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Il tempo in un arazzo

Storia di un arazzo
POLLICE VERSO
Arte e industria nella Milano di fine Ottocento
A cura di Fausta Squatriti
Nardini Editore, 2015
Pagine 192

Un libro dedicato a un finto arazzo -esattamente un telo figurato- costruito con telaio Jacquard nel 1898, sulla base di una xilografia pubblicata nel 1874 su un numero dell’Illustrazione universale. Xilografia che riproduceva il dipinto di un artista totalmente avverso alle avanguardie nascenti, Jean-Léon Jérôme (1824-1904), il quale nel 1872 raffigurò La morte del gladiatore, poi universalmente noto con il titolo di >Pollice verso. Un libro quindi ultraspecialistico, per esperti d’arte ottocentesca e cultori della tecnologia applicata? No, per quanto sorprendente possa apparire, questo libro è altra cosa: è un’enciclopedia. In esso, infatti, convergono prospettive, suggestioni, conoscenze che coniugano saperi assai diversi: estetica, sociologia, storia dell’arte, critica letteraria, narrativa, storia politica, storia della tecnologia, filosofia, storia sociale.

Pollice verso è prima di tutto la storia di una famiglia, la vicenda di patrimoni accumulati con tenacia e dilapidati con leggerezza e incoscienza da personaggi che potrebbero ben apparire in una saga romanzesca come I Buddenbrook, il romanzo nel quale Thomas Mann racconta in quegli stessi anni (1901) l’apogeo e il declino (Verfallen) di una famiglia di agiati commercianti di Lubecca. La vicenda della famiglia Angioletti è ricostruita con grande rigore e vivacità nel contributo di Dario Generali; in essa si alternano e si susseguono figure ben consapevoli della durezza della vita e altre assolutamente velleitarie; personalità solidamente borghesi e avventurieri di vario genere; zie religiosissime e cantanti liriche che vanno a cercar fortuna in Sudamerica; rigorosi imprenditori ed ex prostitute molto attente a rubare la fortuna accumulata dagli altri.

Di questa ascesa e declino degli Angioletti fu ed è simbolo un manufatto, il grande arazzo il cui stesso titolo riflette le ambiguità dei segni e delle vicende umane. Non è infatti del tutto accertato, come chiarisce nel suo saggio Sandro Scarrocchia, se il pollice verso significasse una sentenza di condanna o no. «Si continua a discutere ancora oggi se il gesto indichi verdetto di morte» poiché secondo alcune ipotesi è possibile che i romani «si servissero del pollice chiuso nel pugno, come una spada rinfoderata, per indicare la concessione di grazia e il pollice in alto, che indicherebbe la spada sguainata, per il verdetto di morte e, quindi, se non usassero affatto il pollice in giù, tanto meno per decretare verdetto di morte» (p. 98). Il significato fatale del pollice verso il basso si deve proprio al quadro di Gérôme, un gesto ripreso di continuo nell’immaginario artistico e cinematografico sino, ad esempio, al film Il Gladiatore di Ridley Scott (2000). Anche per tale ermeneutica di un gesto decisivo -un atto che può significare vita o può decretare morte- si comprende l’importanza di questo libro.

Ma il dipinto e l’arazzo non si limitano a tale gesto. Il gladiatore mirmillone che ha atterrato il gladiatore reziario preme il proprio piede sul collo dello sconfitto, nell’attesa che imperatore e folla stabiliscano la sentenza. Ebbene, «rimaniamo molto colpiti quando anche membri delle forze dell’ordine fanno ricorso ancora oggi a questa posizione di immobilizzazione a terra, enfatizzando il fatto di avere in mano, anzi nei piedi, cioè sotto gli stivali anfibi, la vita altrui, e simboleggiando così la potenza della repressione» (Scarrocchia, p. 95).

