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Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

La Quercia e la Bestia

Venerdì 27.9.2019 si svolgerà la Notte europea dei ricercatori, di tutte le persone che nelle Università del nostro Continente si dedicano alla ricerca negli ambiti più diversi della conoscenza. Come lo scorso anno, anche l’Ateneo di Catania sarà coinvolto con numerose iniziative.
Tra quelle che si terranno nel mio Dipartimento, una si intitola Scegli un libro al Monastero. Dalle 21,00 alle 23,00 nella Sala di lettura della nostra Biblioteca presenteremo infatti dei libri. Io parlerò di Regno animale, romanzo dello scrittore francese Jean-Baptiste Del Amo, pubblicato nel 2016.

Regno umano

Jean-Baptiste Del Amo
Regno animale
(Règne animal, Gallimard 2016)
Trad. di Margherita Botto
Neri Pozza Editore, 2017
Pagine 411

Due intervalli temporali, due epoche che si intrecciano e convergono «scontrandosi all’infinito con le tenebre» (p. 321). 

Dal 1898 al 1917 si svolge la fatica quotidiana, dura, impassibile di una coppia di contadini in un piccolo paese della Francia, «nella ripetizione dei gesti da epoche immemorabili» (29). La genitrice secca come un ramo, bigotta, sprezzante verso i paesani. Il padre silente, già malato, minerale. Éléonore nata da un amplesso veloce e spento, senza amore, e tuttavia «avida di esistere» (28). Un mondo di campi e di animali che non ha nulla di nostalgico, idilliaco, sentimentale, e mostra invece «i corpi di tutti loro, i contadini, l’odore della loro razza spregevole, delle loro carni misere e stremate, e all’improvviso le sembrano tremendamente fragili, vecchi già a quarant’anni con la morte che gli incombe sul capo, gozzuti, amputati da lame, calcinati dal sole» (118), contigui alle loro bestie e tuttavia di tali bestie insieme padri, giudici, boia. In questo tempo e in questo luogo «uomini e animali nascono, vivacchiano e scompaiono; il padre sopravvive, per miracolo o per disgrazia, fino a metà marzo, poi finalmente muore» (68) e a prendere il suo posto nei campi e nelle stalle è il cugino Marcel, del quale la piccola Éléonore naturalmente si innamora. Sino al punto da accettarlo anche quando la tremenda cesura della guerra restituisce del volto di Marcel una maschera tranciata, non umana.
La guerra. La Prima guerra mondiale che pone fine al regno arcaico dell’Europa agricola e patriarcale, trasformando i contadini in assassini. «Hanno affondato lame nel collo dei maiali e nell’orbita dei conigli. Hanno sparato alla cerbiatta, al cinghiale. Hanno annegato i gattini e sgozzato la pecora. Hanno messo trappole per la volpe, avvelenato i topi, hanno decapitato l’oca, l’anatra, la gallina. Hanno visto uccidere da quando sono nati. Hanno guardato i padri e le madri togliere la vita agli animali. Hanno imparato i gesti, li hanno riprodotti. Anche loro hanno ucciso la lepre, il gallo, la vacca, il porcellino, il piccione. Hanno fatto scorrere il sangue, a volte lo hanno bevuto. Ne conoscono il gusto, l’odore. Ma un crucco? Come si ammazza un crucco?» (125).
La Prima guerra mondiale che sta all’origine dell’immensa sofferenza contemporanea. La guerra in cui i soldati vengono «polverizzati e sparsi tutto intorno, mentre le loro ossa si conficcavano come proiettili di shrapnel nel corpo degli altri uomini» (181-182). La guerra che requisisce ogni possibile risorsa togliendo dalle stalle le giovenche, i cavalli, i maiali necessari alla logistica e all’alimentazione. La guerra che trasforma le retrovie in immensi macelli, degni di quelli di Chicago ai quali i nazionalsocialisti si ispirarono per progettare e implementare i loro Lager: «Bisogna impastoiare l’animale che si dibatte in un ultimo tentativo di sopravvivenza, poi colpirlo con una mazza, più volte, fino a rompergli le ossa del cranio, spappolargli il cervello che sprizza dall’orecchio quando la bestia cade su un fianco e muore sussultando su un letto di visceri ancora caldi. Le lame delle mannaie hanno perso il filo a furia di tranciare ossa e tendini. I coltelli non tagliano più le gole; allora i macellai le segano. Alcuni agnelli urlano giorno e notte  mentre le loro madri vengono legate per le zampe, appese e sventrate da vive» (155). Azioni come queste si moltiplicano allo scopo di nutrire la carne umana che i cannoni e le granate di una guerra abietta trasformeranno in fango.

