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La Rochefoucauld, o della saggezza

Massime.
Riflessioni varie e autoritratto
(1665)
(Reflexions ou sentences et maximes morales)
di François de La Rochefoucauld
Rizzoli 1978
Pagine 464

I moralisti francesi sono quanto di più disincantato, e dunque probabilmente quanto di più saggio, abbia prodotto la cultura europea dell’Ancien Régime. La Rochefoucauld condivide con Montaigne la limpida padronanza dello stile, la chiarezza di concetti senza veli, la profondità dello sguardo gettato sull’umano. In più, come giustamente osserva Macchia, possiede la precisione e la sobrietà geometrica con cui il suo secolo guardava il mondo. E dunque gli aforismi di La Rochefoucauld si articolano in una molteplicità di direzioni e risultati a partire comunque da un nucleo ben preciso: l’amour-propre.
È l’egoismo la vera spiegazione della vita. Quella idolatria del sé che rende gli uomini tiranni di altri uomini se le circostanze glielo consentono; esso è infaticabile nel porsi sempre al centro e nel posarsi sugli altri solo «comme les abeilles sur les fleurs, pour en tirer ce qui lui est propre» (“come le api sui fiori, per trarne ciò che loro serve”, p. 258) [le traduzioni sono mie]). È l’egoismo che rende la ragione umana più debole della volontà, che ci subordina alla forza delle passioni, la cui durata non dipende da noi più di quanto ne dipenda la vita e che zampillano dal cuore dell’uomo in modo che solo una nuova passione può scacciarne una antica. È l’egoismo che fa della più grande fra le passioni -l’amore- una forma di guerra mortale fra i sessi, più simile all’odio che all’amicizia, secondo un’intuizione che Nietzsche e Strindberg faranno propria: «Il n’y a point de passion où l’amour de soi-meme regne si puissement que dans l’amour; et on est toujours plus disposé à sacrifier le repos de ce qu’on aime qu’à perdre le sien» (“non c’è passione dove l’amore di sé domina così potentemente come nell’amore; e si è sempre più disposti a sacrificare la tranquillità di chi si ama che a perdere la propria”, af. 262, p.172). Non soltanto sull’amore i debiti di Nietzsche verso La Rochefoucauld sono evidenti; la distinzione fra cattiveria e malvagità sulla quale si impernia la Genealogia della morale ha qui una sua formulazione già radicale: «Nul ne mérite d’etre loué de bonté, s’il n’a pas la force d’etre méchant: toute autre bonté n’est le plus souvent qu’une paresse ou une impuissance de la volonté» (“Nessuno merita di venir lodato come buono, se non possiede la forza d’esser cattivo: ogni altra forma di bontà non è il più delle volte che pigrizia o impotenza della volontà” af. 237, p.164). Anche della compassione La Rochefoucauld sostiene -al pari di Nietzsche- che bisogna guardarsi dal provarla. È sempre la forza dell’egoismo che rende agli occhi di La Rochefoucauld poco sensata la pretesa stoica di non dar peso alla morte, vale a dire a ciò che necessariamente distrugge il sé. E tuttavia nell’Autoritratto leggiamo: «Je ne crains guère de choses, et ne crains aucunement la mort» (“Temo poche cose, e non temo in alcun modo la morte”, p. 442). Tornando al tema dell’amore, s’affaccia alla memoria del lettore delle Massime il nome di Proust. E in particolare il racconto L’Indifférent con la sua folgorante intuizione del «Si je ne t’aime pas, tu m’aime» (Einaudi 1978, p. 30). Principio che sta naturalmente alla base della Recherche e che La Rochefoucauld così formula: «N’aimer guère en amour est un moyen assuré pour etre aimé» (“In amore non amare troppo è un mezzo certo per essere amati”, p. 282). Formulazione, come si vede, chiarissima a cui se ne potrebbero aggiungere altre sulla facilità con cui ci si illude d’essere amati quando si ama (p. 312) o sulla gelosia il cui tormento sta tutto nella «incertitude éternelle» (“eterna incertezza”, p. 346) o infine, e sopratutto, sulla relatività prospettivistica che rende così precario questo potente sentimento: «Quelles personnes auraient commencé de s’aimer, si elles s’étaient vues d’abord comme on se voit dans la suite des années? Mais quelles personnes aussi se pourraient séparer, si elles se revoyaient comme on s’est vu la première fois?» (“Quali persone avrebbero cominciato ad amarsi se si fossero viste all’inizio come ci si vede nel passare degli anni? Ma quali persone allo stesso modo si potrebbero separare, se si rivedessero come ci si vide la prima volta?”, p. 390). La Rochefoucauld si muove, in questa selva di temi che è l’esistere dell’uomo, fra sarcasmo, scetticismo e severa moralità. Il sarcasmo che lo induce a notare -in uno splendido, folgorante aforisma- come «nous avons tous assez de force pour supporter les maux d’autrui» (“tutti abbiamo forza sufficiente per sopportare i mali altrui”, af.19, p. 88); lo scetticismo di chi sa che il sapere e la vita sono fatti di una miriade di dettagli, la mancata- perché impossibile- consapevolezza dei quali rende la nostra conoscenza «toujours superficielle et imparfaite» (“sempre superficale e imperfetta”, af.106, p. 118), è questa la vera malinconia -sentimento che l’autore ammette di nutrire- dell’uomo di genio; la moralità di chi ritiene che in ogni caso, al di là dei risultati, del successo o del fallimento, ciò che conta e che discrimina gli uomini e le azioni sia «le dessein», l’intenzione che sta alla loro base. È per questo, per la dimensione interiore del “progetto” di un uomo, che anche La Rochefoucauld invita a ritornare in se stessi, l’unico luogo di una pace possibile, pur se precaria.

