorno in cui ha scoperto l’omosessualità e quindi la distanza della sua donna, precipitato nel gorgo della peggiore forma di gelosia, quella retrospettiva, il Narratore scrive:

Com’è ingannevole il senso della vista! Un corpo umano, anche amato, com’era quello di Albertine, ci sembra, a pochi metri, a pochi centimetri di distanza, lontano da noi. Ed egualmente l’anima che gli appartiene […]. Mai non avevo veduto cominciare una mattina così bella, né così dolorosa. Pensando a tutti i paesaggi indifferenti che si sarebbero illuminati tra poco, e che il giorno prima ancora non mi avrebbero colmato che del desiderio di visitarli, non potei trattenere un singhiozzo quando, in un gesto d’offertorio meccanicamente compiuto e che mi parve simboleggiare il sacrificio sanguinante ch’io stesso stavo per fare d’ogni gioia, ogni mattina, fino al termine della mia vita, rinnovellamento celebrato solennemente ad ogni aurora del mio dolore quotidiano e del sangue della mia piaga, l’uovo d’oro del sole, come propulsato dalla rottura d’equilibrio determinata al momento della coagulazione da un cambiamento di densità, dentato di fiamme come nei quadri, squarciò d’un balzo la cortina dietro la quale lo si sentiva, da un minuto, fremente e pronto ad entrare in scena e a slanciarsi avanti, e di cui si dissolse sotto fiotti di luce la porpora misteriosa e rappresa.3 (561-562)

È qui, nel nucleo geometrico dell’opera, che Proust disvela in modo impareggiabile ed esatto l’essenza dell’amore, la struttura del desiderio, la natura sacra e ironica delle passioni, l’illusione suprema che ci spinge verso l’Altro:

Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro. […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle. […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero. 4 (560-561)

In ogni caso l’amore è «un sentimento che (qualunque ne sia la causa) è sempre erroneo».5 (214)


Note

1.«de ne poursuivre que des fantômes, des êtres dont la réalité pour une bonne part était dans mon imagination»» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1517)

2. «plaintive aïeule de la terre, poursuivante comme au temps qu’il n’existait pas encore d’êtres vivants sa démente et immémoriale agitation» (Ivi)

3. «Comme la vue est un sense trompeur! Un corps humain, même aimé comme était celui d’Albertine, nous semble à quelques mètres, à quelques centimètres distant de nous. Et l’âme qui est à lui de même. […] Je n’avais jamais vu commencer une matinée si belle ni si douloureuse. En pensant à tous les paysages indifférents qui allaient s’illuminer et qui la veille encore ne m’eussent rempli que du désir de les visiter, je ne pus retenir un sanglot quand, dans un geste d’offertoire mécaniquement accompli et qui me parut symboliser le sanglant sacrifice que j’allais avoir à faire de toute joie, chaque matin, jusqu’à la fin de ma vie, renouvellement solennellemente célébré à chaque aurore de mon chagrin quotidien et du sang de ma plaie, l’œuf d’or du soleil, comme propulsé par la rupture d’équilibre qu’amènerait au moment de la coagulation un changement de densité, barbelé de flammes comme dans le tableaux, creva d’un bond le rideau derrière lequel on le sentait depuis un moment frémissant et prêt à entrer en scène et à s’elancer, et dont il effaça sous des flots de lumière la pourpre mystérieuse er figée» (1602-1603)

4. «J’incline même à croire que dans ces amours (je mets de côté le plaisir physique qui les accompagne d’ailleurs habituellement, mais ne suffit pas à les constituer), sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif» (1602)

5. «L’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (1358)

 