1981. Éléonore è la matriarca della fattoria che è diventata ora un allevamento industriale di maiali. Il figlio avuto da Marcel, Henri, ha generato Serge e Joël. Serge ha generato Julie-Marie e Jérôme. Catherine, moglie di Serge, rifiuta quel luogo di puzza e di sterminio, respinge i familiari che «hanno acquisito, di generazione in generazione, questa capacità di produrre e trasudare l’odore dei maiali, di puzzare spontaneamente di maiale» (216) e si chiude in se stessa, si spranga dentro il sogno spezzato della vita.
Vita che muore è infatti quella che trionfa nella estesa porcilaia dentro la quale Henri, Serge e Joël divengono una cosa sola con gli animali, diventano i loro tiranni e insieme le loro vittime. Un mondo di verri, di scrofe, di suinetti, di maiali e di fattrici, nel quale «lo sperma stilla, sgocciola, cola» (25) insieme alle deiezioni e agli escrementi che vanamente i tre uomini cercano di contenere: «I maiali pisciano e cacano tutto il giorno nell’esiguo spazio dei recinti che a malapena permette loro di muoversi, li costringe a evacuare sotto di sé, a calpestare i loro escrementi, sdraiarvisi sopra, rotolarvisi, finché l’urina sprizzata rumorosamente dalla vulva e dal pene non scioglie le feci agglutinate, gli stronzi che esplodono, formando un fango nel quale scalpicciano e affondano automaticamente il grugno sbigottito e inutile. Quella diarrea straripa, esonda da ogni minimo interstizio, da ogni minima fenditura, cola su ogni minima pendenza del terreno, ristagna in pozze spesse e nere negli avvallamenti e nelle aree piatte» (245).
Tutto questo diventa cibo, mortadella, prosciutto, costolette. Gli allevamenti industriali di maiali e di altri animali producono «un’immensa infezione pazientemente contenuta e controllata dagli uomini, fino alle carcasse che il mattatoio rigurgita nei supermercati per quanto vengano lavate con la candeggina e tagliate a fette rosa e poi imballate nel cellophane su vassoietti di polistirolo di un bianco immacolato, si portano dietro l’invisibile lerciume della porcilaia, infime tracce di merda, i germi e i batteri contro i quali loro combattono una battaglia che pure sanno persa in partenza […], tutto questo per rimediare alle carenze e alle deficienze deliberatamente create dalla mano dell’uomo» (285), generando «un circolo virtuoso o infernale in cui la merda e la carne non sono più dissociabili» (304), emblema di un regno assai più vasto, l’intera materia vivente e come tale destinata alla decomposizione, «la porcilaia come culla della loro barbarie e di quella del mondo» (289).