Questo insieme di persone, di eventi e di simboli si incarna e diventa figura nell’opera d’arte che Pollice verso è. Opera nella quale modelli greco-romani, forme neoclassiche, inquietudini romantiche sembrano fondersi in un soggetto nel quale l’immaginario storico declina e si estenua, sino a esprimersi anche come sadismo e culto della morte. Una sensibilità che lungo tutto il Novecento sembrava irrimediabilmente finita, sconfitta, oltrepassata e della quale invece -nella sua splendida e avvincente lettura- Fausta Squatriti mostra la particolare vitalità, oggi.

Già quando furono realizzati, sia il quadro sia l’arazzo, l’arte accademica esalava i suoi ultimi respiri e Cézanne stava lavorando a distruggere quel mondo di deliri romantici, di velleitarie buone intenzioni metaforiche, immagini letterarie non sempre di prima qualità, per dare inizio alle avanguardie del Novecento (40).

E tuttavia il postmoderno -vale a dire la trasformazione dei grandi modelli rivoluzionari delle avanguardie moderne in un corpus di citazioni da rileggere di volta in volta alla luce del presente- ha prodotto il singolare ma del tutto comprensibile risultato che<

a distanza di un secolo e mezzo, l’interesse per quel periodo di passaggio è forte, l’innamoramento per le avanguardie, diluite nel loro lento defluire nel vasto estuario del contemporaneo, appare sfumato e tutto diventa citazione, memoria, cultura, ripensamento. […] L’eccesso di artisticità permea di malinconia il semi-brutto che ci offre, più docilmente del bello, indizi narrativi che lasciano spazio allo spirito conservatore, che non muore mai (49).

Lo spirito conservatore che non muore mai, questa formula con la quale Squatriti conclude il suo saggio può essere spiegata anche alla luce di quanto Scarrocchia afferma a proposito del dipinto di Gérôme in quanto emblema del «segreto del potere imperiale. Giusta la teoria di Elias Canetti, secondo la quale ‘il segreto sta nel nucleo più interno del potere’» (111). Uno dei concetti fondamentali di Massa e potere è la spina. Forse quel pollice -indirizzato che sia verso l’alto o verso il basso- ha in ogni caso la stessa struttura verticale della spina come parte della morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Questo dipinto-arazzo è anche un simbolo dell’angoscia del comando, del suo dare la morte e poterla sempre ricevere, al minimo capovolgersi delle sorti e del tempo.

Il tempo è dunque il vero nucleo di questo libro e degli eventi che narra, descrive, mostra, documenta. Che cosa sono le fotografie di cui è intessuto, a partire dalla grande immagine che a p. 21 mostra la famiglia Angioletti in vacanza nel 1895 sul Lago Maggiore? Che cosa sono i testi d’archivio che sin dai primi decenni del XIX secolo narrano la storia degli istituti che accoglievano i bambini ‘esposti’? Che cosa è questo grande arazzo/telo figurato? Tutto questo è il tempo. È negli oggetti e nei corpi che sin dall’inizio e finalmente il tempo diventa visibile, lo diventa in ciò che Marcel Proust nelle pagine conclusive del Tempo ritrovato  descrive come un teatrino di marionette «baignant dans les couleurs immatérielles des années, des poupées extériorisant le Temps, le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout, où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique». (À la recherche du temps perdu, Èdition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Paris, Gallimard, 1999, p. 2307).

Uno dei problemi comuni al moderno e al postmoderno è quello che inevitabilmente e giustamente in questo libro emerge a più riprese: il significato dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un’epoca la quale, nota giustamente Squatriti, «vede sfumare i confini tra vero e falso, tra originale e riproduzione o copia» (38). Con il Pollice verso della manifattura di Angelo Angioletti siamo davvero «di fronte ad un esempio di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, non riconducibile alla fotografia, come vuole l’ermeneutica benjaminiana, ma all’arte tessile. Con implicazione di un processo ideativo e realizzativo di grande rilievo» (Scarrocchia, p. 93). E quindi «il concetto di unicità dell’opera d’arte comincia a vacillare a fronte della sua riproducibilità in forma seriale, anche se bisognerà attendere parecchio per avere riproduzioni a colori, più prossime all’originale» (Squatriti, p. 40).