Una soluzione razionale

(Det enda rationella)
di Jorgen Bergmark
Con: Pernilla August, Stina Ekblad, Magnus Roosman, Rolf Lassgard
Svezia, 2009

Erland e May tengono dei corsi di educazione matrimoniale nella chiesa protestante della città. Il loro legame appare forte e sereno. Sino a quando Erland non si innamora, ricambiato, di Karin, moglie di un suo collega e amico. I due preferiscono parlarne esplicitamente ai rispettivi coniugi in modo da cercare tutti insieme “una soluzione razionale” che consiste nel vivere nella stessa casa, in attesa che questa passione effimera svanisca. Ma la razionalità delle intenzioni stride con la profondità anche temporale dei sentimenti.

Ben scritto e splendidamente recitato dai quattro protagonisti, questo film riprende il percorso dell’indagine del maestro Bergman sulla famiglia, sull’eros, sulla geometria delle relazioni tra i sessi. Tutti ben maturi, i personaggi vivono le loro passioni con lo stesso trasporto dei ventenni, mostrando dall’intimo e dall’interno la potenza di un sentimento che secondo Proust «quelle qu’en soit la cause, est toujours erroné» (Sodome et Gomorrhe, «A la Recherche du temps perdu», Gallimard, pag. 1358). Molto bello anche il finale, con gli sguardi rasserenati dall’abbandono.

Lire Proust

LIRE, Marcel Proust
Hors-Serie n. 8
Paris, 2009
Pagine 98

«En fait, Proust est un auteur simple, c’est la réalité qui est complexe», afferma Jean-Yves Tadié nell’intervista rilasciata per questo numero monografico di Lire (pag. 19). Numero bellissimo per le splendide fotografie, per le tante notizie e soprattutto per la ricchezza delle analisi.

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L'amore

Un modo tra i più efficaci per conquistare una persona il cui affetto ci preme è non amarla. Lo insegnano La Rochefoucauld e Proust: «N’aimer guère en amour est un moyen assuré pour être aimé» (Reflexions ou sentences et maximes morales [1665], Rizzoli 1978, p. 282); «Si je ne t’aime pas, tu m’aime» (L’Indifférent [1896], Einaudi 1978, p. 30). Se dunque siamo innamorati, dovremmo fingere di non esserlo. Ma l’unico modo per fingere alla perfezione consiste nel non amare. Raggiunto questo grado saremo conquistatori del nulla, di chi è diventato per noi il nulla. Dunque un nulla è l’amore. E poco altro.

Coco avant Chanel – L`amore prima del mito

di Anne Fontaine
Francia, 2008
Con: Audrey Tautou (Coco Chanel), Benoît Poelvoorde (Étienne Balsan), Alessandro Nivola (Arthur Capel), Marie Gillain (Adrienne Chanel), Emmanuelle Devos (Emilienne d’Alençon)
Trailer del film

coco_chanel

Orfana, sarta, cantante, amica e mantenuta di un ricco proprietario terriero, innamorata una sola volta nella sua vita. E soprattutto capace di liberare il corpo delle donne da stecche, corpetti, “tende”, fronzoli, piume, ammennicoli di varia natura, per restituirlo alla grazia naturale delle forme.