Un mondo di sangue, di indifferenza e di sterco, di creature «meschine, subdole, calcolatrici, come sanno esserlo i bambini» (222), di gatti che sembrano e sono «piccole divinità atarassiche» (255). Un mondo fuori dalla fattoria che si mostra degno -nella sua ottusa violenza- della stessa porcilaia. Un mondo di suinetti fracassati contro i muri, di veleni che gli umani spargono e ingeriscono, dei quali si nutrono perché «ciò che spargono e polverizzano sulle terre da tanto tempo -il DDT, il clordano, i PCB- sono schifezze. […] L’incremento della resa è esponenziale, tutto li incoraggia all’uso dei pesticidi: l’Europa, le associazioni agricole, persino il buon senso. Hanno fede nel progresso, nella tecnologia e nella scienza» (322). In questo mondo funebre e demente, due entità accennano ad altre ontologie, ad altre luci.
La prima è un’antica quercia che «regna, indifferente al divenire degli uomini, alle loro vite e alle loro morti risibili. Amanti le hanno versato ai piedi il loro seme, uomini ubriachi e sprezzanti le hanno pisciato sul tronco, labbra hanno mormorato segreti e giuramenti negli incavi della sua corteccia. Capanne sono state costruite alla biforcazione dei rami per poi cadere a pezzi, abbandonate dai giochi dei bambini. Chiodi sono stati piantati e poi si sono arrugginiti e sono scomparsi. I vecchi passeggiano ancora dal paese al praticello, sul sentiero creato dagli andirivieni, per ripararsi alla sua ombra. Se conoscono l’albero da sempre, l’albero li conosce da sempre, loro e quelli fra i loro avi che hanno appoggiato una mano nello stesso punto, con la stessa carezza che accenna sul tronco la loro mano contorta, una mano di bimbo diventata mano di vecchio, e poi mano di bimbo nuovamente» (87).
La seconda entità è un maiale che Henri, Serge e Joël chiamano la Bestia. Un formidabile maschio frutto di incroci che lo hanno reso una creatura che «pesa quattrocentosettanta chili, è alta un metro e quaranta al garrese per quattro metri di lunghezza» (257). La Bestia riesce a fuggire dalla porcilaia e nella sua libertà «sente l’odore degli uomini lontano e come dissolto attraverso gli anni, stranamente rassicurante. Sgombera un angolo e si sdraia contro un muro. Tiene l’occhio aperto e scruta la notte» (408).
Il regno umano -naturale e mostruoso- trova un riscatto nell’altro da sé, nella differenza, in una quercia immobile, in un maiale in fuga. Il regno umano narrato in modo esatto, interiore e distante.

Contro la guerra giusta

Copio qui alcuni dei testi che ho inserito su Twitter in questi giorni:

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E ora che #Trump attacca la #Siria è diventato buono? L’informazione unilaterale è sempre al servizio degli#USA e del loro impero.

La distruzione dell’esercito siriano darebbe forza agli islamisti e all’#Isis. Poi però si lamentano degli attentati in #Europa. #AttaccoUsa

Se ne è accorta persino Repubblica: “Aviazione siriana in ginocchio, un vantaggio per la Jihad”  #attaccousa #Siria

4 bambini morti nell’#attaccousa. Tutti i bambini sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. E #May e #Merkel con #Trump contro #siria

È tanto istruttivo quanto squallido vedere ora l’ di farsi complice del ‘nazista’ in