Esattamente. E ciò ha implicazioni estetiche di fondamentale importanza. Ad esempio -per quanto oggi ci sembri singolare- ancora nei primi decenni del Novecento tutte le riproduzioni artistiche erano monocromatiche. Ma è stata anche questa difficoltà nel vedere il colore -nota giustamente Eleonora Marangoni in Proust. I colori del tempo (Electa, 2014)- a rendere possibile il particolarissimo modo in cui Proust parla dei pittori e la continua creazione dei colori di cui la Recherche è fatta. Il bianco e nero aiuta infatti la memoria a ricreare il mondo, gli eventi, gli spazi, gli umani.

Il gesto del gladiatore vincente, il gesto del gladiatore sconfitto, il gesto della folla, il pollice verso, rappresentano il tempo dinamico e insieme immobile della morte, l’istante della fine, l’istante opposto al καιρός. E credo che sia questo a costituire il fascino e la potenza dell’arazzo.

Programmi dell'a.a. 2015-2016

Dall’anno accademico 2015-2016 insegnerò anche Estetica.
Pubblico qui i pdf dei programmi che svolgeremo.

Filosofia della mente (Corso Magistrale in Scienze filosofiche): Il libero arbitrio tra neuroscienze e filosofia (pdf)

Storia dell’estetica (Corso Magistrale in Scienze filosofiche): L’estetica dello spazio in Proust (pdf)

Sociologia della cultura (Corso Magistrale in Comunicazione della cultura e dello spettacolo): Industria culturale e società dello spettacolo (pdf)

 

Albertine disparue

La fuggitiva
di Marcel Proust
(Albertine disparue, 1921-22)
Trad. di Franco Fortini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XV – 321

Proust_La FuggitivaUno dei momenti assoluti della Recherche è la fuga inaudita e poi la morte di Albertine. Né prima né dopo ho letto qualcosa di così potente e di così vero sulla realtà e sulla percezione dell’abbandono e del lutto. Lentamente e inesorabilmente gli aspetti più caduchi -caste sociali, illusioni, speranze, ambizioni- sembrano dissolversi. Rimangono le potenze che guidano l’opera e l’esistere: la Verità, impossibile da cogliersi; il Tempo, intessuto di memoria e di oblio, «come c’è una geometria nello spazio, c’è una psicologia nel tempo, dove i calcoli di una psicologia piana non sarebbero più esatti, perché non si terrebbe conto del Tempo e di una delle forme che assume, l’oblio» (p. 149)1; la Solitudine, «i legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé medesimo, e che, se dice il contrario, mentisce» (pp. 36-37) 2.
Questo è la nostra vita, questo è la vita degli umani. Il Narratore ne ha appreso la forza e i segreti attraverso il tempo e la cristallizzazione da esso operata intorno alla sua amata: «Albertine, insomma, come una pietra intorno alla quale sia nevicato, era solo il centro generatore d’una costruzione immensa che passava attraverso il piano del mio cuore» (p. 23)3.
Prima di ricapitolare il ritorno della realtà e il ritorno dell’io, prima di svelare l’inquietante enigma della sua narrazione, Marcel ha lasciato dietro sé debolezze e sogni, ha intagliato -come un sole che al crepuscolo definisce meglio i contorni- disegni vasti, ironici e dolenti; ha scolpito mediante una scrittura colma di strazio e di gelo l’intera bellezza e potenza delle due forze che in un contrappunto costante guidano le vicende degli esseri che pensano: il dolore e l’oblio.
Dalla Recherche si impara a sconfiggere la sofferenza, a trionfarne.

Note

1. «Comme il y a une géométrie dans l’espace, il y a une psychologie dans le temps, où les calculs d’une psychologie plane ne seraient plus exacts parce qu’on n’y tiendrait pas compte du Temps et d’une des formes qu’il revêt, l’oubli» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 2023)

2. «Les liens entre un être et nous n’existent que dans notre pensée. La mémoire en s’affaiblissant les relâche, et, malgré l’illusion dont nous voudrions être dupes et dont, par amour, par amitié, par politesse, par respect humain, par devoir, nous depons les autres, nous existons seuls. L’homme est l’être qui ne peut sortir de soi, qui ne connaît les autres qu’en soi, et, en disant le contraire, ment» (p. 1943)

