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Scrittura / Danza

Tre balletti senza musica, senza gente, senza niente
di Louis-Ferdinand Céline
(Testi scelti da Progrés suivi d’Œuvres pour la scène et l’ecran, Gallimard, 1988)
A cura di Elio Nasuelli
Archinto, 2005
Pagine 75

Alcuni testi di Louis-Ferdinand Céline sono ancora interdetti, maledetti, clandestini. Nel più famoso di essi, Bagatelles pour un massacre (1937), compaiono tre balletti che nessun impresario teatrale volle mettere in scena. Ecco perché si tratta di ballets sans musique, sans personne, sans rien. Ma i tre puntini ricorrono più frenetici che mai in queste trame esotiche nelle quali la danza ctonia e infinita dei popoli selvaggi, della natura primordiale, della lussuria, della gratuità e del dono si contrappone alla finta misura borghese, al trionfo del danaro, ai mariti che d’improvviso dimenticano «tutti i loro doveri!» (p. 30), ai notabili che come in un quadro di Bosch vanno dietro musiche ebbre e silenziose. Un catalogo antropologico feroce e dolente nel quale

tutti si mettono a ballare come possono…ciascuno alla sua maniera… Il giudice con i suoi condannati… Il giudice bello, rubicondo, i condannati magri magri, con le palle e le catene… le loro donne portano i riscatti… il vecchio avaro danza con gli ufficiali giudiziari, con i debitori rovinati… Il generale con i soldati morti in guerra, esangui, con gli scheletri e i mutilati di guerra tutti sanguinanti… Il professore con gli scolari mocciosi, le piccole pesti… dita nel naso… orecchie d’asino… Il grosso pappone con le sue puttane, le viziose, le donne di strada… Il droghiere con i suoi clienti derubati… i pesi falsi… le bilance truccate… Il notaio con le vedove rovinate… i clienti truffati… Il curato con le suorine allegre e i chierichetti pederasti… ecc. (36-37)

Tutti preda anche del Progresso, che si presenta nelle sembianze mostruose e sferraglianti del Fulmicoach, «il fenomenale antenato di tutti gli autoveicoli… L’antenato della locomotiva, dell’auto, del tram, di tutti i fulminanti marchingegni…», un «macchinario che viene dall’America» (56-57), dal luogo di quella riduzione dell’umano a cosa e a banconota che la narrativa di Céline ha saputo descrivere con una potenza non eguagliata. Una forza che qui si fa danza, letteralmente. Ballare contro «la guerra, la fabbrica, il colonialismo, il progresso» (Prefazione di E. Nasuelli, p. 6), questo ha sempre fatto la scrittura di Céline. Che anche per questo dal balletto era affascinato, avvolto.

Misura e hýbris nell’architettura

L’architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi
Palazzo della Triennale  – Milano
A cura di Alberto Ferlenga
Sino al 10 febbraio 2013