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In che modo si è arrivati a tutto questo? Quali sono le radici profonde del bellum omnium contra omnes al quale sta pervenendo la politica degli Stati contemporanei?
Le guerre che sconvolsero l’Europa all’inizio dell’età moderna e che si conclusero con il conflitto dei Trent’Anni (1618-1648) furono così totali e feroci perché combattute in nome di Dio. Papisti contro riformati, riformati in lotta tra di loro, re cattolici contro sovrani protestanti ma anche cattolici contro altri cattolici. Tutti combattevano in nome della verità e per motivi quindi di suprema giustizia, poiché nulla -evidentemente- è più giusto che lottare per la verità assoluta del Dio.
Le paci di Westfalia posero fine a tali massacri, regolamentando i conflitti con norme estremamente rigide, che fecero emergere una delle strutture della guerra, il suo essere anche «un gioco diplomatico dominato dalla ragion di Stato con i suoi corredi di segretezza (non a caso nasce in questo periodo la diplomazia come professione) e le sue decisioni sottratte alla passionalità, che in certi momenti sembrava, appunto un gioco; come se si giocasse alla guerra, espressione da non intendere alla leggera, poiché proprio il rispetto ferreo delle regole che si pretende dai giocatori era quello che riusciva a tenere sotto controllo la violenza della guerra. E del resto, come ha mostrato Huizinga, il gioco è uno dei modelli supremi di relazione tra pari» (Archimede Callaioli, in Diorama Letterario 335, p. 22, a proposito del libro La guerra ineguale di Alessandro Colombo).
Il sistema di Westaflia -che escludeva categoricamente i civili dalle azioni di guerra- cominciò a incrinarsi con i conflitti combattuti in nome della Liberté Égalité Fraternité (giacobini e Napoleone) per crollare del tutto nel Novecento con l’evento fondamentale degli ultimi due secoli: la Grande Guerra 1914-1918. Da allora la guerra non ha più rispettato niente e nessuno, tornando a un’altra sua dimensione fondativa e assai diversa dal gioco: la caccia. Decisivi furono gli sviluppi tecnologici, culminati con l’utilizzo dell’aviazione non come sfida nei cieli tra cavalieri/piloti ma come strumento terroristico esplicitamente teorizzato per la prima volta dal generale italiano Giulio Douhet, proprio durante la I Guerra Mondiale. Secondo questo militare l’aviazione avrebbe dovuto svolgere un ruolo del tutto autonomo e capace da solo di mutare le sorti del conflitto, poiché -scrisse- «rende immensamente di più distruggere una stazione, un panificio, una officina producente materiale bellico, mitragliare colonne di camions, treni in marcia, maestranze, ecc. che non bombardare o mitragliare trincee. Rende immensamente di più infrangere resistenze morali, dissolvere organismi poco disciplinati, diffondere il panico ed il terrore che non urtarsi contro resistenze materiali più o meno solide» (cit. da Callaioli, ivi, p. 23).
Attenzione alla parola chiave enunciata da Douhet: terrore. Pur di ottenere la vittoria definitiva contro il male assoluto, rappresentato dalle potenze dell’Asse, si giunse al «momento culminante, ai ‘più perfetti atti terroristici della storia’: Hiroshima e Nagasaki» (Ibidem). In nome della suprema giustizia si giunse a cancellare in pochi minuti le vite di centinaia di migliaia di civili, di persone non in armi. Lo stesso era accaduto tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 a Dresda, incendiata dall’aviazione britannica per esplicita volontà di Winston Churchill. Dresda non ricopriva alcun ruolo strategico; per colpirla -e bruciarne centinaia di migliaia di abitanti- il democratico Churchill parlò esplicitamente di terrore da trasmettere ai tedeschi, ai cittadini tedeschi.
Il terrore portato nel Vicino Oriente e in Europa dall’Isis e dalle altre forze islamiste è attuato in nome di Dio e per la verità del Corano. Il terrore portato dagli eserciti statunitensi ed europei in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria è attuato in nome della democrazia, dei diritti umani, della giustizia.
Se tutte le guerre sono delle catastrofi, quelle giuste sono le più feroci, senza confronto. «Non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un ‘giusto’, vale a dire delle regole rispettate, nella guerra. Così accadde nell’età moderna [per merito dei Trattati di Westfalia] e a questo bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una ‘guerra civile mondiale’ senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità assolute» (Eduardo Zarelli, p. 35).
Intendo qui dire con chiarezza che mi pongo contro tutte le guerre combattute per Dio, per la verità, per la giustizia, per la democrazia. Anche perché i primi a opporsi a tali conflitti dovrebbero essere i filosofi. Quando anch’essi, invece, cadono nella trappola della verità assoluta (‘verità’ andrebbe declinata sempre al plurale) accade che si facciano complici dei peggiori crimini, come fu per Jean-Paul Sartre, il quale negando la terribile carestia del 1932-1933 voluta scientemente  dallo stalinismo per punire i contadini ucraini che rifiutavano la collettivizzazione delle terre, «diede una delle sue più ripugnanti prove di falsificazione della realtà e di conformismo, uscendo sconfitta [l’intellighenzia francese], ma non al punto da farsi passare la voglia di impartire lezioni di moralità politica a tutti i propri avversari» (Roberto Zavaglia, p. 25).