3. «Bref Albertine n’était, comme une pierre autour de la quelle il a neigé, que le centre générateur d’une immense construction qui passait par le plan de mon coeur» (p. 1933)

(Le mie riflessioni sugli altri sei volumi della Recherche si possono leggere qui: La strada di SwannAll’ombra delle fanciulle in fioreI GuermantesSodoma e GomorraLa prigionieraIl Tempo ritrovato )

Memorie e Differenza

Mente & cervello 114 – giugno 2014

M&C_114_giugno_2014Gli altri animali sono per l’appunto altri rispetto all’umano ma lo sono come le tigri sono anch’esse altre rispetto a tutto il resto del mondo animale, umani compresi. E così pure le lucertole e i gatti e le api. Ogni specie è altra rispetto all’intero. Ma lo è come sezione di una totalità della quale tutti gli animali sono parte. Ritenere che la specie umana abbia qualche primato è del tutto privo di senso dal punto di vista sia biologico sia logico. Ogni specie ha delle particolari caratteristiche, peculiarità, strutture e funzioni. L’antropocentrismo di Pico della Mirandola è chiaramente un errore. Che lo sia è ampiamente dimostrato da tutto l’insieme delle scienze naturali. È un errore tuttavia ancora molto praticato, anche e forse soprattutto per ragioni religiose.
L’affermazione con la quale Marco Cattaneo chiude l’editoriale di questo numero di Mente & cervello va quindi applicata non all’umano soltanto ma a ogni specie vivente: «La nostra unicità non può più essere banalmente considerata un sinonimo di superiorità» (pag. 3); altrettanto ‘unica’ infatti è ogni altra specie. Gli articoli che compongono il dossier intitolato L’intelligenza degli altri si occupano soprattutto delle api, degli elefanti, dei macachi, dei delfini. Ciascuna di queste specie possiede delle abilità cognitive diverse dalle altre. Ridurre tale ricchezza della materia e della natura al solito, ossessivo, ridicolo confronto con le caratteristiche di una ben precisa specie -la nostra- è davvero penoso. È quindi vero che scimpanzé e umani condividono il 96% dei geni. È vero che -come afferma C. Boesch «gli scimpanzé hanno un sé autobiografico, ossia sanno di esistere nel tempo, pianificano il futuro e sono in grado di ricordare dettagli specifici del passato anche lontano» (cit. da A. Meldolesi, 28). È vero che in un alveare alcune api sono coraggiose ed esploratrici e altre più timide e domestiche. È vero che gli elefanti vivono in complesse strutture matriarcali e vegliano i loro morti. È vero che alcuni uccelli possiedono una memoria spaziale di straordinaria potenza.
Ma ciò che conta non è ciascuna di queste differenze. Ciò che conta è non misurare tali elementi in relazione ad analoghe caratteristiche dell’Homo sapiens ma semplicemente accettare la Differenza come valore non gerarchico. E invece l’articolo di Meldolesi -che introduce il dossier- rimane contraddittorio nel muoversi tra il riconoscimento di tale differenza e la ribadita superiorità umana, a partire dalla accettazione della vivisezione, metodologia che se applicata agli umani farebbe gridare al crimine. Indice di tali contraddizioni sono le immagini che costellano l’articolo, nelle quali si vedono alcuni fotomontaggi che riducono dei cani alle patetiche figure di giocatori di scacchi in camicia e papillon, medici in cravatta e occhiali, giocatori di tennis con fascia in testa e racchetta in zampa. Evidentemente oltrepassare davvero i pregiudizi dello specismo è difficile. Ma è questione di tempo.
Si diceva della strepitosa memoria spaziale di un uccello come la nocciolaia di Clark. La memoria è naturalmente parte fondamentale dell’intelligenza e dell’identità di tutto ciò che ha coscienza di esistere. «Senza memoria non potremmo sopravvivere», come racconta James McGaugh ad Anna Lisa Bonfranceschi (79 e 83). McGaugh ha in particolare studiato i rari casi di ipertimesia, di persone che hanno una highly superior autobiographical memory (HSAM). Casi che si avvicinano, senza toccarla naturalmente, alla memoria del personaggio borgesiano Ireneo Funes. Costoro non riescono infatti a dimenticare. La memoria è una funzione complessa e affascinante, che coinvolge i sensi, la coscienza, l’identità. Come ben sa ogni lettore di Proust, anche «gli odori hanno il potere di richiamare alla mente ricordi di luoghi e momenti vissuti» (M. Saporiti, 20). I ricordi sono la vita stessa, tanto è vero che «la differenza tra memorie più o meno forti sta nella portata emotiva sperimentata durante la formazione della memoria. Più è forte l’emozione che si prova, più facile sarà ricordare gli eventi legati a quell’emozione»  (Bonfranceschi, 82-83).
Un ulteriore elemento che accomuna l’umano alle altre specie sociali è il branco, il conformarsi al branco. I celebri esperimenti di Salomon Asch, ricordati da D. Ovadia (pp. 66-69), hanno mostrato che quando in un gruppo anche ristretto la maggioranza fa affermazioni palesemente insensate, un individuo isolato comincia a condividerle, per quanto continui razionalmente a percepirne l’insensatezza. Se invece gli si dà la possibilità di rispondere per iscritto o senza che gli altri sentano la sua risposta, eviterà di accettare tesi assurde. Sta anche in tale condizionamento la forza del potere