Uno dei versi più celebri e importanti di Giacomo Leopardi non è suo ma è una citazione da un entusiastico testo che Terenzio Mamiani aveva dedicato alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità (La ginestra o il fiore del deserto, v. 51). L’architettura del Novecento è stata, ha voluto essere, una delle più esplicite manifestazioni di questo ottimismo. Progettare Innovare Costruire l’esistenza dei singoli e della nazioni in vista di una razionalizzazione assoluta del corpo sociale e dei suoi desideri, questo è uno dei significati che il lavoro architettonico ha rivestito e tuttora riveste.
Non a caso Guy Debord dedica un capitolo de La Société du Spectacle all’«aménagement du territoire», all’architettura e all’urbanesimo. Debord sostiene che «l’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui, se développant logiquement en domination absolue, peut et doit maintenant refaire la totalité de l’espace comme son propre décor» (Gallimard, Paris 1992, § 169, p. 165). Discutendo del classico studio di Lewis Mumford su The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects (1961), aggiunge che «le mouvement général de l’isolement, qui est la réalité de l’urbanisme, doit aussi contenir une réintégration contrôlées des travailleurs, selon les nécessités planifiables de la production et de la consommation. L’intégration au système doit ressaisir les individus isolés en tant qu’individues isolés ensemble» (Ivi, § 172, pp. 166-167).
Direi che questa ampia e istruttiva mostra è un’efficace illustrazione del bisogno che architettura e potere hanno di integrare gli individui in una solitudine collettiva.
Una prima sezione documenta con progetti tecnici e portfolio fotografici alcune delle realizzazioni che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno trasformato città e natura attraverso nuovi ponti, stazioni, metropolitane, porti, aeroporti, riusi del già costruito. Si nota in pressoché tutti questi progetti un disperato bisogno di oltrepassare la pesantezza del cemento. Un risultato tra i più belli e rispettosi è il Concrete Bridge che a Ebnit (Austria) realizza una continuità del tutto naturale tra la pietra, l’acqua e il cemento; stupefacente anche la National Tourist Route che in Norvegia consente delle magnifiche visioni in mezzo ai fiordi; davvero notevole -nella sua apparente semplicità- anche il passaggio pedonale che a Halsteren (Olanda) permette di oltrepassare un canale tagliandolo in due e dando l’impressione che i pedoni attraversino le acque.
La seconda sezione è dedicata all’Italia. Vi emerge con chiarezza il predominio di grandi opere costose, distruttive, superflue. Vi si dice, giustamente, che «in un paese come l’Italia in cui il paesaggio rappresenta una risorsa economica rilevante […] le infrastrutture non tengono sufficientemente conto della frequente presenza di un paesaggio eccezionale. […] Per progetti di tale portata sono necessari processi decisionali e operativi dal basso verso l’alto». E che nonostante tutto si possa agire per obiettivi più razionali rispetto alla hýbris che intesse di sé il Ponte di Messina, il MOSE di Venezia, il TAV franco-piemontese, è dimostrato -ad esempio- dal Minimetro di Perugia o dal rinnovamento della Ferrovia della Val Venosta in Alto Adige.
Con un’inversione assai significativa rispetto alla forma mentis architettonica degli anni Sessanta, si fa un vero e proprio elogio della lentezza, vi si parla -appunto- di «infrastrutture lente» che abbandonino il mito della velocità (quantità) a favore della qualità del muoversi e dello stare.

La terza e ultima sezione è la più affascinante e inquietante. Alcuni grandi schermi illustrano il «gigantismo delle infrastrutture planetarie e della bulimia progettuale» che nel Novecento ha indotto il potere sovietico, soprattutto con Stalin, a realizzare immense opere dagli Urali al Mar Caspio e alla Siberia; ha indotto il potere statunitense a colonizzare anche gli ambienti più difficili e ostili del continente nordamericano; ha indotto Gheddafi a costruire fiumi artificiali che in Libia portassero acqua dalle profondità dei deserti alla costa. E indusse l’architetto espressionista Herman Sörgel a progettare negli anni Venti la chiusura del Mediterraneo con delle ciclopiche dighe in modo da favorire l’evaporazione delle sue acque e abbassare il livello del bacino di un centinaio di metri. In questo modo si sarebbe ottenuta energia  e si sarebbe creato un territorio del tutto nuovo, con la Sicilia collegata alla Calabria e molto più vicina all’Africa, con le isole greche diventate un insieme unico e così via. Il nome di questo nuovo spazio sarebbe stato Atlantropa. Un gigantismo prometeico che il futuro ha ridimensionato e che oggi può invece rivolgersi ad obiettivi più rispettosi della Terra. Tra questi il progetto di un impianto che potrebbe utilizzare 20.000 km2 del Sahara per produrre energia sufficiente per l’intero pianeta. Un’energia pulita nella sua fonte: il Sole.
In ogni caso, si fa strada la consapevolezza che una «conoscenza globale» deve essere sensibile «alle differenze che ogni luogo esprime». Olismo e differenza possono costituire due delle parole chiave di un’architettura che alle sorti magnifiche e progressive sostituisca la misura del limite che siamo.

Bouvard e Pécuchet

di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243

I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.

Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.

Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).

Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).
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