Pensieri, parole, memorie

Mente & cervello 105 – settembre 2013

Ha poco senso subordinare il linguaggio al pensiero o viceversa. Ha poco senso perché entrambi sono la manifestazione privata e pubblica, interiore e oggettiva, della potenza semantica che caratterizza la nostra specie. Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi che compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Ha quindi ragione Charles Fernyhough a ritenere che il pensiero sia «fatto di parole tanto che i bambini prima di imparare a parlare non hanno veri e propri pensieri» (cfr. R. Fulci, p. 21). Il pensare  è un fatto intrinsecamente linguistico, che produce sia le percezioni sia la memoria. Lo dimostra anche il celebre esperimento del “gorilla invisibile” che passa in mezzo a dei giocatori di basket e che pochi spettatori vedono, poiché «le nostre intenzioni, i bisogni e le aspettative influenzano ciò che percepiamo. […] Il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere» (D. Ovadia, 81-83). Non esiste insomma alcuna «immacolata percezione», per ricordare la battuta di Robert Kaplan, nonostante l’imperversare mediatico di realismi vecchi e nuovi.

Per un continuista come me è sempre una soddisfazione trovare conferme ai nessi profondi tra l’animale umano e gli altri. In questo numero di Mente & cervello ce ne sono due piuttosto significative, che riguardano entrambe la memoria, persino quella “involontaria” analizzata da Bergson e Proust. Scimpanzé e orangutan sembrano in grado di «ricordare immediatamente in quale scatola cercare uno strumento visto in un’unica occasione, un’esperienza ripetuta solo quattro volte e vissuta tre anni prima» Davvero «l’elenco delle straordinarie affinità con i nostri cugini primati continua ad allungarsi» (E. Melotti, 22). Se i primati sono filogeneticamente vicinissimi all’Homo sapiens, non altrettanto si può dire della planaria, un piccolo verme piatto del quale è nota da tempo la capacità di rigenerare la propria testa dopo che essa è stata tagliata, «il bello è che l’individuo con la testa nuova ricorderà le nozioni imparate prima della ghigliottina» (R. Fulci, 23). Il biologo Michael Levin, che insieme ad altri colleghi ha verificato questa capacità, afferma che «una cosa è certa: abbiamo dimostrato lo straordinario fatto che la memoria sembra essere conservata da qualche parte al di fuori del cervello» (cit. da Fulci, 23).
Gli studi di Antonio Damasio, e in generale la filosofia della mente, sanno che a pensare è l’intero organismo. La mente dipende dalle interazioni tra il cervello e il corpo e quindi è dall’intero corpo che essa scaturisce e non soltanto da un suo specifico organo. La mente, in altri termini, è pienamente e integralmente embodied, incorporata, e non costituisce solo una funzione del cervello. Di questa mentememoria corporea Nietzsche era del tutto consapevole:

Non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio della gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi. Vi sono onde condensate di eccitazione, quando questa vita ulteriore penetra nella coscienza, quando cioè ci ricordiamo di qualcosa.
(Frammenti postumi 1879-1881, in «Opere» Adelphi, vol. V/1, fr. 2 [68], p. 301)

 

Nord

Nord
(Gallimard, 1959)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Nord, pp. 293-683)

 

Zornhof è il luogo a cento chilometri a nord di Berlino dove il narratore viene confinato dopo aver girovagato da un castello all’altro. Ancor più che a Sigmaringen, la putrefazione del regime nazionalsocialista è qui evidente. Lo è al modo di un teatro di marionette nel quale tutti -feudatari prussiani, matrone russe, prigionieri politici, militari tedeschi, zingari, profughi- recitano la propria parte di folli in un mondo estremo, il mondo nel quale «la ragione è morta nel ’14, novembre ’14…dopo è finito, tutto scazza…» (pag. 443).
In questo mondo di pazzi la lucidità di Cèline è stupefacente. Lucidità su se stesso, sulla «magia della sua povera persona, così gratuita» e capace d’essere riuscita «in questa acrobazia che si trovano tutti d’accordo, un attimo, destra, sinistra, centro, sagrestie, logge, cellule, carnai, il conte di Parigi, Joséphine, mia zia Odile, Krukrubezev, l’abate Tiralira, che [io] sono la più gran sozzeria vivente» (469 e 599).
L’inquietudine che non gli fa godere l’istante è stata presa per inaffidabile cattiveria. L’innata curiosità che gli farebbe «scalare la torre Eiffel con i miei due bastoni» «per imparare anche una piccola cosa, una sciocchezza» (548) è scambiata per cinismo. L’anarchismo -«anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!» (383)- è diventato immoralità. Ma è che «tutti i vinti son spazzatura!…lo so…eccome…» (303).
E tuttavia questo sconfitto della storia ha saputo persino profetizzare il futuro dell’Europa fatto di moneta  unica, di pensiero unico: «Berlino, Parigi, un’ora appena! […] il progresso di domani! dopo la guerra!…una sola moneta e l’aereo! un’ora!… piú passaporti!» (458-459). Questo sconfitto dalla passione ha descritto il patetico dell’umano e dell’amore come solo Proust ha saputo fare:

Ma i «figami» non sono solo corpi!… zotico! sono «compagne»! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…(463)

Tutti cerchiamo di elemosinare un sorriso dentro «sta troia merda di esistenza…» (444). C’è chi per carattere e per storia ha imparato a pensare soltanto a sé, e sono la più parte -«quando la gente si preoccupa di te è a loro che pensano» (622)- e c’è chi commette l’errore che anche Proust aveva compreso quando afferma che «le due massime cause d’errore nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta» (La fuggitiva, Einaudi 1978, p. 121). Anche Céline pensa che «il crimine, umanamente parlando, l’imperdonabile errore: pensare agli altri!…Prudenza, Egoismo fanno una coppia perfetta, schifosa, merdosa, ma così compatta; adorabile, solida!» (520). Non è forse vero, ad esempio, che bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore? Quante persone conosci, lettore, capaci di tale rispetto?
Ma nonostante la nostra specie che «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» (517), nonostante la storia e la ferocia degli umani «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…» (409).
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…» (479). La più parte degli umani è cieca alla luce. E forse soltanto il bagliore immenso di una catastrofe tecnologica e bellica potrà aprirle gli occhi.
Tutto questo può fare a meno del contesto in cui Nord si svolge. Al di là della storia, al di là della contingenza e dell’ora di un momento -che sia il 1944 o altro- la parola di Céline è al sempre che guarda, è il sempre che coglie.

 

I sentimenti umani

Passioni e desideri
(360°)
di Fernando Meirelles
Sceneggiatura di Peter Morgan
Con: Katrina Vasilieva, Marianne Jean-Baptist, Anthony Hopkins, Ben Foster, Rachel Weisz, Jude Law, Jamel Debbouze, Dinara Drukanova, Mark Ivanir, Moritz Bleibtreu, Maria Flor
Gran Bretagna, Francia, Austria, Brasile 2011
Trailer del film

Il titolo originale è 360°. Un girotondo nello spazio e nei sentimenti umani, ispirato appunto al Reigen di Arthur Schnitzler. Le vicende narrate si svolgono a Vienna, Bratislava, Londra, Parigi, Denver, Phoenix, Rio. Donne e uomini che si incontrano, si amano, si lasciano, si cercano, si perdono. Gli incroci tra queste storie sono meno importanti degli accenni alla passionalità di ciascuno, al bisogno profondo di avere qualcuno da cullare, da possedere, da cui essere accarezzati e voluti. Nonostante i finali lieti che concludono gran parte di queste vicende, la sensazione è che abbia ragione Marcel Proust quando definisce l’amore come un «sentimento che (qualunque ne sia la causa) è sempre erroneo» (Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, p. 214). Se, infatti, alcuni dei personaggi riacquistano la pace con se stessi è perché altri sono stati sacrificati sull’altare del carattere, delle convinzioni, delle paure, delle debolezze e del passato di chi li ha abbandonati. Qualcuno, insomma, paga. Sempre. Apprezzabile è il fatto che non ci sono in questo film “buoni” e “cattivi” ma persone che cercano di stare al mondo con maggiore o minore tenacia.
Opera elegante e scritta con abilità ma fragile, ispirata ad altre assai più corpose come Babel di Iñárritu e Eyes Wide Shut di Kubrick.