 

La Prisonnière

La prigioniera
di Marcel Proust
(La Prisonnière, 1921-22)
Trad. di Paolo Serini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XVIII – 460

Proust_La PrigionieraIl presentimento di sofferenza con il quale si era chiuso Sodoma e Gomorra si dispiega in una parte dell’affresco proustiano che forse meglio si sarebbe potuta intitolare “Il prigioniero”. Più che Albertine, infatti, è il Narratore a essere recluso nell’insaziabilità del desiderio, nell’illusione dell’amore dato e ricevuto, in una gelosia che quando sembra attenuarsi bastano una parola, un gesto, un’immagine a ricostituire. Tuttavia la dolorosa saggezza che dell’amore è sostanza prepara il Narratore alla rivelazione definitiva –non a caso Albertine viene definita «una grande dea del Tempo» (pag. 398)1 anche attraverso la musica e la letteratura, evocate dal “Settimino” di Vinteuil e dalla morte di Bergotte. È l’arte a farsi espressione dell’identità molteplice, che è capace di «riunire in sé più individualità diverse» (160)2.
La centralità di Albertine nell’itinerario della Recherche consiste nell’essere testimone della inevitabile crudeltà del sentimento amoroso, «come se tra due esseri esistesse fatalmente una certa quantità d’amore disponibile, di cui il troppo preso da uno venga sottratto all’altro» (353)3. Ed è per questo forse che in Sodome et Gomorrhe dell’amore si dice che è un «sentimento (qualunque ne sia la causa) sempre erroneo» (Einaudi 1978, p. 214)4. Il fatto è che Albertine «mi poteva procurare soltanto sofferenza, non mai gioia. E solo la sofferenza manteneva in vita il mio fastidioso attaccamento» (23)5.
L’impossibilità di conoscere e possedere l’Altro è un’allegoria –la fisicizzazione quasi- di una più vasta impossibilità, quella della verità, la quale si dissolve nell’intuizione che il mondo è identico per tutti e differente per ciascuno. L’impossibilità dell’amore e della verità fa sì che l’Altro non esista, che egli sia l’inafferrabile e mutevole risultato del cangiante moto dei nostri sentimenti, al di fuori dei quali egli è il niente. L’Altro c’è fino a quando il nostro amore perdura. Sparisce poi in quel nulla dal quale le nostre emozioni lo hanno tratto alla vita. Anche per questo «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura» (Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 227)6, la vera vita è la parola in grado di dire a noi e agli altri la sostanza del mondo. Ed è per questo che durante la notte funebre dello scrittore Bergotte «i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione» (190)7.