Anche senza la pratica della guerra giusta, la convinzione di parlare e agire in nome di un bene assoluto può condurre a esiti gravi e paradossali, come quelli che riguardano il tema dei flussi migratori dai paesi africani verso l’Europa. Nei confronti di chi evidenzia che l’identità è un concetto e una realtà del tutto ovvia per qualunque società umana -dalle più piccole tribù ai grandi stati- si alza il coro del conformismo più miope, incapace di vedere -semplicemente vedere– «che nel corso della storia gli individui hanno costantemente mostrato una tendenza ad aggregarsi e a creare codici di riconoscimento reciproco -e di esclusione degli estranei- intorno ad una serie di referenti sia concreti che simbolici che dessero loro la sensazione di co-appartenere ad una o più precise entità plurali. Si sono insomma voluti pensare come comunità e come popoli» (Marco Tarchi, p. 2). Ogni tanto qualcuno si sottrae al conformismo liberale e liberista dell’accoglienza indiscriminata che favorisce il Capitale, mette a rischio le culture di arrivo e crea violenza contro i migranti. Paul Collier ad esempio, figlio di migranti e intellettuale di sinistra, il quale in Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza, 2015) argomenta una «tesi che può essere riassunta in questi termini: le porte non vanno né aperte né chiuse, ma socchiuse; un po’ di immigrazione sì, troppa immigrazione no» (Giuseppe Giaccio, p. 29).
Paesi come il Canada e l’Australia, pur essendo enormemente più estesi degli stati europei e praticamente disabitati (l’Australia) «limitano  l’immigrazione alle persone in possesso di un titolo di studio superiore e associano ai sistemi a punti una serie di colloqui tesi a valutare altre caratteristiche», come ricorda appunto Collier (ibidem). Di fronte a politiche così ‘fasciste’ attuate dal Canada e dall’Australia, perché non dichiarare loro guerra in nome del supremo diritto all’emigrazione? Sarebbe certamente una guerra giusta.

«Forêts de symboles»

Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016

VonKeller_AuCrépuscoleNei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Malczewski-Thanatos-IThanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.

Distanza e libertà

L’editoriale di Marco Tarchi sul numero 322 di Diorama letterario mi trova stavolta in radicale disaccordo. Mi sembra infatti grave e incoerente che una rivista la quale giustamente in ogni numero sottolinea la pervasività del potere nell’impedire la parola, accusi di «spudoratezza» e «irresponsabilità» i redattori di Charlie Hebdo (p. 3). Che costoro abbiano in passato chiesto a loro volta di censurare dei movimenti o abbiano espulso alcuni loro collaboratori è vero ed è esecrabile, ma questo non giustifica la richiesta del «diritto al rispetto delle altrui credenze» di tipo religioso o altro (3). Per l’idea, ad esempio, che io ho del divino e del sacro -un’idea profonda e radicale- la credenza che un qualche Dio si riduca al livello umano, o che addirittura mandi un suo figlio per salvare la specie umana, è né più né meno che una bestemmia, è blasfemia. Ogni volta che ascolto questa storia -e si può immaginare come la ascolti di continuo- io mi sento offeso, radicalmente offeso. Che cosa fare dunque? Denunciare per blasfemia e per offese alla mia concezione del Sacro i cristiani ogni volta che questi aprono bocca? Che un Dio abbia a cuore le vicende umane sino a soffrire e morire per questa «Elendes Eintagsgeschlecht, des Zufalls Kinder und der Mühsal [stirpe miserabile ed effimera figlia del caso e della pena]» (Nietzsche, La nascita della tragedia, § 31) è per me una bestemmia; anche che il Dio possa avere un figlio da immolare per gli umani è una bestemmia, come d’altra parte lo stesso Caifa dichiarò stracciandosi le vesti davanti a Jeshu-ha-Notzri. Come si vede, ciascuno può essere offeso da bestemmie diverse e per evitarlo l’unica strada sarebbe il silenzio assoluto, vale a dire la morte. Alain de Benoist -pur molto critico anche lui verso Charlie Hebdo– ricorda l’affermazione di Rosa Luxemburg per la quale «la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente» (20) ed esprime questa differenza anche in modo radicale.
Sempre De Benoist difende in modo argomentato le tesi di Jean-Claude Michéa contro i mandarini della sinistra (quelli francesi sono sempre assai temibili) che lo accusano di tradimento per aver semplicemente detto la verità, e cioè che la sinistra ha rotto con la classe operaia e con il socialismo ed è ormai «stata corrotta dal pensiero liberale» (32). È per questo che «Michéa non esita a dire, come Pier Paolo Pasolini, Cornielius Castoriadis, Christopher Lasch e molti altri, che lo spartiacque destra-sinistra è oggi divenuto obsoleto e mistificatore» (29). Questi e tanti altri studiosi -Orwell e Debord tra i più espliciti- hanno sempre rifiutato l’«idea ripugnante per cui un intellettuale non deve dire ciò che pensa, ma ciò che immagina di dover dire in funzione degli ultimi sondaggi elettorali» (31).
È a partire dalla libertà di espressione e di distanza che si può essere ebrei -come Alain Finkielkraut, Élisabeth Lévy, Éric Zimmer- e rifiutare l’’industria dell’olocausto’ o la reductio ad Hitlerum di ogni avversario dell’occidentalismo (14).
È a partire dalla libertà di espressione e di distanza che si può respingere l’esaltazione della ‘Grande Guerra’, ricordando che «quella guerra fu un abominio e che da essa sono scaturiti tutti gli orrori del XX secolo», una guerra che annientò la classe operaia, sancendo la fine delle rivoluzioni sociali che avevano costellato l’Ottocento; di questo evento fondamentale bisogna ricordarsi oggi più che mai, «oggi, nel momento in cui quegli stessi che nel 1914 volevano contenere la potenza tedesca cercano adesso di accerchiare la potenza russa» (De Benoist, 21-22), non per difendere il diritto degli ucraini all’autodeterminazione ma per distruggere o almeno controllare tutte le strutture politiche ed economiche che non si sottomettano all’ultraliberismo della troika e di Wall Street, «ovvero il mondialismo anglosassone» (Michel Lhomme, 38).
È a partire dalla libertà di espressione e di distanza rispetto alla rivendicazione contemporanea dell’ignoranza, che si può dire -come fa Michéa, ricordato da de Benoist- «che l’oblio della storia e delle lettere classiche non è affatto una ‘disfunzione’ della scuola, bensì lo scopo esatto che ad essa è ormai assegnato». L’oblio del passato, il disprezzo verso le lingue e culture antiche, l’ironia nei confronti delle ricerche accademiche non immediatamente trasformabili in brevetti commerciali, corrispondono «alle esigenze congiunte della sinistra liberale, dell’industria del tempo libero e del padronato. Per questo la scuola attuale fabbrica dei cretini in serie, cioè degli incolti spinti esclusivamente dall’immediatezza dei loro desideri mercantili» (15). Come è noto, Erasmo da Rotterdam disse una volta che «quando ho un po’ di denaro mi compro dei libri, e se me ne resta acquisto del cibo e dei vestiti» (cit. da de Benoist, 15). Ma Erasmo era un uomo libero e distante.