 

Le côté de Guermantes

I Guermantes
di Marcel Proust
(Le côté de Guermantes, 1920-21)
Trad. di Mario Bonfantini
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 686

Nella Recherche il mondo aristocratico è vissuto dapprima nella esaltazione poetica di antichi nomi, di storie nascoste, di mitologiche origini, di sogni e vite inarrivabili. Poi viene penetrato dal calmo e implacabile disincanto del Narratore: «Così l’aristocrazia, in quella sua costruzione pesante, dalle rade finestre che lasciano entrar poca luce, mostra la stessa mancanza di slancio, ma anche la stessa potenza cieca e massiccia, dell’architettura romanica: rinchiude tutta la storia, la mura in sé, la mortifica» (pag. 581) 1 . Il duca di Guermantes, «uomo di gentilezza commovente e di durezza ripugnante, schiavo dei più piccoli obblighi mondani e indifferente ai più sacri doveri morali» (473) 2, dà molta più importanza a una serata in società che alla malattia e alla morte dei suoi amici.
Anche il barone di Charlus –il personaggio più riuscito dell’Opera, una scultura- nonostante il suo «immenso orgoglio» (603) 3 vive un bisogno struggente degli altri, dello stare con loro, «aveva l’aria di temere il momento in cui l’avrei lasciato solo: quella sorta di timore un po’ ansioso cui la sua cognata e cugina Guermantes m’era sembrata in preda un’ora prima, quando aveva voluto obbligarmi a restare ancora un po’, quasi con la stessa passeggera inclinazione per me, con lo stesso sforzo per far durare di più l’attimo» (606) 4. E la duchessa Oriane de Guermantes, la “dea” dall’esistenza misteriosa e inaccessibile, è oggetto di una parabola che parte dalla devota ammirazione e dall’amore del Narratore e giunge a una limpida condanna: «Fui disgustato dalla vera malvagità della signora di Guermantes» (556) 5. Questi individui vengono descritti come un bestiario favoloso e variegato dentro il quale spira gelido il vento della menzogna e, infine, della delusione più fonda: «Per risvegliare la mia vita interiore durante quelle ore mondane, in cui io abitavo la mia epidermide […] quanto dire che ero incapace di provare ciò che era per me il vero piacere della vita» 6 (570).
Molto altro si legge nei Guermantes. L’identità tra l’amare e il soffrire, la fecondità dei superamenti, la pervasività del sentimento, la totalità della mente, che è in qualche modo l’intero: «Gli sciocchi si immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni» (357) 7.
E, infine e come sempre nell’Opera, la bellezza, la bellezza assoluta di una sera veneziana dipinta come solo un Signore della parola –quale è Proust- sa fare: «Così più tardi a Venezia, molto dopo il tramonto del sole, quando sembra che sia notte completa, vidi, grazie all’eco in sé invisibile d’una ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali come per effetto di qualche pedale ottico, il riflesso dei palazzi stampato come per sempre in un velluto più nero, sul grigio crepuscolare delle acque» (154) 8.

Note

1.«Telle l’aristocratie en sa construction lourde, percée de rares fenêtres, laissante entrer peu de jour, montrant le même manque d’envolée, mais aussi la même puissance massive et aveuglée que l’architecture romane, enferme toute l’histoire, l’emmure, la renfrogne» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1158)

2. «homme attendrissant de gentillesse et révoltant de dureté, esclave des plus petites obligations et délié des pactes les plus sacrés» (1082)

3. «immense orgueil» (1173)