Questo fu Gabrielle “Coco” Chanel (1883-1971) e il film racconta il tempo più difficile della sua vita. Audrey Tautou presta occhi e sorriso all’intelligenza, all’ambizione, alla tenacia e al talento di un personaggio cresciuto in un mondo nel quale le donne erano dei soprammobili e che lei cercò invece di trasformare in persone. Anne Fontaine attinge molto al modello e all’iconografia proustiane -abiti, dimore, cavalli, le prime automobili, un tragico incidente stradale…- per un’opera certo convenzionale ma anche piacevole da seguire.

Accoppiamenti giudiziosi

di Carlo Emilio Gadda
Presentazione di Gianfranco Contini
Nota di Raffaella Rodondi
Garzanti, Milano 2001 (1963)
Pagine 343

In questi racconti variamente pensati, composti e pubblicati, Gadda smaschera ancora una volta la banalità, l’ipocrisia e l’orrore. La guerra è l’insensata disperazione con la quale gli umani e la storia si puniscono del fatto d’esserci. La morale -la sua stessa possibilità- è una finzione. L’idolatria verso l’infanzia è strumentale bisogno di non morire. Il tempo è «lieve suasore d’ogni rinuncia» (pag. 162). Il tempo. Un lampo proustiano sembra insinuarsi e splendere in queste pagine così materiche, dolorose e raffinate: «Terra vestita d’agosto, v’erano sparsi i nomi, i paesi» (141). Proustiano è anche l’erotismo alto e profondo di alcuni racconti, come Cugino barbiere, La sposa di campagna e il molto amato dall’Autore San Giorgio in casa Brocchi.

L’ironia colta e quotidiana fa da costante contrappunto -armonioso e dissonante insieme- al tentativo di dire l’indicibile, il male: …«come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte» (166). Due dei racconti più intensi sono quelli da cui ho citato sinora –Una visita medica, La mamma– entrambi tratti da La cognizione del dolore, vero motore e sorgiva del narrare di Gadda, teso a descrivere «nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (156) sino a racchiudere in una terribile icasi l’enigma: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio» (Ivi, 158).

La versione divertita di tale orrore è il racconto che da solo è capolavoro, quellIncendio di via Keplero tutto movimento, velocità, fiamme davvero. «Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale…» (109).
Senza pietà, senza pietà -e dunque con verità- a descrivere l’orrore dell’umano, della «miseranda gallinazza (…) senz’uomo a fianco e senza farmaco a lato» (203) alla quale «i medici più costosi della città le avevano detto ch’era schizofrenica: altri, non medici, ch’era un’oca» (243). Tutti: commendatori, filosofi, ragazze, pappagalli, poeti, ingegneri, bottegai, nobildonne, domestiche, soldati, bambini, operai, studenti, tutti destinati dall’esser nati a «chiuder gli occhi nel sonno della morte men duro, se pur duro, dacché più o meno duro ma pur duro e durissimo ce l’hanno tutti, il sonno, allorché si tratti di quella bella pennichella dentro l’urna» (326), come con veemenza antifoscoliana Gadda ironicamente canta.

8 ½

di Federico Fellini
Con: Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Guido Alberti, Mario Pisu, Edra Gale, Barbara Steele
Sceneggiatura di Fellini, E.Flaiano, T.Pinelli e B.Rondi
Italia, 1963

otto_e_mezzo

Ho rivisto questo film al cinema. L’opera che si genera dalla sua stessa impossibilità, dal suo progetto sempre rinviato e realizzato proprio mentre lo si vagheggia. Come nella Recherche.
Una dichiarazione di poetica dunque, di passione per il cinema puro, per la gioia dell’immagine, sostenuta ma non divorata dalla consapevolezza critica (esplicito il sogno dello sceneggiatore impiccato e il sarcasmo nei confronti dei giornalisti…).
Il ricordo trasfigurato, l’infanzia cattolica capovolta. Tutto il film è anche una risposta al vecchio cardinale che si dichiara avverso alla felicità. Il narcisismo si fa universale aspirazione al piacere e alla bellezza.
Una stupefacente potenza visionaria, che da ogni fotogramma squaderna originali soluzioni formali, bellissime immagini che riempiono l’occhio e la mente di gioia, la gioia del cinema, della pellicola, dell’8½. Splendente.

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