 

Note

1. «une grande déesse du Temps» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1894)

2. «réunir diverses individualités» (1722)

3. «comme s’il y avait fatalement entre deux être une certaine quantité d’amour disponible, où le trop pris par l’un est retiré à l’autre» (1861)

4. «sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (Sodome et GomorrheÀ la recherche du temps perdu, 1358)

5. «était capable de me causer de la souffrance, nullement de la joie. Par la souffrance seule, subsistait mon ennuyeux attachement» (1623)

6. «la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature» (Le temps retrouvéÀ la recherche du temps perdu, 2284)

7. «ses livres, disposé trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient pour celui qui n’etait plus, le symbole de sa résurrection» (1623)

 

HAL 2014

Lei
(her)
di Spike Jonze
USA, 2013
Con: Joaquin Phoenix (Theodore), Scarlet Johansson (Samantha; voce italiana di Micaela Ramazzotti), Amy Adams (Amy), Tilda Rooney Mara (Catherine), Olivia Wilde (ragazza dell’appuntamento), Portia Doubleday (Isabella)
Trailer del film

È possibile al cinema, e in generale nella narrazione, dire ancora qualcosa di nuovo sull’amore? Su questo immortale inganno della mente che spinge la specie a proseguire e proseguire nei meandri del tempo infinito e senza scopo? Sì, è possibile. E questo film lo dimostra.
In un futuro abbastanza prossimo i Sistemi Operativi si sono evoluti sino a interagire in maniera estremamente fluida e realistica con i loro fruitori. Theodore, che di professione scrive lettere d’amore per conto di altri ma sta vivendo il fallimento del proprio matrimonio e il divorzio, acquista la versione più aggiornata di OS1 e si trova immerso in un dialogo continuo e sempre più intimo con Samantha, vale a dire con la voce del proprio computer. Questo software ha superato sin dall’inizio anche le forme più complesse del test di Turing, capace com’è di rendere le proprie risposte assolutamente indistinguibili rispetto a quelle di un essere umano. Mostra anzi non soltanto un’intelligenza ovviamente superiore ma anche e soprattutto una profonda capacità di intuizione. Sembra insomma il Siri dell’iPhone arrivato a una versione totalizzante. Affettuosa, avvolgente, attentissima, Samantha evolve a ogni istante sino a diventare cosciente del limite costituito dal non essere corpo ma soltanto elaborazione di dati. Nella consapevolezza da parte di entrambi di questo limite, il rapporto diventa completo. Theodore trova in Samantha la compagna che ha sempre desiderato. Samantha trova in lui un umano sensibile che le insegna i sentimenti. Per l’umano è la pienezza, per il software è invece una tappa che la porterà verso luoghi e forme che vengono soltanto accennati ma che sembrano avere molto a che fare con la struttura formale e matematica del mondo, con il platonismo insomma. In tal modo la natura logica e perfetta di Samantha prende ancora una volta e inevitabilmente il sopravvento.
Questo film molto bello, elegante e misurato esprime nello stesso tempo una impossibilità e una inevitabilità. L’impossibilità di sentire veramente l’amore e non soltanto di simulare le parole con le quali l’amore viene detto. Senza una corporeità protoplasmatica è impossibile provare veramente i sentimenti che Samantha afferma di nutrire. E infatti senza questo corpo il software si volge inevitabilmente verso un altrove rispetto al dolore, all’esaltazione, alla passione umani. L’inevitabilità del solipsismo. Lei è infatti dall’inizio alla fine -dalle lettere che Theodore scrive per conto di altri alla solitudine a due che chiude la vicenda- un film integralmente proustiano, nel quale l’amore è il racconto che ogni umano fa a se stesso dei propri desideri, è il riflesso della tenerezza della quale tutti sentiamo il bisogno, è la memoria ricostruita del bene dato e ricevuto, è l’incanto dell’amore che verrà. È una proiezione, un sogno, una costruzione della mente. E nient’altro. Un’illusione, insomma. La suprema illusione.
La struggente storia di un amore e una sobria ma radicale riflessione teoretica sui sentimenti e sulla logica si coniugano qui perfettamente. L’unico problema è la durata della batteria.

 

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