4. «Il avait même l’air de redouter l’instant de me quitter et de se retrouver seul, cette espèce de crainte un peu anxieuse que sa belle-sœur et cousine Guermantes m’avait paru éprouver, il y avait une heure, quand elle avait voulu me forcer à rester encore un peu, avec une espèce de même goût passager pour moi, de même effort pour faire prolonger une minute» (1175-1176)

5. «Mais ce fut par la véritable méchanceté de Mme de Guermantes que je fus révolté» (1141)

6. «Pour que ma vie intérieure pût se réveiller durant ces heures mondaines où j’habitais mon épiderme […] c’est-à-dire où je ne pouvais rien éprouver de ce qui était pour moi, dans la vie, le plaisir» (1150)

7. «Les niais s’imaginent que les grosses dimensions des phénomènes sociaux sont une excellente occasion de pénétrer plus avant dans l’âme humaine; ils devraient au contraire comprendre que c’est en descendant en profondeur dans une individualité qu’ils auraient chance de comprendre ces phénomenès» (1002)

8. «Ainsi plus tard, à Venise, bien après le coucher du soleil, quand il semble qu’il fasse tout à fait nuit, j’ai vu, grâce à l’écho invisible pourtant d’une dernière note de lumière indéfiniment tenue sur les canaux comme par l’effet de quelque pédale optique, les reflets des palais déroulés comme à tout jamais en velours plus noir sur les gris crépusculaire des eaux» (857)

L’oggetto amoroso

Si sono concluse oggi le lezioni del corso di Filosofia della mente dedicate al tentativo di elaborare insieme agli studenti e con l’aiuto di Meinong, Husserl, Paci, Beckett, Proust, Barthes, una teoria dell’oggetto amoroso.
Ringrazio qui pubblicamente gli studenti che hanno seguìto le lezioni con un’attenzione profonda, che si è spesso manifestata anche attraverso interrogativi e contributi sempre pertinenti e capaci di aprire nuovi itinerari alla comune riflessione.
L’oggetto amoroso è una utopia temporale, è  la volontà di possedere l’altro in ogni suo stare e muoversi nello spazio e nel tempo, rinchiudendolo nel sempre, penetrando in ogni suo labirinto e sciogliendo il frattale che è l’alterità in una retta sempre a disposizione del nostro sguardo.
L’oggetto amoroso è un oggetto linguistico prodotto dalla parola con la quale l’innamorato narra a se stesso il proprio desiderio sempre uguale e sempre rinnovato. Una delle principali figure retoriche dell’amore è la tautologia: “Ti amo perché ti amo”.
Nel contrappunto doloroso ed esaltante del sentimento, l’oggetto amoroso rimane un enigma. Ma esso è anche un oggetto innocente poiché è l’innamorato a dargli la potenza che lo caratterizza. Esso non ha colpe. L’esperienza d’amore è infatti anche un dramma ermeneutico, nel quale ci infliggiamo da soli delle torture che attribuiamo all’altro.
L’oggetto amoroso è sempre raggiunto e sempre desiderato poiché è un oggetto semantico, una pienezza di significati nella quale si cede tutto di se stessi. È una “cosa mentale”, come Leonardo dice della pittura. È un oggetto iconico, un’immagine costruita dal corpomente. Immagine che si installa come pienezza del tempo, come inquietudine di un’attesa che in realtà non avrà mai fine. La struttura iconica e mentale dell’Altro diventa la cosa stessa poiché il soggetto amoroso è un soggetto creatore. Anche nei momenti più appassionati, dolci e sereni l’Altro rimane una nostra invenzione, è l’entità che ci concilia con la morte e dunque con noi stessi. Anche per questo l’esperienza d’amore è così esaltante. Poter trasformare la tragedia ermeneutica nella pienezza dell’istante –Kairós– è la ragione per la quale torniamo sempre a innamorarci.
Abbiamo compreso la verità delle parole di Ruysbroeck: in quell’esperienza totale ci ubriachiamo di un vino che non abbiamo mai bevuto e che mai berremo.

[È possibile ascoltare una di queste lezioni sull’amore]

 

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