La guerra

torneranno i prati
di Ermanno Olmi
Italia, 2014
Con: Claudio Santamaria (l’ufficiale), Francesco Formichetti (il capitano), Domenico Benetti (il sergente), Alessandro Sperduti (il tenente)
Trailer del film

torneranno i pratiAncora la maledetta, ancora quella guerra 1914-1918 che fu il suicidio dell’Europa, che pesa sul nostro presente, che costituisce uno degli esempi più chiari -forse il più chiaro di tutti in epoca contemporanea- di dove possano condurre le classi dirigenti quando nulla le può più schiodare dalle loro convinzioni politico-economiche diventate dogma.
Di quella tragedia infinita Ermanno Olmi ha saputo dipingere la miseria, l’angoscia, la rassegnazione, lo schifo, lo sporco, la paura, l’insensatezza. Ha saputo descrivere la trincea. Uomini rinchiusi sotto metri di neve nel gelido inverno del fronte di nord-est. Davanti a loro uomini, gli austriaci, che mai si vedono né si sentono e dai quali arrivano colpi di mortaio e spari di cecchini. Dall’altra parte le condizioni erano identiche. Gli austriaci dalle trincee italiane vedevano arrivare colpi di mortaio e spari di cecchini. Lo stesso nelle trincee di tutti i fronti, come raccontano anche Erich Maria Remarque e Stanley Kubrick  per il fronte occidentale. Ovunque la lordura, gli insetti, i ratti, la fame, la febbre, la disperazione di chi è intrappolato e non vede, non ha vie d’uscita.
torneranno i prati è capace di raccontare tutto questo insieme al canto di un soldato napoletano, al pianto degli ufficiali e della truppa, alla luna che splende immensa e serena sugli altopiani di Asiago mentre una volpe attraversa -libera- la neve, il filo spinato, i boschi.

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